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RIP

La morte di Tom Verlaine e dell’epica del rock’n’roll

Ritratto del chitarrista, cantante, autore scomparso ieri. Era uno dei padri nobili del rock come l'abbiamo conosciuto negli ultimi quarant'anni, veniva da un'epoca in cui tutto sembrava possibile

Foto: Richard E. Aaron/Redferns

Era il volto a colpirti per primo, mentre osservavi la foto in copertina con lui in primo piano rispetto ai compagni di band. Emaciato, intenso, con un taglio di capelli – scriminatura centrale, né lunghi né corti – fuori moda nel 1977 così come in qualunque altro periodo storico. Il volto che ti immagini, assecondando una certa visione kitsch ma rassicurante della storia dell’arte, dovessero avere certi poeti maledetti, primo tra tutti quello al quale aveva preso in prestito (senza mai più renderlo indietro) il cognome.

Successivamente gli occhi erano catturati dalle mani: magre anche queste, affusolate, splendide, attraversate da venature profonde, messe in una posizione come se stessero per dirti o per offrirti qualcosa (e sì, era esattamente così). Poi c’era la foto sulla busta interna, seduto con il gruppo in studio, la Fender in grembo, la chitarra (versione Jazzmaster o Jaguar) a cui è praticamente rimasto fedele in tutta la sua carriera. E poi partivano le prime note di See No Evil, quell’attacco scandito, netto, uno schizzo chitarristico su una tela bianca ancora tutta da riempire sulla quale, nei successivi quarant’anni, si sarebbero esercitate generazioni di musicisti, e il patto al crocicchio era siglato: ormai eri catturato per sempre in quel vortice raffigurato sul retrocopertina del disco. Un disco che si chiama Marquee Moon. “Lui” era Tom Miller in arte Verlaine, scomparso ieri, sabato 28 gennaio 2023, per cause naturali non ancora specificate (“una breve malattia”, recitano i primi scarni comunicati) a New York, la città alla quale il suo nome rimarrà associato in eterno. Aveva 73 anni, compiuti da un mese e mezzo.

Il primissimo incontro con l’artista, per chiunque sia cresciuto nell’era non-digitale e abbia un pur minimo interesse nei confronti della musica rock, è probabilmente avvenuto così come abbiamo provato a descriverlo in queste righe. Difficile dire se rimanere imprigionato iconograficamente nella cornice estetica (visiva, musicale) del proprio esordio discografico sia una benedizione o una maledizione. Forse nessuna delle due cose. Spesso Tom Verlaine si era detto rammaricato del fatto che per la maggior parte delle persone fosse rimasto quello di Marquee Moon, sostenendo di aver suonato cose decisamente migliori successivamente. Ma è anche vero che dopo quei due primi album dei Television (il secondo, il “rosso” Adventure, e mettiamoci anche il terzo omonimo pubblicato in seguito alla prima reunion della band all’inizio degli anni ’90, ancora molto belli ma più “normali”, almeno su una scala di eccezionalità artistica impossibile da rispettare come quella fissata da Marquee Moon) si è come ritratto.

La carriera solistica lo ha visto produrre una serie di album eleganti da padre nobile della new wave negli anni ’80 (da ascoltare assolutamente almeno il primo omonimo, Dreamtime e Words from the Front), per poi farsi sempre più rarefatta negli ultimi tre decenni: il suo ultimo disco, Songs and Other Things, risale al 2006. Qualche collaborazione, qualche colonna sonora per spettacoli, mostre e progetti artistici vari, qualche produzione, qualche tour (anche come Television) per portare la leggenda in giro a beneficio delle nuove generazioni. E naturalmente i concerti con Patti Smith, sempre defilato sul palco e spesso nascosto sotto un cappello. Chi scrive lo vide dal vivo la prima volta a metà dei ’90, ingenuamente speranzoso di poter ascoltare una Venus o una Guiding Light magari fatte per dovere di firma ma, ehi!, erano comunque Venus o Guiding Light suonate da Tom Verlaine lì davanti a te. Invece il chitarrista era nascosto nell’ombra, se ne poteva intuire giusto il profilo affilato, intento a sonorizzare un film muto del quale non ricordo neppure il titolo. Ma quelle note sparse, prolungate, quello stile che qualcuno ha definito puntinismo sonoro, quelle no, non le avrei dimenticate.

Uno stile chitarristico unico e inimitabile, per usare un cliché. E quanti ci hanno provato, a imitarlo. Finendo spesso per riprodurre, appunto, un cliché. Gli assolo di Verlaine in Marquee Moon (resi indimenticabili anche dalle incursioni dell’altro chitarrista della band, il fantastico Richard Lloyd) sono la pietra sulla quale è fondata la chiesa di gran parte della new wave, del college e indie rock che dir si voglia, della neo psichedelia e probabilmente di qualunque altro genere musicale abbia visto figurare una chitarra dal ’77 in qua. Un approccio alla sei corde fatto di minimalismo espansivo, se può aver senso un ossimoro del genere. Rigore e economia, ma anche fluidità, melodia, grappoli di note spesso sottolineati da effetti come il vibrato, il delay, lo slap echo tipico del rockabilly. Virtuosismo assoluto che faceva di tutto per non mostrarsi tale, almeno nel senso peggiore del termine che tanto rock degli anni ’70 – ridondante, magniloquente, machista – aveva imposto. Uno stile figlio anche della educazione al jazz (Verlaine aveva studiato piano e sax da ragazzo, prima di aver mai toccato una chitarra) e degli ascolti compulsivi di John Coltrane, Albert Ayler, Sonny Rollins, così come dell’amore viscerale per il garage rock e la psichedelia assorbiti nel tumulto dei Sixties oppure (ri)scoperti grazie a una provvidenziale copia di Nuggets, la raccolta curata nel 1972 dall’amico Lenny Kaye: i 13th Floor Elevators, i Moby Grape («i Television si sono sciolti in una notte di luna piena, come i Moby Grape», ci teneva a specificare orgogliosamente), i Grateful Dead estatici di Dark Star ma soprattutto, nell’incrocio delle due chitarre soliste, i Quicksilver Messenger Service. Nomi a cui va aggiunto un coetaneo inglese di Verlaine, che aveva esordito molto prima di lui, e cioè quello di Richard Thompson. I dieci minuti perfetti di Marquee Moon, il brano, devono molto ai Fairport Convention di A Sailor’s Life. Veraline lo ha sempre riconosciuto, con la serenità dei grandi artisti che sanno essere grandi trafugatori ma anche grandi trasfiguratori. Dei perfezionisti ossessivi, anche.

In uno dei tantissimi omaggi da parte di musicisti letti in queste ore, l’ex chitarrista dei Church Marty Willson-Piper (che con Verlaine collaborò e andò in tour) ricorda un aneddoto significativo raccontato da Tony Visconti. Durante le incisioni di Scary Monsters, David Bowie avrebbe voluto un contributo di Verlaine. Il chitarrista, che all’epoca sembrava piuttosto male in arnese, chiese che gli affittassero degli amplificatori. Il giorno dell’incisione, Visconti e Bowie si ritrovarono Verlaine che provava «praticamente ogni amplificatore di New York. Non scherzo: ce n’erano una trentina uno in fila all’altro». Attaccava il plug a uno, suonava la sua parte di chitarra, lo staccava, lo riattaccava a un altro, risuonava la stessa parte, scuoteva la testa e ricominciava con l’ennesimo amplificatore. «Alle 7 di sera, Tom Verlaine era ancora lì che provava amplificatori, il tempo stringeva e decidemmo di rinunciare». Bowie si sarebbe accontentato di coverizzare Kingdom Come, dal primo album di Tom.

Allargando il quadro alle influenze non solo musicali c’erano i poeti simbolisti, Verlaine quello vero e Rimbaud. C’erano Gide, Camus, Genet e Lautréamont. C’erano Burroughs, i beat, Hubert Selby Jr e Warhol. C’era la New York in bancarotta e desolata dei primi anni ’70, quella del CBGB’s e del Max’s Kansas City, di Jim Carroll e Johnny Thunders, dei fantasmi dei Velvet Underground che uscivano ancora dai tombini sulla Bowery. Una città nella quale Tom Miller era giunto diciannovenne, dal Delaware in cui era cresciuto (anche se era nativo del New Jersey) insieme all’amico del cuore Richard Meyers, poi diventato Richard Hell. I due si erano conosciuti a scuola, e prima di arrivare nella Big Apple – dove erano andati per diventare dei poeti e finiranno per fondare una band di rock’n’roll (i Neon Boys) – avevano già fatto tutte le cazzate che si fanno da adolescenti e ancora di più se si era adolescenti in quegli anni. Una di queste, narrano leggende apocrife, fu dare fuoco a un campo. «Uno dei due voleva scaldarsi: l’altro voleva solo vederlo bruciare», e chissà se è vero anche questa ma vogliamo fortemente credere di sì.

Un’altra forse solo potenziale è stata immortalata da Verlaine nel testo di Venus: “Richie disse perché non ci vestiamo da poliziotti, qualcosa mi suggeriva che era meglio di no”. Sicuramente vera è la cartolina con la quale, nel ’68, Tom annunciava a Richard il suo prossimo sbarco a NY. «Arrivo venerdì una volta per tutte (…) Venerdì scorso il primo trip acido. Cazzo che sballo, ho scoperto cose incredibili sul mondo». Il testo è riportato in New York 1973-1977. Cinque anni che hanno rivoluzionato la musica di Will Hermes, uno dei testi capitali per approfondire quella New York e quella scena, della quale Verlaine e i Television sono stati un pilastro. Un altro è Please Kill Me, fantasmagorica “oral punk history” curata da Gillian McCain e Legs McNeil. E poi naturalmente c’è quella meraviglia autobiografica di Just Kids di Patti Smith.

Patti e Tom, Tom e Patti. Amanti per un breve periodo, amici (di più: fratello e sorella) per tutto il resto della vita. Si assomigliavano persino fisicamente, una il doppelgänger dell’altro. Pare che lei fosse lì, al suo capezzale, a confortarlo negli ultimi momenti. Forse gli ricordava quella volta in cui registrarono la cover di Hey Joe, il primo singolo del Patti Smith Group e primo brano in cui si ascolta la chitarra di Verlaine. In Just Kids la Smith racconta che per venire incontro alla sensibilità di Tom, si vestì per l’occasione «in un maniera che un ragazzo del Delaware avrebbe potuto capire»: ballerine nere, pantaloni rosa shantung capri, un parasole viola. Si avvicinò al microfono, sussurro «hi, Jimi» e poi Tom aggiunse in sovraincisione il suo assolo. Fine. Anzi, no: era l’inizio di tutto.

Qualche ora dopo la morte di Tom Verlaine, Patti Smith ha pubblicato un messaggio. La foto di loro due, giovani, bellissimi, gli sguardi in direzioni diverse ma puntati verso qualche orizzonte visibile solo a loro. Poche parole: «This a time when all seemed possible. Farewell Tom, aloft the Omega». In tanti, ieri, hanno sussurrato il loro farewell: all’artista, alla propria gioventù in qualunque epoca si sia svolta, a un mondo congelato nell’epica del rock’n’roll che ormai vediamo svanire giorno dopo giorno. Ma chissà che anche chi è giovane oggi non incontri prima o poi la sua Patti Smith, il suo Tom Verlaine, i suoi Television, il suo Marquee Moon. Qualcosa che dica che tutto sembra ancora possibile.

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