«La gente si affacciava ai balconi e ci urlava addosso»: i Soundgarden raccontano i tour italiani | Rolling Stone Italia
«Hollywood Policia!»

«La gente si affacciava ai balconi e ci urlava addosso»: i Soundgarden raccontano i tour italiani

L’accoglienza di un gruppo di capelloni a Taranto, ma anche l’affetto della gente, un equivoco sull’eroina e una battuta: «Ogni volta che suonavamo da voi ci giocavamo un bassista». Un estratto dal libro ‘Niente specchi in camerino. La storia dei Soundgarden’

I Soundgarden nel 1989. A sinistra, Jason Everman. Foto Ebet Roberts/Redferns

I Soundgarden nel 1989. A sinistra, Jason Everman

Foto: Ebet Roberts/Redferns

La prima data del tour italiano si tiene al Uonna Club, storico locale di Roma gestito da Amerigo Brodolini, al numero 871 di via Cassia. Un piccolo club scavato nella pietra, con un soffitto talmente basso che quasi si può toccare, con zero distanza tra pubblico e palco. È il 6 giugno 1989. I Soundgarden portano in scena una scaletta di diciassette canzoni che si apre con un pezzo da novanta: Gun. È presente anche Circle of Power, in una delle sue rarissime esecuzioni. «Il set bruciava di quell’urgenza imperfetta più tipica della scena hardcore che di quella metal», racconta Michele Giorgi, uno spettatore che a un certo punto si trovò abbracciato a Cornell al centro della sala e saltò con lui a tempo di musica. «Mi sono ritrovato in una scena surreale, in mezzo al pit, qui e ora, nello sbarco italiano del fenomeno grunge».

Meno idilliaca è la versione di Lucio Cillis, allora fonico dell’Uonna Club, che ebbe il compito arduo di gestire l’impianto audio: «Il soffitto era alto non più di quattro metri, se stavi lontano dalle casse qualcosa sentivi. In pratica, il locale era una scatola in cui tutto rimbombava. I Soundgarden usarono il nostro impianto. […] Avevamo tutti sui venti-venticinque anni, dunque caratterialmente eravamo portati allo scontro. Cornell era un personaggio affascinante a suo modo, ma anche molto egocentrico. Al Uonna Club il palco era alto circa un metro e il pubblico era attaccato a chi suonava. […] A un certo punto fummo costretti a interrompere il concerto perché Cornell cominciò a lanciare i microfoni, rompendoli, e quindi ci incazzammo un pochino, perché poi il concerto sarebbe andato a puttane, la gente si sarebbe incazzata. Ci fu uno scontro verbale molto forte tra me e lui, qualche minuto di faccia a faccia. Poi ci siamo chiariti: aveva capito che non eravamo lì per rompergli le palle, ma per permettergli di portare a termine quel dannato concerto».

Anche Eric Johnson ricorda bene quella data, ricostruita con dovizia di dettagli in Total F*cking Godhead: The Biography of Chris Cornell di Corbin Reiff. «Eravamo in uno strano locale sottoterraneo che pareva una caverna. Ci si arrivava scendendo degli scalini: follia pura. Il posto esplodeva di folla e sudore. Avevo posizionato il merch lungo le scale, verso l’uscita, e fui travolto dalla folla che strappava le magliette dai muri e arraffava i CD e tutto quanto».

Kim Thayil, in un’intervista per questo libro, sembra avere più ricordi del contorno, dei dettagli di quella trasferta. Ad esempio, ha ancora ben impressa nella memoria la struttura che ospitò la band. «Sembrava un convento, o una scuola. O forse un ostello. E c’erano delle suore, diverse suore. Dopo il check-in, ci scortarono nel seminterrato, dove c’erano le nostre stanze, senza telefoni e senza finestre. Solo un letto, una sedia e un tavolo. Pareva di essere in carcere [ride]».

La tappa successiva è quella di Taranto, al Cinema Teatro Ariston, voluta fortemente dal promoter locale Franco Battafarano, che insiste per dare un assaggio di Nord-ovest Pacifico a quella che a quel tempo, grazie al suo fermento musicale, viene definita «la Firenze del Sud».

Thayil ricorda molto bene il primo impatto con la città: «Era molto diversa da Roma o Milano. Sembrava un altro Paese. Sembrava di stare in Messico, o in Sudamerica». E aggiunge un particolare che ben rappresenta, non senza un filo di folklore, cosa potesse significare per l’Italia di allora avere una banda di forestieri in città, una manciata di squinternati capelloni con i jeans stracciati, tra cui un indiano e un giapponese. «Dopo la cena al ristorante abbiamo fatto una passeggiata. La gente si affacciava dai balconi, scendeva in strada e ci urlava addosso».

Per fortuna però non ci sono solo i detrattori; una folta rappresentanza di fan accoglie la band e la crew fin dal suo arrivo al Cinema Teatro Ariston. Stuart Hallerman, intervistato per questo libro, ricorda come la gente inseguisse anche lui e Johnson, scambiandoli per musicisti. «Oh, quelli hanno i capelli lunghi; sicuro sono delle rockstar!», gridavano.

Prima del concerto, Thayil si intrattiene a parlare con alcuni fan, e quel che si sente dire è del tutto inaspettato. «Ricordo che un ragazzo, indicandomi, esclamò più volte: “Policia! Hollywood Policia!”. E l’altro invece diceva in continuazione: “Eddie Murphy!”, “Beverly Hills Cop!”. Poi guardarono Hiro e gridarono: “Kung Fu!”. In quel momento capimmo che a quei ragazzi io ricordavo Eddie Murphy, mentre Hiro il protagonista della serie televisiva Kung Fu! Dal canto mio, feci loro presente che Hiro era giapponese, non cinese. Forse ero la prima persona con la pelle scura che avessero mai visto in vita loro, fatta eccezione per Eddie Murphy nei film». Uno spaccato buffo e surreale che pare risalire agli anni Cinquanta, mentre invece è il 1989!

All’apertura delle porte, l’affluenza di pubblico al Cinema Teatro Ariston è di circa centocinquanta persone, che entrano a rilento a causa dei cavillosissimi controlli all’ingresso. Thayil ricorda anche una certa tensione: «Arriviamo e c’è tutto un dispiegamento di forze di polizia. Ricordo in particolare tante poliziotte».

A rallentare il tutto ci sono anche i cosiddetti “autoriduttori”, movimento della sinistra extraparlamentare post-sessantottina che sostiene la gratuità della musica e che rifiuta di pagare il biglietto (quindicimila lire). Un’azione, questa, che non di rado sfocia in scontri con le forze dell’ordine, ma che in quest’occasione si esaurisce senza conseguenze; anzi, i manifestanti entrano senza disordini.

Nelle fasi che precedono il concerto, Hallerman non ha vita facile nel settaggio degli strumenti. Trattandosi di un cinema, lo spazio riservato al palco è più largo che lungo e la batteria deve per forza essere posizionata non dietro, bensì davanti al gruppo. Non una gran soluzione. I microfoni a disposizione sono pochi e devono essere collegati a terra, in prossimità del pubblico, non sul palco. «Quando la band ha attaccato a suonare, la gente ha cominciato a fare invasione di palco, scavalcandosi, calpestando gli spinotti dei microfoni e i cavi», ricorda Hallerman in modo molto vivido. «Quindi, appena attacca il concerto, la voce va via, la chitarra pure, e anche la cassa. Allora mi precipito a fronte palco e ricollego tutto. Dopo venti minuti, tutti gli spinotti sono distrutti e mi rimangono due microfoni. Ecco, questo mi ricordo: la fatica di portare a casa lo show con due soli microfoni».

Anche in questo caso, Thayil ha ancora scolpiti nella mente alcuni particolari del dopo-concerto. È notte tarda, il pubblico si è ormai diradato se non per una decina di irriducibili; strumenti e merch sono già caricati sul furgone e ci si appresta a rientrare in hotel. Dino Galasso, nella concitazione delle mille cose da fare, può a volte essere un po’ scoordinato. Per giunta, quella sera, oltre a fare tutto quel che già faceva, era pure salito sul palco a suonare la chitarra su Beyond the Wheel. «Fatto sta che Dino si accende una sigaretta, mette la retro e prende in pieno una macchina», ricorda Thayil. «Da fuori si solleva un corale: “Oooh!”. E allora ci tocca chiamare le forze dell’ordine e fare tutti gli accertamenti».

Non ci voleva proprio: con quella stanchezza addosso, quando c’è solo la voglia di buttarsi sotto la doccia, tocca avere a che fare con la polizia. Però, durante i controlli, qualcosa attira l’attenzione degli agenti: è il passaporto con il nome Galasso. È la svolta.

«A quel punto, non solo ci hanno fatto passare», racconta Hallerman con una risata, «ma ci hanno anche liberato la strada. Perché con noi c’era un italo-scozzese che non conosceva una parola di italiano!». E chiosa: «Ci dissero che Galasso era un cognome molto famoso».

Due giorni dopo, un articolo del giornalista Francesco Maraglino, nelle pagine della cronaca locale di Tarantobuonasera, racconta così il concerto: «Non sappiamo se […] i Soundgarden diventeranno le rockstar degli anni Novanta […]. A noi piace pensarli sinceri e divertiti come li abbiamo visti l’altra sera: i lunghissimi capelli di Chris Cornell, ovviamente a torso nudo, novello rock‘n’roll animal, che roteano sul palco; una sezione ritmica da fare paura; una chitarra che spara accordi grezzi di matrice punk e brevi assoli hard». Nell’articolo si fa riferimento anche alla pacifica invasione di palco finale, in cui il pubblico sale ad abbracciare i musicisti.

Un’altra data di questo tour che lascerà il segno è quella dell’11 giugno al Velvet di Rimini, alla sua prima stagione estiva. La storia del club parte infatti dallo Slego di Viserba di Rimini, che ha lasciato la sua location storica per trasferirsi nei locali di un ex ristorante di via S. Aquilina. Il Velvet mette subito Rimini sulla mappa della musica che conta, in Italia e non solo, e fin da allora si distingue per la capacità di recepire in anticipo le correnti che spirano dall’estero. Non per nulla ci va gente da tutto lo Stivale.

La sera dell’11 giugno, nel tendone allestito nell’area esterna, tra le altre persone del pubblico c’è Alessandro Ceccarelli, allora presente in qualità di fan, ma che poi avrebbe finito per collaborare con il locale da addetto ai lavori. «Al Velvet e allo Slego verso la metà degli anni Ottanta c’era stato il ritorno della musica psichedelica, la gente la ballava», ricorda. «Poi sono arrivati i gruppi americani, che facevano cose più spinte a livello energetico perché più vicine al metal, e ci hanno cambiato la vita. Il mio gruppo preferito erano i Green River. Mi compravo le compilation della Sub Pop».

Come molti avventori di quel concerto, anche Ceccarelli ricorda soprattutto il magnetismo emanato dalla band, complice l’urlo epico e primordiale del suo leader. «Ero totalmente ipnotizzato da Cornell. Osservai il suo volto tutto il tempo; era in una sorta di trance. Questo è il ricordo più nitido che ho».

Stuart Hallerman porterà con sé a Seattle un souvenir di questa data, un poster della stagione 1989 del Velvet che ovviamente menziona anche il concerto dei Soundgarden. Da quel momento il poster farà bella mostra di sé per decenni sulle pareti del suo studio di registrazione, scatenando l’invidia di Kim Thayil.

Tra tutte le date del tour italiano, però, è quella di Pisa la più controversa. È il 13 giugno 1989, una primavera molto calda per il CSA Macchia Nera, ex dopolavoro della Richard Ginori occupato da circa un anno. Come molti altri centri sociali autogestiti, infatti, partecipa a una serie di iniziative a supporto del movimento antiproibizionista capitanato dal CORA (Coordinamento Radicale Antiproibizionista) dell’europarlamentare Marco Taradash, che a sua volta supporta una serie di liste candidate alle elezioni amministrative che avranno luogo in primavera e ha trovato un alleato nel leader storico dei Radicali Italiani, Marco Pannella. La linea dei due politici, seppur identica sul tema di massima, ha una lieve discordanza: Taradash punterebbe alla liberalizzazione di tutte le droghe, comprese quelle pesanti, mentre Pannella tiene una posizione più cauta, essendo orientato sulla liberalizzazione solo di quelle leggere. In compenso, però, sul cancello d’ingresso del centro sociale c’è un cartello che non lascia spazio a dubbi: «Qui niente eroina».

Il CSA Macchia Nera non era la location prescelta per il concerto, che avrebbe dovuto invece svolgersi al Cinema Teatro 20+1, nel quartiere CEP di Pisa. Poi però a Nicola Zaccardi, promoter locale, era stato proposto di far rientrare l’evento tra quelli che appoggiavano una di queste liste elettorali, che in città aveva un suo rappresentante. «Non era stata una cosa calcolata, ma contingente», ricorda lui stesso, intervistato per questo libro, che prevedeva per i Soundgarden un’affluenza assai più alta delle quattrocento persone che si presentano al CSA. E aggiunge: «La certezza del cachet l’avevano data i radicali. Loro ci avevano assicurato che la band sarebbe stata pagata. Era un ingresso a offerta, non a pagamento, ma loro avevano garantito che quella spesa sarebbe stata coperta, a prescindere dalla biglietteria».

Il concerto si svolge quindi nell’area esterna del centro sociale, nel giardino, ripulito per l’occasione. «La polizia lo sapeva già che ci sarebbe stata una manifestazione, infatti a un certo punto intervenne», prosegue Zaccardi. «I concerti hanno certi parametri da rispettare. Noi forse a volte abbiamo sforato con l’orario, ma non con i Soundgarden: loro, grandi professionisti, lo rispettarono».

Peccato che i quattro di Seattle siano totalmente ignari del contesto in cui si svolge il concerto, e lo scoprono proprio sul palco. «C’era tutto un gran dispiegamento di polizia che cercava di sedare le proteste e di fermare la musica», ricorda Thayil, che, a distanza di tempo, tiene a precisare la posizione del gruppo in quella situazione. «Anche se, a livello individuale, eravamo persone sensibili alla politica, non avevamo particolari istanze da portare avanti, tranne un senso comune di giustizia e lealtà. Forzarci ad aderire a un’idea politica precisa, senza che ne fossimo a conoscenza, ci è sembrata una mossa squallida».

In un’intervista del 2014, Cornell ricostruisce il grande equivoco di quella giornata: «Uno dei temi centrali [di quell’evento] era la legalizzazone di eroina e marijuana, ma il promoter non aveva comunicato a nessuno che noi eravamo ignari dell’iniziativa. Quindi nelle interviste tutti ci ringraziavano per il nostro supporto alla liberalizzazione delle droghe in Italia, e nel frattempo intorno a noi c’era questo dispiegamento di polizia con le armi automatiche ovunque».

E proprio qui sta la grande incomprensione: la band è sempre stata convinta, pure a distanza di decenni, che l’iniziativa fosse rivolta anche alle droghe pesanti, un tema a cui i Soundgarden sono particolarmente sensibili, vista l’incidenza della piaga dell’eroina nella comunità di Seattle. Nicola Zaccardi fa chiarezza una volta per tutte. «Per come la vedevamo noi, la cocaina era la droga dei fasci, perché era cara e alimentava un ego senza socialità, mentre l’eroina era la droga che tendeva a sfiancare gli oppositori del sistema costituito; un veleno da dare all’opposizione per poter imporre le proprie regole senza un confronto. Nessuna persona con ideologie di sinistra avrebbe condiviso la liberalizzazione delle droghe pesanti». Così come difficilmente l’avrebbe fatto una band di Seattle.

Al netto delle controversie, però, Thayil conserva un bel ricordo di quel concerto: «Suonammo addirittura un bis e Dino Galasso venne sul palco a suonare Problem Child degli AC/DC e Sunshine of Your Love dei Cream. Alla fine eravamo tutti ubriachi e le abbiamo suonate un po’ alla buona, ma ce l’abbiamo fatta. È stata una bella serata: c’era caldo, abbiamo suonato a volumi estremi e ci siamo scolati un sacco di birre».

Sempre a proposito dell’incidente ideologico che caratterizzò la data di Pisa, nell’intervista concessa per questo libro Matt Cameron fa intendere che, in quei primi anni di tour, era piuttosto frequente trovarsi a suonare in contesti politicizzati di cui non si aveva idea. «C’erano delle date fissate anche con un anno di anticipo, noi ci presentavamo e suonavamo. Venivamo catapultati in queste situazioni e ci adattavamo, facevamo il nostro concerto e poi via, verso la tappa successiva. Era dura». E poi fa un’osservazione interessante che riguarda il modo in cui si affrontano le tournée oggi. «Il panorama è davvero diverso. I gruppi hanno un’assicurazione, un ufficio risorse umane. Hanno tutta quella struttura “da azienda” che oggi è molto più presente rispetto a quegli anni».

La controversa esibizione di Pisa è seguita dalla data conclusiva della tappa italiana del tour, quella del 14 giugno allo Studio 2 di Torino, che nella storiografia dei Soundgarden sarà annoverata come l’ultimo live con Hiro Yamamoto in formazione.

A margine di questo avventuroso e frastagliato tour nel Belpaese, è bene ricordare anche un episodio curioso. Durante uno dei vari spostamenti sul bus, l’attenzione di alcuni membri della crew viene richiamata da alcuni manifesti affissi ai muri: sono quelli del circo Togni, raffiguranti inquietanti clown dai connotati chiaramente horror. Tutto il gruppo vuole averne uno, e così incaricano Bedini di spedirli a Seattle e gli lasciano dei bigliettini con i rispettivi indirizzi (Johnson lancia addirittura l’idea di fondare un Togni Fan Club a Seattle!). Bedini nota che Cameron si preoccupa di scrivere, accanto al proprio indirizzo, «batterista dei Soundgarden». Inutile dire che, di lì a poco, non sarebbe più stato necessario specificarlo.

È lo stesso Cameron, intervistato per questo libro, a chiudere con una nota commovente quell’esperienza italiana. «Fin dall’inizio erano tutti molto contenti di vederci, sentivamo che erano dalla nostra parte. Le persone ci invitavano nelle loro case, nelle loro famiglie e ci davano del buon cibo, come se ci volessero adottare». E chiude con una grande verità: «La cultura italiana è molto “dimostrativa”, quando a loro piaci, te lo fanno capire».

Dopo la data di Torino si chiude un capitolo importante per i Soundgarden. La band si dirige verso i Paesi Bassi per la restituzione del furgone e poi, da Londra, prende un volo di sola andata per Seattle. Seguirà poi una pausa, una fase di decompressione, per capire cosa fare.

Dopo un paio di mesi, tutti si sarebbero ritrovati in una stanza e Yamamoto avrebbe comunicato, una volta per tutte, la sua intenzione di abbandonare. Non è certo un fulmine a ciel sereno. In ogni caso, è una brutta notizia. […]

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L’uscita di scena di Yamamoto è vissuta dal gruppo come una specie di trauma; questo vale soprattutto per Thayil, la cui amicizia con il bassista è stata, tra le altre cose, il germe che ha dato vita agli stessi Soundgarden. «A Hiro non piaceva andare in tour», afferma, arrivando al cuore della questione, nell’intervista rilasciata per questo libro. «Lui voleva starsene a casa con la sua fidanzata, anziché andare in giro con noi. Lo capisco: anche a me sarebbe piaciuto starmene con la mia fidanzata anziché passare il mio tempo in giro con cinque puzzoni a litigare sui dischi». Soprattutto, però, a Hiro non piaceva l’idea di essere un prodotto. La sua etica di matrice punk rock, per cui la musica è al servizio delle persone e non dell’industria discografica, non lo abbandonerà mai, neanche decenni dopo, quando, in occasione dell’induzione nella Asian Hall of Fame, rilascerà questa dichiarazione: «Come diceva mio padre: “Certe persone scelgono in base all’etica. Ci soffrono molto, ma sono le più coraggiose”».

A questo punto, la band si ritrova senza un bassista, all’alba di un nuovo, lunghissimo tour. Si organizza, dunque, un giro di audizioni. La telefonata che Thayil fa a Everman serve proprio a questo: è un invito a partecipare a quelle audizioni. Poco importa che sia per il ruolo di bassista e non di chitarrista.

Everman si ritiene, senza riserve, un fan dei Soundgarden; guarda caso ha anche tra le mani una copia promozionale di Louder Than Love, recuperata a New York proprio mentre era in tournée con i Nirvana. È galvanizzato all’idea di mantenersi con la musica, di partire per un tour in cui si dorme negli hotel e non sul divano di qualcuno, e di non dover affrontare eterne discussioni per decidere chi paga la benzina del furgone. Senza pensarci due volte, si procura un basso e passa intere giornate a memorizzare le linee di Power Trip e Loud Love. Quando arriva il momento di provarle con il resto del gruppo, tutto sembra fluire in modo spontaneo. Everman non è però l’unico contendente all’audizione: ci sono altri candidati, tutte teste di serie provenienti dall’area di Seattle, tra cui Jim Tillman, bassista degli U-Men e veterano della scena nonostante la giovane età (venticinque anni). Accede alla lista dei papabili pure Jack Endino, anche se sembra più una formalità che un’intenzione seria (il suo provino, infatti, ha tutta l’aria di essere una jam tra amici). E poi c’è un altro candidato di ferro: Hunter “Ben” Shepherd, una presenza quasi osannata nella scena punk di Seattle. Lui ed Everman hanno una cosa in comune: una breve, e poco felice, permanenza nei Nirvana.

Concluso il primo giro di audizioni, ne parte un secondo; Kim richiama Jason e gli chiede un’altra prova. Stesso copione: finita la jam, il ragazzo nutre poche speranze. La concorrenza è troppo accesa perché lui abbia una chance.

Per un mese, tutto tace. Poi, una sera d’autunno del 1989, si ritrova a girare per Seattle in macchina con Cornell, Thayil e Cameron. Quel pigro peregrinare li avrebbe portati al Lake View Cemetery, nel quartiere di Capitol Hill, noto per essere il luogo in cui riposa Bruce Lee. È lo stesso Everman, a questo punto, a ricostruire gli attimi salienti di quella serata, durante un’intervista di diversi anni dopo. «Nella mia testa c’era un momento specifico in cui i ragazzi mi avrebbero detto: “Hey, Jason, hai fatto un buon lavoro. Ma prendiamo un altro”». E continua: «Erano circa le dieci di sera, il cimitero era chiuso e così abbiamo scavalcato la cancellata. A metà salita, credo che Matt e Chris fossero già dall’altra parte, Kim si volta verso di me e in modo quasi noncurante mi dice: “Ti va di entrare nella band?”».

Va da sé che Everman accetta senza esitazione. Non gli sembra vero che qualcuno gli offra una seconda chance, proprio quando la vita sembrava portarlo via dalla musica. […]

***

Visto l’annullamento del tour, l’arrivo dei Soundgarden a Colle di Val d’Elsa prende tutti in contropiede; in primis Carlo Spinelli, responsabile dell’associazione The Fabulous Macelleria Ettore, che aveva fortemente voluto quella data. La location del concerto sarebbe stata la sala da ballo della Piscina Olimpia, che, insieme all’Oikos di Gracciano dell’Elsa, è tappa fissa delle tournée delle maggiori band internazionali.

Colle di Val d’Elsa, città di ventimila abitanti, è una piccola roccaforte del circuito underground che, tiene a specificare Spinelli, «non si sente senese, pur essendo in provincia di Siena». E prosegue, ricostruendo la genesi di questo concerto mancato partendo dall’agenzia di promozione Mirex: «Mariano Barbieri mi chiamò e mi disse che stava cercando di avere i Soundgarden; gli dissi che li avrei presi io, e che, pur di averli, ci saremmo presi anche un’altra band che lui non sapeva dove piazzare, i Loop».

Spinelli ricorda anche vari dettagli, tra cui il cachet – quattro milioni e mezzo di lire, «audio compreso, perché l’impianto era il loro» – e soprattutto, la spensieratezza di una serata senza concerto: «Abbiamo passato il tempo a parlare dei massimi sistemi e a mangiare panini al Bar Centrale da Gianfranco».

Il giorno dopo, il gruppo sarebbe ripartito alla volta di Seattle, per mettere la parola «fine» a quello storico non-tour.

Ancora una volta, l’Italia lascia un marchio a fuoco sulla line-up dei Soundgarden; in questi giorni, infatti, tra presunte appendiciti, risse fuori dai locali e concerti saltati, si sancisce la fine della collaborazione tra la band e Jason Everman, che vede di nuovo stroncata di botto la sua permanenza in un gruppo che ama. Il suo ultimo concerto sarà quello del Subterrania di Londra, il 6 maggio 1990.

«Cominciò a circolare tra noi l’idea che forse avremmo fatto meglio a evitare l’Italia, perché ogni volta che suonavamo là ci giocavamo un bassista», ammette Thayil divertito, specificando che si tratta di una battuta. E sarà pure una battuta, ma il fondo di verità è ineccepibile. Anche se, a onor del vero, la fine di Everman nel gruppo era piuttosto telefonata, e le problematiche che hanno portato a quest’epilogo rispecchiano, per molti aspetti, quel che era successo in precedenza con i Nirvana. Anche in questo caso, infatti, la chimica e l’entusiasmo che in un primo momento sembravano molto presenti tra lui e la band, hanno lasciato il posto a un diffuso malumore e a un progressivo isolamento, fatto di aggressività passiva e di rancori, ma soprattutto di silenzi. Bastava poco perché il bassista riccioluto transitasse dalla più totale allegria al più spiazzante dei bronci, piombando in quella specie di nuvola nera che lo faceva stare ingrugnito, sul bus, con le cuffie in testa.

In particolare, il dialogo era diventato difficile con Cornell, che, al contrario degli altri, non cercava una mediazione. A lui era spettato infatti l’infausto compito di comunicare a Jason che era fuori. «Non funziona», gli aveva detto, in sintesi. Argomenterà meglio poche settimane più tardi, in un’intervista rilasciata alla rivista City Heat: «Non bastano pochi incontri con una persona per capire davvero chi è e come interagirà con la band. Tra noi non è scattata la scintilla. Musicalmente, ma anche su altre cose. La chimica all’interno di un gruppo è un equilibrio fragile e non puoi esser certo che la scelta fatta si riveli azzeccata al 100%».

Hallerman, dal canto suo, vede alcuni problemi sul fronte artistico, oltre a quello caratteriale, e li riassume così, in un’intervista rilasciata per questo libro: «Jason era un fulmine nell’imparare a memoria le canzoni: lo faceva bene e in fretta. Ma quando si trattava di improvvisare, inventarsi qualcosa di nuovo, quando la band jammava, metteva giù il basso e s’incupiva. Come se fosse privo di un proprio lato creativo».

Everman, manco a dirlo, reagisce malissimo a quest’allontanamento. Il suo rancore è quello di un amante abbandonato senza preavviso. E la sensazione diventerà ancora più cocente quando scoprirà che a rimpiazzarlo sarà un suo amico.

Tratto da Niente specchi in camerino. La storia dei Soundgarden di Valeria Sgarella (Tsunami Edizioni)