Sessant’anni fa, nel febbraio del 1964 (il 9, per la precisione), i Beatles facevano il loro leggendario debutto americano all’Ed Sullivan Show. Per vedere per la prima volta John, Paul, George e Ringo si sintonizzano 73 milioni di americani: è la platea televisiva più numerosa che qualunque musicista abbiano avuto nella storia, eppure i Fab Four non lasciano trasparire alcuna preoccupazione. Un bel pezzo di Stati Uniti vede questi ragazzi spavaldi, ascolta la loro nuova musica elettrice ed estrema e, cosa fondamentale, vede un teatro pieno di ragazze che urlano estasiate. Quando i quattro arrivano al decimo secondo della prima canzone (dove Paul canta “chiudi gli occhi e ti bacerò”), è fatta. Milioni di persone si innamorano nello stesso istante.
Sessant’anni dopo, il debutto dei Beatles all’Ed Sullivan Show rappresenta ancora l’archetipo definitivo dell’esplosione del pop, anche se la stragrande maggioranza degli attuali fan dei Fab Four non era ancora nata. È il momento in cui si percepisce, in tempo reale, la trasformazione del concetto di divertimento. La civiltà più ossessionata di sempre dal divertimento si trova faccia a faccia con i Beatles e si rende conto di aver sbagliato tutto. Il resto dell’Ed Sullivan Show (pupazzi, acrobati, giocolieri, maghi) non è più all’altezza: è come se i Beatles si fossero presentati in Maserati a una corsa di asini.
Ma il 9 febbraio non è solo la sera in cui la Beatlemania ha conquistato finalmente l’America. È il punto di svolta nella storia del fandom. Ora sono le fan adolescenti a comandare, animando e definendo quel momento. Nessuno può più ignorarle. Le ragazze sono protagoniste e tutti lo sanno, soprattutto la band. Si tratta di un fenomeno pop completamente nuovo. È la sera in cui i Beatles hanno inventato il divertimento così come lo conosciamo oggi. Il mondo non sarebbe più stato lo stesso.
John, Paul, George e Ringo aprono lo show con tre canzoni: All My Loving, Till There Was You (da The Music Man) e She Loves You. Sono esuberanti e ci sono delle didascalie, in sovrimpressione, che aiutano gli spettatori a identificarli. Non si può fare a meno di notare che la telecamera corteggia Paul un po’ più degli altri. John ha un microfono tutto per sé, ma la maggior parte dei primi piani sono per Paul. Il teatro contiene 700 persone, ma sembra che dentro ci siano milioni di ragazze che urlano, piangono e si strappano i capelli.
Ed Sullivan è terrorizzato. Dovrebbe essere il padrone di casa, quello al comando, ma è visibilmente spaventato da queste ragazze e perde il controllo del pubblico. Dopo la performance dei Beatles, alza le mani e urla: «Silenzio! L’avete promesso!». Chi deve esibirsi dopo i Beatles? Un mago che fa un trucchetto con una saliera. Povero disgraziato. Più tardi, i Beatles suonano altri due pezzi, I Saw Her Standing There e I Want to Hold Your Hand. Sullivan esce per esprimere la sua gratitudine, ma non ai ragazzi della band o al pubblico: ringrazia il Dipartimento di Polizia di New York per avere tenuto sotto controllo la folla durante tutta la settimana.
Alla fine della serata, Sullivan si sforza finalmente di prendere in considerazione le fangirl presenti. «Voglio congratularmi con voi», dice con un sorriso distaccato. «Siete state un bel pubblico, nonostante le grosse provocazioni».
Ed Sullivan per decenni è stato il re della tv americana, ha condotto il suo varietà della domenica sera fino al 1971. È difficile, ora come ora, capire perché fosse lì: era rigido, scontroso, bofonchiava come se avesse appena buttato giù un Rivotril. Eppure era l’uomo che decideva cosa avrebbe intrattenuto l’America. La band è poi tornata a suonare nella sua trasmissione le due domeniche successive, tenendo anche uno spettacolo a Miami Beach come spalla per la cantante di South Pacific Mitzi Gaynor.
Una cosa è guardare solo gli spezzoni dei Beatles nelle loro tre apparizioni da Sullivan, ma è una vera e propria rivelazione vedere gli episodi completi e stupirsi della banalità che li circonda. Gesù, questi show facevano schifo. La prima sera, dopo di loro, c’è un mago, Fred Kaps, che annaspa affannosamente durante il suo numero borbottando: «Avrei dovuto provarlo prima». È il flop più pietoso mai ripreso dalle telecamere. Poi arrivano il cast di Oliver!, un comico che fa imitazioni delle star del cinema e una veterana del music hall gallese di nome Tessie O’Shea che suona pizzicando il banjo il suo tema, Two-Ton Tessie from Tennessee. Non c’è un solo momento divertente, solo un autocompiacimento tronfio per avere rispettato degli standard minimi.
I Beatles sembrano arrivati da un altro pianeta. Il loro entusiasmo, la sfacciataggine, l’umorismo sfrenato, lo spirito di squadra non hanno alcun legame con qualsiasi altra cosa accada quella sera. John Lennon è concentrato, serio; George Harrison sorride come se avesse appena imparato a farlo; Paul McCartney emana sicurezza; Ringo Starr è Ringo. Suonano e (soprattutto) cantano come se si leggessero nella mente. Tutti insieme, ora.
Fanno sembrare il resto dello spettacolo non solo banale e obsoleto, ma anche cinico, falso, come se a nessuno importasse essere lì. Quattro ragazzi della classe operaia di Liverpool, che hanno colto al volo l’occasione di lasciarsi alle spalle la vecchia e noiosa Europa, finalmente si scatenano nell’America dei loro sogni. La patria della musica che adorano: doo-wop, rockabilly, Chuck Berry, Little Richard, Ray Charles, Elvis, Buddy, Smokey, Carole King, Phil Spector, Motown, New Orleans, le Shirelles, le Crystals e le Ronettes. Sono disperatamente affamati di America, così come l’America lo è di loro.
Ma è anche un’America in preda all’isteria dei fan: quando si vedono i Beatles in tv, è impossibile staccare gli occhi dalle ragazze che vanno fuori di testa. È l’essenza della Beatlemania, con al centro le fan adolescenti. Poi sono arrivati anche tutti gli altri, ma il merito è delle ragazze. Queste urlatrici non possono più essere trattate con condiscendenza, come se fossero solo un elemento bizzarro di contorno alla musica pop. Improvvisamente, sono loro la musica pop. Sono proprio lì, davanti alla telecamera, al centro dell’attenzione, protagoniste.
La Beatlemania è sempre stata incentrata su una comunicazione diretta tra questi ragazzi e le loro fan. Paul lo sapeva fin dall’inizio. «All’epoca avevamo 18, 19 anni o quello che era», ha detto a Mark Lewisohn nel 1987. «Quindi parlavamo alle ragazze di 17 anni. Ne eravamo abbastanza consapevoli e scrivevamo per il nostro mercato. Sapevamo che se avessimo scritto una canzone intitolata Thank You Girl, parecchie delle fan che ci mandavano delle lettere l’avrebbero presa come un autentico ringraziamento. Quindi molte delle nostre canzoni – un’altra è From Me to You – erano indirizzate direttamente alle fan». From Me to You è una delle hit meno interessanti dei Beatles, ma Paul ha ragione a proposito del titolo. «Quindi From Me to You, Please Please Me, She Loves You. Usavamo i pronomi personali. Lo facevamo sempre. Anche in I Want to Hold Your Hand. C’era sempre qualcosa di personale».
Il mondo non ha mai smesso di amare quei primi brani, che suonano più vivi che mai nei nuovi remix del 2023 sul Red Album, con Giles Martin che fa miracoli sulle frequenze più basse. Ma all’epoca parlavano forte e chiaro anzitutto alle fan. Hanno iniziato la tradizione delle boy band che rendono omaggio al loro fandom: pensiamo a Larger Than Life dei Backstreet Boys, Girl Almighty degli One Direction, Moon dei BTS o Ramona dei Ramones. I Beatles non hanno mai dimenticato quelle ragazze che per prime li hanno capiti. Per quanto siano stati sarcastici e ironici nei confronti di tutti gli omuncoli insignificanti che hanno incontrato nel mondo della musica, hanno sempre nutrito il più profondo rispetto per quelle ragazze. Persino George, quello che si lamentava di più della Beatlemania, ha scritto il tributo accorato Apple Scruffs. Nella sua epopea solista su triplo vinile All Things Must Pass, del 1970, queste ragazze sono le uniche a cui George riserva una parola gentile, a parte Dio.
Una storia completamente diversa è quella di Elvis all’Ed Sullivan Show nel 1956, dove Sullivan rappresenta l’autorità. Il conduttore aveva assicurato che Elvis non sarebbe mai apparso nel suo show. Quando è stato preso a calci in culo dagli ascolti, ha abbassato i suoi standard morali (come è noto, Elvis è stato inquadrato dalla vita in su, ma solo nella sua terza e ultima ospitata da Sullivan; nelle prime due è stato mostrato a figura intera). Qui si vede Elvis che cerca di compiacere il conduttore per guadagnarsi la sua approvazione, che viene concessa a denti stretti. Il campagnolo di 21 anni è lì per impressionare Mr. Sullivan. Anche se lo studio è pieno di fan urlanti (lui concede un «grazie, signore» dopo Don’t Be Cruel), tutto è per Sullivan, che finalmente lo elogia definendolo «un ragazzo perbene».
Coi Beatles non succede niente del genere. Nulla indica che piacciano al conduttore o che cerchino la sua approvazione. Non ha potuto evitare la serata, quindi tenta di contenere i danni. Sono state le ragazze che, gridando, hanno ottenuto lo show. Sullivan può urlare loro si fare silenzio quanto vuole, ma non può zittirle. Nessuno avrebbe potuto farlo.
Il blitz dei Beatles negli Stati Uniti è stato una full immersion di due settimane in quella cultura americana che loro da sempre sognavano da lontano, in tutta la sua crudezza, violenza e volgarità. In particolare, a loro è piaciuta la Florida. «Miami era incredibile», ha ricordato più avanti Paul, nel libro Many Years From Now. Ricordo di una vita. «Abbiamo visto per la prima volta dei poliziotti in moto armati». I Fabs sono anche rimasti colpiti da «tutte le ragazze splendide e abbronzate». Come ha poi ammesso Paul, «in realtà la canzone avrebbe dovuto intitolarsi Can Buy Me Love».
La loro guardia del cropo e una poliziotto di Miami chiamato Buddy Dresner che li istruiva sui dettagli fondamentali della vita in America. «Li ho portati al loro primo drive-in», ha detto a Rolling Stone nel 1984. «Ho fatto loro assaggiare il loro primo toast al formaggio». Ha insegnato ai quattro a pescare. «Una volta, stavamo guardando in tv un programma intitolato The Outer Limits e io ho detto: “Se avessi una di quelle pistole, potrei fulminare (“zap” nell’originale, ndt) tutti i criminali”». Paul ha chiesto spiegazioni su quella parola. «“Zap?”, ho detto. Non l’avevano mai sentita. Mi sembra che l’abbiano poi inserita in una delle loro canzoni».
L’hanno fatto: John la canta nel White Album, nel momento in cui “Capitan Marvel l’ha colpito [“zapped”] proprio in mezzo agli occhi” in Bungalow Bill. Ma c’è uno “zap” ancora migliore in A Hard Day’s Night, le cui riprese hanno preso il via poche settimane dopo. I ragazzi sono nel backstage, si fanno sistemare i capelli e il trucco per la tv. George chiede alla truccatrice: «Ehi, questo non interferirà con la mia personalità selvaggia, vero signora?». Paul ha un momento shakespeariano, davanti allo specchio, citando il soliloquio di Amleto: «Oh, se questa carne troppo solida si sciogliesse… ZAP!». Quella parola, per loro, era il simbolo della carica elettrica della cultura americana. Ma sapevano di essere stati loro a fulminare l’America.
Ecco perché la Beatlemania è ancora oggi vivissima. È la massima espressione dei fenomeni che fanno impazzire i fan, quello che i fan e le star protagoniste continuano a rivivere. Un paio d’anni fa, Paul McCartney ha suonato al MetLife Stadium, nel New Jersey, alla vigilia del suo 80° compleanno. Non ha resistito e ha chiesto al pubblico di fare «un grande urlo alla Beatles». È questa la “mania” originale, che accompagna la storia da Love Me Do a Now and Then, fin dalla sera in cui i fan sono diventati protagonisti una volta per tutte. A 60 anni di distanza, viviamo tutti nel futuro del pop che quelle ragazze hanno creato urlando.
Da Rolling Stone US.