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‘La macarena su Roma’ di Iosonouncane è il dizionario musicale delle nostre distorsioni

Dieci anni fa al posto dei rider c'erano i call center e al posto dei social c'era la tv, ma l’esordio del cantautore di ‘Die’ svelava con lucidità la stessa crisi che viviamo oggi

Foto: Francesco Fanale

Confesso che non ascoltavo per intero La macarena su Roma da un sacco di anni. Un po’ perché, probabilmente come quasi per tutti, da un lustro a questa parte Iosonouncane significa soprattutto Die, ma anche perché, nella mia mente, il disco d’esordio del cantautore sardo è calcificato assieme a un periodo storico dell’Italia e della mia vita che si sono conclusi e che percepisco ormai come praticamente inaccessibili.

Conservo ancora perfettamente nitido il ricordo di un giorno dell’inverno di una decina di anni fa – quando La macarena su Roma era uscito da poco ma era già accompagnato da ottime recensioni – trascorso interamente ad ascoltare a loop da un computer non mio Il corpo del reato, verosimilmente scaricato da YouTube con qualche convertitore mp3. Ero paralizzato sul letto a una piazza e mezza, in una specie di monolocale su strada ricavato da un garage, nel quale, per una serie di circostanze, mi è capitato di vivere per un breve periodo a Bologna. Ero uno studente universitario che perdeva tempo, mediamente depresso e angosciato dal lavoro precario, senza alcuna idea di cosa avrebbe riservato il futuro. Praticamente un cliché, ma anche una descrizione piuttosto calzante della mia generazione sul finire degli anni Zero o di quella precedente, a fine millennio. Che poi sono le protagoniste del disco in questione, che sto ovviamente riascoltando da qualche giorno per scrivere questo pezzo, rendendomi conto che è tutto fuorché da relegare agli archivi, che non è cambiato niente, che è ancora attualissimo nelle tematiche e che, sebbene oggi sia solo un esercizio di stile rintracciarli, racchiude in 12 tracce gli embrioni di tante delle distorsioni che oggi si trovano nel mondo là fuori.

Al posto dei call center, ci sono i rider, ma solo perché nel frattempo lavorare in un call center è diventato persino un privilegio, così come ottenere uno straccio di contratto, bene anche se a tempo determinato. Al posto della televisione trash del tardo berlusconismo ci sono i social e i commenti che prima venivano neutralizzati dallo schermo oggi sono visibili a tutti. Per il resto, eccoci qua: gli sbarchi dei migranti, il cognitariato, l’alienazione, il lavoro salariato, la vita agra di provincia, la scomparsa dei sindacati, il Paese in collegamento da bordo campo in cui il calcio non si ferma mai. In qualche modo è impossibile non provare un pizzico di nostalgia, nonostante la narrazione critica, corrosiva e spietata con cui l’allora giovane e precario Iosonouncane ha farcito ogni traccia del disco, alle prese con quell’intenso periodo della storia del nostro Paese, in piena crisi economica, che presto avrebbe assistito alle dimissioni di Berlusconi, all’arrivo dei governi tecnici e alla pioggia di lacrime e sangue nella quale hanno affondato robuste radici gli allora appena nati populismi, anche se ancora non li chiamavamo così.

Probabilmente solo le Canzoni da spiaggia deturpata e Per ora noi la chiameremo felicità delle Luci della Centrale Elettrica hanno saputo mettere in musica così bene il racconto generazionale di quegli anni, con altrettanta intensità e smarcandosi dalla melodia e dal formato canzone. A mio modo di vedere, interpretando al meglio lo spazio che a quei tempi e ancora per poco occupava la musica alternativa italiana, che un minimo ancora teneva un piede negli spazi collettivi o nei centri sociali, mentre tutti quanti iniziavamo a interfacciarci con un digitale reale e non più quello che avevamo letto sognanti sui libri di teoria.

La macarena su Roma, per esempio, prende a piene mani ed esplicitamente dai cantautori – Lucio Dalla, Giorgio Gaber, Fabrizio De André, Franco Battiato – ma senza scimmiottarli e senza impoverirli emulandoli con delle versioni appiattite, semplicemente perché non ha la pretesa di eguagliarne i fasti, cosa che sarebbe impossibile anche solo per contingenze storiche. Salvo alcune eccezioni (peraltro passate sempre in secondo piano), la musica alternativa italiana di inizio millennio si era guardata bene dall’avvicinarsi anche solo di poco ai cantautori, tant’è che quando ha iniziato a diminuire quella specie di riverenza e ci si è resi conto che si poteva generare ricchezza cantando in italiano e attingendo dalle esperienze degli anni ’60 e ’70, l’entusiasmo era schizzato alle stelle, è inutile soffermarsi qui su quelli che chiameremo aspetti positivi dell’indie italiano. Peccato solo che quel periodo di, diciamo, ricerca sia durato ben poco e che l’approccio sia passato nel giro di poco tempo da ossequio a copia e incolla spudorato. Vabbè. In La macarena su Roma c’è anche  il vizietto di chi faceva “musica emergente” nel 2000: guardare eccessivamente all’estero, che è una cosa che non ci è mai riuscita particolarmente bene. In questo caso però i risultati sono buoni, anche perché non riguardano i testi, ma la contaminazione con l’elettronica, con i rumori e con una certa acidità nei suoni. La macarena su Roma di fatto è un disco sperimentale, pieno di parlato, strutturato su sole cinque canzoni portanti che pure non si possono certamente considerare facilmente accessibili.

Era un po’ quello in cui speravamo, che le cose non fossero esattamente facili, ma che almeno avessero tanto da raccontare, anche solo per poi poterle ricordare.

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