Tra i mali di oggi molti mettono la trap, accusata di spargere disvalori non solo musicali e di usare l’Auto-Tune come scappatoia facile e fastidiosa per chi non sa cantare. “Chi ne sa” considera quelle canzoni esercizietti ridicoli al limite della filastrocca demente. Meglio, per loro, il pop e il rock «di una volta». La discriminante, secondo questi espertoni, sarebbe la qualità.
Eppure anche la critica più bacchettona si sta accorgendo che qualcosa sta cambiando. Dopo l’uscita dell’album di Lil Yachty dal titolo programmatico Let’s Start Here sembra che il destino della musica black stia andando altrove. Lil però non ha “iniziato da lì”, parafrasando il titolo dell’album. Il suo esordio risale al 2015 e ha all’attivo quattro uscite piuttosto popolari, ma in questo disco fa una cosa riuscita a pochi, ovvero sintetizzare la trap e la neo-psichedelia di Tame Impala, Flaming Lips o Unknown Mortal Orchestra (il cui bassista Jake Portrait collabora all’album). Non è un modo per tornare indietro, anzi. Il pubblico generalmente abituato a tutt’altre sonorità l’ha premiato perché se dai alla gente solo monnezza da mangiare a un certo punto migliori il menu pure di poco, comincia a dubitare dei suoi pasti quotidiani.
L’album di Lil Yachty s’inserisce in una lunga tradizione di musica black psichedelica che parte dagli anni ’60. In quanto alfiere del mumble rap, cioè quel tipo di trap in cui in sostanza non si capisce un cazzo del testo perché viene biascicato, questa conversione non deve stupire. Già in passato era evidente una forte componente psichedelica in cui le droghe sono centrali. L’uso dell’Auto-Tune in maniera straniante è il proseguimento di certe esperienze stuporose. Usato dal trapper imbottito di sostanze diventa uno strumento in grado di attualizzare la voce stentorea di un Syd Barrett.
L’uso dell’Auto-Tune in un contesto musicale in stile Pink Floyd può stupire e non poco. Anche uno scettico come Alphonse Pierre, che su Pitchfork ha dato al disco uno striminzito 6 perché irritato dalla svolta “passatista”, ammette che non si tornerà indietro dall’uso dell’Auto-Tune che viene fatto nel disco. In realtà quello coi Floyd è un paragone piuttosto facilotto: non è al gruppo britannico che bisognerebbe andare ascoltando una The Black Seminole, che farebbe pensare a The Great Gig in the Sky, ma a Black Woman di Linda & Sonny Sharrock, al funk alieno di Sly and the Family Stone, alla capacità melodica dei Love, alle grandi sfasate rock-funk-psych dei Funkadelic e dei Parliament di George Clinton e Bootsy Collins, alla “espansione sonora” dei Chamber Brothers o dei 5th Dimension. O a quella passione tra il carnale di Betty Davis e lo spirituale di Miles Davis, entrambi pionieri di una psichedelia applicata a campi fino ad allora poco adusi a quello stile come il funk e il jazz.
Al solito la critica bianca ha perso l’occasione per dare a Cesare quel che è di Cesare, lodando il disco perché vi riscontrano echi di musiche che la “riguarda”. È vero, lo stesso Yachty ha ammesso che i Pink Floyd sono un suo punto di riferimento, ma la sua fissa è Frank Ocean. Perché è stata proprio la black psychedelia ad aprirsi alla multiculturalità, alle band miste (anche nei generi sessuali), sempre al limite dell’ambiguità. Per non parlare delle influenze musicali. Jimi Hendrix, che ha praticamente siglato lo stato dell’arte della chitarra rock psichedelica, ne è stato senza dubbio un pioniere. Negli anni ’80, Prince prende una svolta ibrida tra psych rock e soul nel dittico Purple Rain/Around the World in a Day, sviluppando un mistume tra bianco nero, uomo e donna il cui DNA è chiaramente trasmesso ai trapper, anche quando non sembra esplicito (lo stesso Yachty ha una band live di sole donne, che avremo il piacere di vedere in azione il 14 dicembre 2023 al Fabrique di Milano, unica data italiana).
Nel libro Auto-Tune Theory, Kit Mackintosh indica l’Auto-Tune come il mezzo innovativo che apre la strada a una “psichedelia vocale” nella quale la voce non ha più sesso, deformata dalle correzioni e dal pitch, esattamente quello che Prince faceva nei suoi dischi meno allineati, soprattutto nell’abortito Camille in cui, camuffando la voce, interpretava il suo alter ego femminile (pare che l’album stia per essere stampato, forse non a caso). Che l’Auto-Tune sia innovativo o meno può essere discutibile, ma la psichedelia nera ha sempre sperimentato con le modifiche della voce e l’effetto in questione è un punto di arrivo: tra vocoder e talk box, questo genere musicale da politico e legato al movimento nero e ai suoi diritti ha estremizzato il concetto di libertà. L’esperienza psichedelica permette infatti non solo di trovare consapevolezza, ma soprattutto di “perdere il senso”, di smaterializzarsi, come fosse estrema ratio anarchica che la black psychedelia coglie in pieno.
L’eredità degli anni ’70 in questo senso è trasmigrata direttamente nel mumble rap dei ’10, che a questo punto non è altro che un reboot riveduto, aggiornato e corretto di queste caratteristiche e che ha tra i suoi paladini gente come Playboi Carti e Future. L’hip hop nero dei ’90 ha precedenti psichedelici, seppur all’epoca controcorrente: solo per citarne un paio, i De La Soul, che del rap hanno fatto la storia e del campionamento hanno ricavato un nuovo flower power, e i PM Dawn che sembravano imbevuti di acido lisergico e i cui testi a sfondo amoroso/esistenziale sono un po’ i diretti parenti delle elucubrazioni di Yachty. Potremmo citare anche DJ Screw, padrino del phonk, con le sue decelerazioni profonde del suono, i Dalek con i loro wall of sound siderali oppure le allucinazioni dei The Internet di Sydney Bennett passate attraverso la lente di ingrandimento weird del collettivo Odd Future.
Nel trip psichedelico vediamo oggi navigare Yves Tumor, già in odore di pionierismo e forse diretto rivale di Yachty, che ha da poco mandato alle stampe Praise a Lord Who Chews But Which Does Not Consume; (Or Simply, Hot Between Worlds). In questo caso però l’uso dell’Auto-Tune non è centralissimo, il modo di assemblare i pezzi molto più sbilanciato sull’alternative rock. Oppure Kid Cudi, il cui tentativo di azzardare una svolta psichedelica, seppur lodevole, sembra meno convinto e più spostato sul synth pop. Ad ogni modo, se un tempo un brano come LSD di A$AP Rocky sembrava fuori contesto, ora invece lo plaudiamo come uno degli apripista di questa corrente lisergica.
Ad ogni modo, è chiaro dove sta andando a finire la musica: verso una neo black psychedelia sempre più accentuata e dilagante. È il suono che può fare da antidoto ai nostri tempi di libertà fittizia, di un passato continuamente a rischio di cancellazioni e revisioni e di emozioni prese in prestito dalle intelligenze artificiali. “Let’s start here” ragazzi, è il caso di dirlo.