Sono passati 50 anni dalla sua pubblicazione, ma non sono così sicuro che chi ama Franco Battiato conosca approfonditamente il suo terzo album Sulle corde di Aries. È un gran peccato. Per molti la fase sperimentale dell’artista siciliano rappresenta uno scoglio in qualche caso assai difficile da superare, e lo capisco. Come non rimanere quantomeno spaventati davanti a lavori come M.elle le “Gladiator” o L’Egitto prima delle sabbie?
Ma Aries è una faccenda diversa. Arriva dopo il prog elettronico-allucinato di Fetus e Pollution e imbocca strade sonore molto diverse rispetto a quei dischi. Per il suo creatore ha rappresentato una sorta di terapia che lo ha mondato dalla violenza che caratterizzava le esibizioni di quel periodo per farlo entrare in un mondo sospeso e bucolico, con carezzevoli armonie mediterranee che si sposavano con il sound futuribile dei sintetizzatori. Battiato ha eretto una costruzione sonora nella quale il minimalismo mistico di Terry Riley si unica magnificamente alle tessiture esoteriche dei Popol Vuh e alla world ante litteram di formazioni nostrane come gli Aktuala. A ciò si univano testi che spaziano dai ricordi d’infanzia a invettive politico-rivoluzionarie nei quali la voce di Battiato sembra provenire da altre ere. Il tutto è ammantato da un’atmosfera sospesa e impalpabile, da rituale arcano reso futuribile dai moderni sintetizzatori. Tra mitologia e fantascienza.
Non solo, Sulle corde di Aries fa da apripista al lavoro futuro di Battiato, suggestioni di ciò che è esposto in questo album troveranno posto soprattutto in L’era del cinghiale bianco, in Fisiognomica o in Caffè de la Paix; quel tipo di mondo Franco se lo porterà dietro per sempre. Per questo è un disco che deve smettere di fare paura, è un mare di musica in totale libertà nel quale è meraviglioso affondare.
A darmi una mano a convincere gli scettici ho chiamato una serie di artisti che mi hanno dichiarato pieno amore per Sulle corde di Aries, o almeno per parte di esso. A loro la parola.
Giovanni Lindo Ferretti
«Avevo visto Franco Battiato dal vivo nel 1973, lui era un giovane musicista d’avanguardia che noi giovani universitari tenevamo d’occhio. Si era esibito in un concerto organizzato dai Circoli Ottobre, l’organizzazione culturale di Lotta Continua, ed ero rimasto colpito: lui suonava la sua musica e il 90% del pubblico lo fischiava. Ma Battiato non faceva una piega, imperterrito aveva continuato a esibirsi senza battere ciglio, una cosa incredibile. Da lì a pochi mesi, un giorno, in un negozio di dischi, vidi che era uscito il suo nuovo album. Io in quel periodo ascoltato sopratutto West Coast americana, amavo i Jefferson Airplane e cose del genere. Ma ricordavo bene quel Battiato così indifferente ai fischi del pubblico. La sua musica non mi era piaciuta ma lui sì, moltissimo. Decisi quindi di capire cosa avesse combinato, poi il disco aveva un titolo evocativo, affascinante: Sulle corde di Aries».
«Sembrava interessante. Così lo acquistai e lo ascoltammo insieme a dei compagni con i quali vivevo all’epoca in una pseudo-comune di compagni di Lotta Continua, eravamo in 7-8 ed era un gran bel vivere. Io arrivai e annunciai “Ho il nuovo disco di Battiato”. Lo mettemmo su e ci fece cagare (ride). Quando però ascoltai Aria di rivoluzione rimasi sconvolto. Quel brano mi fece un effetto pazzesco, il testo specialmente mi stregò. Detto ciò Battiato per me poteva anche finire lì. Anni dopo uscì L’era del cinghiale bianco, ma a quel punto io ero molto più affascinato dal punk, quindi non è che l’abbia apprezzato più di tanto. Quando poi, all’epoca dei CSI conobbi Franco personalmente, visto che ci aveva invitati a cena, mi accorsi che mi piaceva molto come persona. Da quella sera cominciai quindi a scoprirlo in maniera più profonda».
«Con Battiato non abbiamo mai parlato granché di musica però era una persona con cui mi trovavo bene, gli volevo bene. Evidentemente l’incontro è stato segnante per tutti perché un giorno, poco prima di uscire per un concerto, Giorgio Canali si è messo a canticchiare Aria di rivoluzione. Erano più di 20 anni che non la sentivo ma mi è venuto spontaneo mettermi a cantare con lui. Ci siamo guardati e abbiamo detto “Cazzo, che canzone strepitosa, la facciamo!”. Da quel momento l’abbiamo eseguita più volte nei bis, a cappella, io e Canali. Da allora io penso che sia la più bella canzone degli anni ’70, e me la canticchio ancora adesso spesso, per conto mio. Quel testo ha qualcosa di magico, sospeso, è una canzone benedetta, con una linea melodica arcaica, salmodiante, e un giro di parole… misteriose. È bellissima. L’ho eseguita anche una volta in Sud Africa, al festival della nazione Zulu. Lì l’ho intonata da solo davanti a migliaia di persone, lasciando tutti incantati, è stato meraviglioso. Aria di rivoluzione non è una canzone salvifica, non è un inno alla pace, l’ho ascoltata per la prima volta in quella casa di Lotta Continua, e quei versi che dicono “Ho già sentito aria di rivoluzione / Ho già sentito gridare chi andrà alla fucilazione” erano contro di noi, era un giudizio controrivoluzionario pazzesco. E lui lo cantava nel 1973, quando tutti volevano la rivoluzione. Era sempre in direzione contraria, grande Battiato».
Francesco Messina
«Magari resterà solo un mio sindacabilissimo parere, ma mi prendo la responsabilità di affermare che è questo il primo vero progetto musicale interamente battiatesco. Un po’ un disco d’esordio, quello in cui il suo inimitabile, personale valore autoriale emerge fin dal primo ascolto. Certo, attraverso i due primi dischi, Fetus e Pollution, Battiato si era già fatto molto conoscere, ma nel concept di quei progetti era stata molto significativa l’influenza creativa di Gianni Sassi e Sergio Albergoni (insieme come Al.Sa). Infatti per il seguente Aries, Franco preferì dedicarsi a quattro lunghe composizioni finalmente tutte sue, iniziando a sviluppare quella che in seguito abbiamo conosciuto come la sua poetica più originale, fatta di estremi mirabilmente connessi. Vi si incrociano un’evidente passione per la ricerca sonora colta, in qualche modo “contemporaneamente classica” (Stockhausen docet, cfr. l’inizio di Sequenze e frequenze), l’amore per una dimensione culturale europea ma anche mediterranea che in seguito abbiamo imparato a riconoscere nelle sue composizioni. Una nota speciale la merita la straordinaria sonorità sinusoidale generata dalla tastiera DK2 collegata al Synthi AKS della Ems. In tutto ciò ho anche una specie di equazione da proporre: Sulle corde di Aries : Clic = Revolver : Sgt. Pepper. Esagerato? Forse, ma se quest’ultimo è divenuto, a pieno merito, l’album più conosciuto e osannato dei Beatles, è anche vero che nel precedente Revolver c’erano tutte le sue germinazioni del lavoro successivo (Tomorrow Never Knows in primis). Allo stesso modo, Clic è stato l’album a mio avviso genialmente perfetto che ha chiuso un intero primo ciclo di Franco. E credo sia vero che Aries ne conteneva già tutti gli indizi».
Carlo Boccadoro
«Nella discografia di Franco Battiato si trovano regolarmente degli album che sembrano tirare le somme di quel che si è realizzato in passato e che allo stesso tempo aprono nuovi orizzonti da esplorare. L’Arca di Noè, L’ombrello e la macchina da cucire e Dieci stratagemmi sono esempi tipici di ciò, e non è un caso che questi dischi abbiano avuto un rapporto problematico con il grande pubblico al loro apparire. Qui Battiato rimescola le carte, lascia le certezze che lo hanno portato in classifica, spariglia tutto e lascia l’ascoltatore da hit parade senza molti punti di riferimento. Sulle corde di Aries è anch’esso un disco che appartiene alla categoria delle opere di passaggio. La strada iniziata con Fetus e proseguita con il successo di Pollution era ormai ben avviata, e Battiato avrebbe potuto tranquillamente continuare sulla scia di un certo rock (con sfumature prog maggiormente complesse) per cercare di consolidare il proprio seguito. Ma è proprio l’idea di solidificare le proprie idee in nome delle vendite che è estranea a questo artista, perennemente attraversato dalla voglia di rimettersi in gioco».
«Le canzoni (pur bellissime, tra le migliori del suo repertorio) vengono quindi relegate al lato B dell’album mentre tutta la parte principale è occupata da un unica grande pagina, Sequenze e frequenze, che punta già verso il mondo della sperimentazione elettronica astratta e abbandona completamente la forma-canzone per distendere un tappeto coloratissimo di suoni che unisce stili diversi e li sovrappone con maestria, in un risultato finale che distacca Battiato in maniera totale da tutto quello che stava accadendo intorno a lui in quegli anni. Nulla a che vedere con il mondo del pop italiano, dei cantautori politicizzati e anche dei supergruppi come Banco e PFM. Franco viaggia in solitaria (come ha sempre fatto, del resto) attraverso una musica senza tempo che unisce sonorità arcaiche e futuribili, dove il mondo dell’antichità si sposa con quello dei sintetizzatori, dove la scrittura e l’improvvisazione si compenetrano e la sua voce si fa strumento evocativo e personalissimo di ricordi lontani che vengono scanditi su sonorità ricche di elettronica e di presente. Questo disco è un passaggio a livello e allo stesso tempo un passaggio di livello, che porterà nel giro di pochi anni al respiro immenso ed eterno di L’Egitto prima delle sabbie».
Lino Capra Vaccina
«Sulle corde di Aries per me è il capolavoro di Franco. Non c’è dubbio. Detto ciò, mi permetto di rivendicare il fatto che forse fummo noi Aktuala all’epoca a dargli i giusti input per lasciarsi alle spalle il rock psichedelico-elettronico dei primi due album e lanciarsi verso questa nuova sfida. Con Pollution, soprattutto con i concerti di supporto a quel disco, secondo me era entrato in una dimensione troppo violenta, disturbante, che lo aveva turbato, essendo lui in quel periodo non ancora centrato a livello di ricerca interiore. Il rischio di passare il limite e perdere lucidità mentale era quindi molto alto. A quel punto ebbe una grossa crisi che portò anche a una rottura con Gianni Sassi che fino a quel momento lo aveva guidato in diverse scelte, favorendo un linguaggio a tutti i costi scioccante che Franco non sentiva più suo. Volle quindi creare qualcosa di diverso e ricordo che in quel periodo parlavamo molto delle nostre vite, delle esperienze dei nostri genitori. E venne fuori che mio padre come il suo aveva lavorato come autista in Abissinia (l’attuale Etiopia, nda), dettaglio che poi lui inserì in Aria di rivoluzione. Quando poi cominciò a registrare mi recai spesso agli studi REGson (le attuali Officine Meccaniche, nda) ad ascoltare le sessioni e lì mi resi conto che l’ascolto della nostra musica lo aveva positivamente influenzato nelle sonorità che stava creando. Lui di suo poi aggiungeva l’elettronica, i sintetizzatori, la sua voce e tutto un mondo che al tempo stesso profumava di antico e di futuro».
«Penso che Aries sia l’anticamera di ciò che avrebbe realizzato con L’era del cinghiale bianco, c’è una sorta di continuum tra i due dischi, un’essenzialità straordinaria, una sorta di purezza. Dopo l’uscita del disco poi cominciammo a esibirci dal vivo in duo e Franco, durante le sue improvvisazioni, accennava spesso i temi di Aria di rivoluzione o Sequenze e frequenze. Lì io e lui entravamo in una simbiosi totale, magica che poi ha condotto all’esperienza del Telaio Magnetico. In quel periodo Franco era un tutt’uno con le sue sperimentazioni e non gliene fregava nulla del successo e dei soldi. Pensa che spesso sua mamma e i suoi amici gli dicevano: “Ma come mai non fai la musica di successo?”. Alla fine gli hanno talmente rotto le scatole con questa storia che lui evidentemente ha pensato: “Volete il successo? State a vedere!”».
19’40’’ (Marcello Corti, Sebastiano De Gennaro, Francesco Fusaro, Enrico Gabrielli)
«L’Egitto prima delle sabbie, disco del 1978 da cui abbiamo tratto il brano della facciata A eseguito al pianoforte da Damiano Afrifa per la nostra pubblicazione Musica spirituale, è un disco decisamente al confine con una produzione para-minimalista sulla quale potremmo dissertare tutti quanti ampiamente. Sulle corde di Aries invece è un tentativo in puro stile primo-Battiato di fondere la popular music con una miscellanea di suggestioni contemporaneiste. Tolte le possibili connessioni e somiglianze con artisti operanti in solitaria all’epoca, da Terry Riley al Mike Oldfield di Hergest Ridge, il quid che troviamo interessante è l’impressione di sabotaggio e aleatorietà che rende tutto di difficilissima classificazione».
«Ad essere più precisi questo è un disco che sposa in pieno un pensiero risalente al 1955 laddove si indica che “un’azione sperimentale è quella il cui risultato non è prevedibile”: ovvero la “musica sperimentale” in senso stretto, teorizzata e applicata da John Cage a un periodo cruciale della sua produzione. Questo è un pensiero, a detta del Michael Nyman musicologo, molto americano e si contrappone fortemente all’avanguardia europea di un Bussotti, un Boulez e un Kagel per i quali l’identità di una composizione, l’esito, i parametri e la forma sono di importanza preponderante. All’avanguardia europea, contrapposta alla visione sperimentale del Nuovo Mondo (come chiama gli Stati Uniti Luciano Berio in C’è musica e musica del 1972) comprende ovviamente anche un gigante come Karlheinz Stockhausen in una fotografia con Franco seduto su un divano assieme ad altre persone. E ci ha sempre stupito questo nesso con il compositore tedesco che, a parte un certo tipo di trasporto mistico sincretico e multi-religioso, di musicale in Battiato non c’è davvero nulla. C’è invece, come dicevamo, la più pura e tipica musica sperimentale, lontana dalle partiture e da una progettualità definita. Quella sperimentalità che, sempre citando il Nyman del 1974, fornisce la comprensione di sé stessa, che non deve essere interpretata come una descrizione di un atto che può essere giudicato come successo o fallimento, ma semplicemente come un’azione di cui l’esito è sconosciuto».
«Per questo motivo, per cui è in uso dialogare con la musica scritta questo disco è un vero dilemma: o lo prendi nella sua sconosciuta essenza esperienziale o puoi rischiare di non comprenderlo affatto. Franco qui più che un musicista di pensiero compositivo coscientemente contemporaneo è una specie di navigatore turistico inter dimensionale, un “contemporanauta”, che ha incontrato luoghi e persone quali Stomu Yamashta, Jutta Nienhaus, l’America del minimalismo e tornando con la mente nella sua Sicilia ci ha fatto fare il giro su un misterioso e informe veicolo musicale. Potremmo riassumere Sulle corde di Aries un vero “mistero sonoro che divide”, esattamente come fa il mistero della fede».
Marta Del Grandi
«Conoscevo poco il lavoro sperimentale di Battiato e ho in generale ho ascoltato molta musica americana, avanguardia americana, contaminazioni varie. Poi ho avuto modo di sentire dal vivo Francesco Messina e il suo straordinario Prati bagnati del Monte Analogo, che mi ha letteralmente stregato. Questo è stato il link per andare a riscoprire Sulle corde di Aries che paradossalmente trovo molto vicino alle cose che poi Battiato ha fatto in ambito pop. Mi hai detto che ascoltando Selva, la title track del mio ultimo album, ti sono venute in mente certe atmosfere non distanti da Sulle corde di Aries. Questo mi ha fatto piacere, quel brano ha influenze ambient/elettroniche contemporanee e credo che le radici di questa scena vadano ricercate proprio in dischi come quello di Battiato. Mi piace il suo carattere onirico di questo disco, le sue molte nature, identità, il suo divagare in molti territori come appunto succede nel sogno».
Beatrice Antolini
«Sulle corde di Aires è secondo me un disco che afferma e concretizza nuovi spazi, preannuncia quello che sarà il filo conduttore di tutta l’opera di Battiato a venire: la ricerca. Un viaggio miracoloso che attraverso nuovi territori musicali porge l’attenzione alla sperimentazione in ambito sonoro ma ancora di più sulla comprensione che il lavoro più grande da intraprendere è quello “umano”: il lavoro su di sé, il risveglio, la nuova vita. A questo proposito le parole di Da Oriente a Occidente sono emblematiche: “La luce sul vulcano mi indicherà l’uscita / Al fuoco delle tenebre scelgo una nuova vita”».
Fabio Cinti
«Quando si chiedeva a Battiato di che segno fosse, lui rispondeva: “Ero dell’Ariete!”. In questa inaspettata e ironica risposta si nascondeva una certa profondità (in realtà questo era esattamente il modo di Franco di dire le cose, i livelli di lettura partivano quasi sempre dalla leggerezza dell’ironia per poi lasciarti cercare vette o abissi), perché l’essere diventato qualcos’altro, aver cambiato casa – volendo mantenere un linguaggio astrale – aver soprattutto viaggiato e cercato un profondo cambiamento è evidente proprio nel suo album a mio avviso il più bello del periodo sperimentale (e forse uno dei più belli in assoluto): Sulle corde di Aries».
«Quello che troveremo in Orizzonti perduti, per fare un esempio, o più avanti, in Fisiognomica, e fino all’ultimo decennio della sua produzione, nasce da questo album. Intendo, nello specifico, quella cifra stilistica che unisce le passioni (la scienza, la storia, l’esoterismo, i viaggi) alla sua infanzia, alla sua isola, la Sicilia, e ai ricordi, gli affetti, creando quell’atmosfera inconfondibile che è il segno più potente e alto del linguaggio di Battiato. Atmosfera che non c’era nelle opere precedenti, che torna in qualche modo nell’opera successiva, Clic, e che poi prenderà campo in maniera preponderante a partire da L’era del cinghiale bianco».
«La forza poetica ed evocativa di Battiato nasce nei celebri versi di apertura dell’album, “La maestra in estate ci dava ripetizioni nel suo cortile / Io stavo sempre seduto sopra un muretto a guardare il mare / Ogni tanto passava una nave…”; e in quelli di chiusura: “La luce sul vulcano mi indicherà l’uscita / Al fuoco delle tenebre scelgo una nuova vita”. E come succede a ogni genio, Battiato questo, più o meno consciamente, lo sapeva già allora».
Jim O’Rourke
«Lo trovo un meraviglioso disco di transizione, specialmente Sequenze e frequenze, che sembra a tutti i costi volere incanalare, attraverso la sua sensibilità, ciò che Battiato ascoltava all’epoca, le stesse cose che in Italia erano gradite a molti musicisti. Penso in special modo da Terry Riley, ai Popol Vuh e alla musica indiana, atmosfere che ritrovo anche in alcuni dischi di Claudio Rocchi. Trovo che nei dischi precedenti la sue influenze fossero meno amalgamate rispetto a Sulle corde di Aries, che gli è servito poi spingersi verso la sperimentazione radicale di Clic, M.elle le “Gladiator” e i successivi album per la Ricordi, che io trovo i suoi lavori più riusciti. In Aries non ha ancora preso la strada di quell’austerità, è come se stesse ancora cercando gli ingredienti giusti per cucinare al meglio la sua musica. Da Clic in avanti inizia quella sottrazione sonora che mi affascina completamente. Sulle corde di Aries sta quindi al crocevia tra il Battiato psichedelico di Fetus e Pollution e quello che sarebbe diventato negli anni 1974-78. Nella seconda facciata a mio avvio le influenze della musica indiana si fanno ancora più marcate, e c’è un brano con un narrato femminile in tedesco (Aria di rivoluzione) che mi rimanda ai Brainticket e nel quale si sente che sta cercando nuovi approdi alla sua musica. In generale il suo unire le atmosfere mediterranee con l’elettronica era all’epoca qualcosa di nuovo».
«Mi incuriosisce poi in Battiato, ma anche in Rocchi o in Roberto Cacciapaglia, questo uso dei sintetizzatori inglesi come il Synthi EMS piuttosto che il solito Moog, anche Alvin Curran, che in quel periodo viveva a Roma, ha usato l’EMS e trovo ci siano similitudini nel modo di usarlo di questi tre. È come se ci fosse una sorta di atmosfera malinconica creata grazie all’uso di certi sintetizzatori, che non si ritrova nel lavoro di altri compositori nel resto del mondo. Una sorta di melancholic synth sound tipicamente italiano. E credo che Sulle corde di Aries sia il primo disco nel quale si può sentire questo tipo di feeling, molto intenso e toccante».
Marta Salogni
«È un album visionario, che evade le barriere temporali dell’era in cui è stato pubblicato. Sia stilisticamente che concettualmente, ancora oggi rimane un classico di rara bellezza. Racchiude in sé mille mondi, alcuni dei quali ancora inesplorati».