Parlare di un disco come Bollicine oggi, nell’era dell’ipersensibilità, dell’indignazione di massa, del vittimismo come paradigma dominante e delle pregiudiziali politiche che sempre più spesso pretendono di colonizzare (e plasmare) lo spazio dell’elaborazione artistica può risultare inutile, superfluo, nel migliore dei casi anacronistico.
Riecheggiando i termini di una polemichetta molto attuale, Bollicine non è un romanzo per sensitivity reader, ma un libraccio sporcaccione, una specie di manifesto anti bacchettoneria che fa della scorrettezza e del gusto per l’esecrabile la sua cifra stilistica: lo sfogatoio definitivo, quello in cui le caratteristiche abrasive e pruriginose della poetica di Vasco toccano probabilmente il proprio culmine.
Semplificando all’osso, potremmo considerare Bollicine come una sorta di lista di proscrizione che pretende di offendere chiunque, di generare nell’ascoltatore quell’ansia tipica di una seduta sul banco degli imputati. Di traccia in traccia, il personale sfocia nel politico: ogni brano risponde a un’esigenza espressiva propria, interiore, e va ad aggiungere un tassello a questa sorta di epopea “in minore”, stracciona e vagabonda, che Vasco ha trasformato in una efficacissima metafora non soltanto dell’Italia del tempo, ma più in generale dell’uomo, scaraventato in un mondo di cui non può né controllare, né tantomeno comprendere, i meccanismi. Un mondo che lo attrae e lo respinge al tempo stesso, con uguale violenza.
Per tutti questi motivi, Bollicine è la summa del primo periodo di Vasco: c’è la volontà di continuare a épater le bourgeois fino all’estremo, stigmatizzando l’ottusità, il conformismo, il tradizionalismo e la chiusura delle famiglie sedicenti “per bene” (Deviazioni); c’è il desiderio di sfatare il tabù sesso e liberarlo da ogni tic moralistico, rivendicandone l’aspetto ludico e irrazionale (Mi piaci perché); c’è una lucida disperazione che non sconfina mai nel compiacimento nichilista, ma nell’urlare a gran voce la necessità di attivarsi per trovare un conforto al di là di ogni consolazione metafisica (Portatemi Dio); c’è la voglia di parlare di droghe come riflesso dell’impossibilità di trovare una soluzione alle tensioni che attraversano la vita di tutti e di sperimentare raffinati giochi linguistici, impadronendosi del lessico della pubblicità per generare un’efficace parodia del «marchiorama (brandscape)» degli anni Ottanta (Bollicine); c’è l’onda lunga dell’esperienza sessantottina che lo porta a schierarsi in difesa delle radio libere (Ultimo domicilio conosciuto); c’è il desiderio di mettere a nudo in mezzo alla bolgia, con parole vere e puntuali, i dolori e le disgrazie di una società ovattata e spaventata a morte dalle marginalità (Vita spericolata).
Va da sé che, se comparato ai paradigmi che informano la società attuale, il sesto album in studio di Vasco Rossi è tutto fuorché attuale: impiegando un’espressione parecchio inflazionata, qualche simpaticone lo etichetterebbe senza troppi problemi come un disco “invecchiato male”, utile unicamente a indurre nostalgia e passatismo: un lavoro sorpassato che risente di tutti gli acciacchi della vicenda quarantennale che ha alle spalle, un feticcio da Gen X incattiviti dalla vita sempre pronti a rivendicare un passato mitico in cui si poteva dire tutto, qualsiasi cosa, senza incorrere nelle ronde social della polizia morale.
Per tutti questi motivi, provare a ricercare la grandezza di Bollicine in una non meglio precisata “attualità” è un tentativo, nel migliore dei casi, destinato a fallire miseramente: la società di cui parlava Vasco non esiste più, il rock ha smesso di essere una novità dirompente e innovatrice da almeno trent’anni, senza contare che immaginare di provocare l’opinione pubblica parlando di cocaina e dirty talking oggi, nell’Anno Domini 2023, fa quasi tenerezza.
Insomma, se diamo per scontato la grandezza di un’opera si misura (soprattutto) con la sua capacità di sorpassare a pieni voti la famigerata prova del tempo, be’, dovremmo considerare Bollicine un disco piccolo piccolo, talmente preistorico da scomparire in maniera ridicola, come un calzino infilato tra le mutande.
Se, invece, partiamo dal presupposto che considerare l’attualità come un metro attraverso cui giudicare tutto sia un’abitudine sbagliata e anche un po’ stupida (un artista ha il diritto sacrosanto di farsi interprete del suo tempo, senza doversi assumere per forza il fardello di improvvisarsi costruttore di mondi e immaginare migliaia di futuri possibili), be’, sulla grandezza di questo disco dovremmo nutrire pochissimi dubbi: Bollicine è l’opera più riuscita del cantautore che ha saputo raccontare meglio di tutti le illusioni e i disincanti dei nati in quel trentennio che sta tra l’inizio degli anni Cinquanta e la fine dei Settanta, cosa che lo ha reso amatissimo ma anche incompreso dai fuori epoca.
Che senso ha, quindi, riascoltare Bollicine oggi? Per chi ha vissuto quegli anni, equivale ad abbandonarsi alla nostalgia e alla consapevolezza di essere approdato, una volta per tutte, alla fase dei “bei vecchi tempi”; dall’altro lato, per chi non fa parte della generazione di Vasco, immergersi in questo disco equivale a osservare la fotografia di un momento sociale ben preciso: un’epoca fatta di infanzie non iper protette, di immagini non costruite e libere dal filtro reputazionale dei social, di una scorrettezza impiegata non tanto nell’ottica di escludere qualcuno o offendere deliberatamente la minoranza di turno, ma per mettere in scacco il conformismo benpensante della maggioranza e rivelarne le storture.
In definitiva, sì: Bollicine è un disco invecchiato male, e ci piace proprio per questo, perché abbiamo bisogno di riascoltarlo per capire chi eravamo e chi diventeremo. Oggi che le parole sembrano perdere peso e valore e le idee, e spesso anche le manifestazioni artistiche e letterarie, sembrano appiattirsi e omologarsi nella pigra ricerca di una facile commerciabilità e riconoscibilità, i testi di Vasco colpiscono come una scudisciata l’animo dell’ascoltatore offuscato da un comodo e pacificato conformismo. Quarant’anni dopo, la domanda fondamentale rimane la stessa: che noia sarebbe un mondo senza Vasco?