La storia del genio dietro la chitarra di Lucio Corsi a Sanremo | Rolling Stone Italia
L’Excalibur di LC

La storia del genio dietro la chitarra di Lucio Corsi a Sanremo

Nella finale il cantautore ha suonato uno strumento del liutaio italiano apprezzato da Bob Dylan e Jimi Hendrix, una specie di Gibson 335 progettata da De Chirico dopo una scorpacciata di LSD a casa di Timothy Leary. Ecco la sua storia

La storia del genio dietro la chitarra di Lucio Corsi a Sanremo

Lucio Corsi e la sua Wandrè

Foto: profilo Instagram @lucio_corsi

In psicologia esiste sicuramente un nome preciso per definire il fenomeno che ci accompagna quando scopriamo che quello che credevamo essere un segreto per noi pochi – un parcheggio che trovi sempre libero, una trattoria, un negozio di abiti vintage, un cantante indie – ora è appannaggio di molti: quel misto di soddisfazione per aver avuto conferma di un’intuizione prima degli altri mescolata a una sensazione di intimità violata con una spolverata di disprezzo nei confronti delle masse che hanno inquinato la nostra stanza segreta. Nel corso della settimana di Sanremo, quando era ormai chiaro che questa edizione – la più piatta, ecumenica, rassicurante, anemica da molti anni a questa parte – sarebbe stata fra le altre cose quella della consacrazione al grande pubblico di Lucio Corsi, ho visto molti condividere ricordi, frammenti, stralci di interviste con il menestrello maremmano, come a dire: io lo conoscevo quando non se lo filava nessuno.

È una cosa che capisco bene perché è successa anche a me la sera della finale, quando in un post condiviso dallo stesso Corsi ho scoperto che si sarebbe esibito sfoggiando una Wandrè Oval, una chitarra che potremmo definire una Gibson 335 progettata da De Chirico dopo una scorpacciata di LSD a casa di Timothy Leary. Il giorno dopo aver visto tutte le principali testate online occuparsi di una delle più iconografiche creazioni di Antonio Pioli, detto Wandrè, avrei voluto urlare a tutti «io ne parlo da dieci anni, quando nessuno se le calcolava!» solo per poi ricevere un sacrosanto «esticazzi!» da parte del coro greco.

Bisogna dire che Lucio Corsi in questo Festival non ha sbagliato niente: ha portato una canzone scritta da lui medesimo e il suo long time collaborator Tommaso Ottomano, senza gli onnipresenti Simonetta e Petrella (e si sente); ha curato personalmente la propria immagine vestendosi da solo con abiti del suo guardaroba (e si vede); ha seminato dettagli intelligenti (la scritta Andy sotto la suola dello stivale, un chiaro omaggio al protagonista di Toy Story, la sua Les Paul senza battipenna e la Wandrè appunto). Insomma ha fatto tutto quello che ci si aspetterebbe da un artista dotato di talento e visione creativa. Di personalità. Qualcosa che evidentemente oggi non siamo più abituati a riconoscere nel panorama musicale nostrano. Dopotutto è semplicemente la naturale evoluzione di ciò che avevo visto nel video di Freccia Bianca del 2020, la prima volta che lo conobbi: il figlio illegittimo di un fugace amplesso notturno tra David Bowie e Ivan Graziani in un bed & breakfast di Vetulonia, fisico da elfo dei boschi, jumpsuit e zatteroni e una serie di chitarre più o meno strane al collo.

Oggi, in un mercato italiano più piatto della pianura del Kansas e dove se due cantanti si scambiassero i pezzi da interpretare non se ne accorgerebbe quasi nessuno, Corsi viene giustamente celebrato come Bowie vestito da Kansai Yamamoto e la sua sei corde psichedelica suscita curiosità ed evoca mondi lontanissimi, per dirla con le parole del sommo.

 

 
 
 
 
 
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La scelta da parte sua di una chitarra così particolare è degna di nota perché celebra il nostro artigianato. Antonio Pioli, il cui soprannome Wandrè è una mutazione della locuzione dialettale “Va andrè”, ovvero va indietro, a indicare la sua tendenza congenita a non seguire la massa ma muoversi in direzione opposta, nasce il 6 giugno 1926 a Cavriago, una cittadina vicina a Reggio Emilia nota per i tortelli verdi, il busto di Lenin nell’omonima piazza, la fiera dei tori e quella dell’antiquariato. Sin da giovane si distingue per un carattere frizzantino (eufemismo), una forte vena creativa e un ardente desiderio di libertà. Caratteristiche queste che lo spingono nel 1944 a unirsi ai partigiani e a scacciare dalle colline reggiane il teutonico invasore in compagnia dell’amico Jazz (inizialmente, leggendo la sua storia pensavo che mentre combatteva i nazisti Wandrè ascoltasse jazz, ho poi scoperto che questo era proprio il soprannome del suo amico partigiano).

Una volta tornato a Cavriago nel ’45 il giovane Wandrè inizia un apprendistato nella bottega paterna fino al 1957. In quegli anni la sua abilità manuale e progettuale cresce al punto di spingerlo ad avviare una carriera di capocantiere edile a Cosenza e Milano, ma l’insofferenza nei confronti di soluzioni costruttive convenzionali imposte dal mercato e la rigidità dei suoi colleghi lo portano a un prematuro licenziamento. Torna a casa e decide di fare quello che sa fare meglio e soprattutto alle sue condizioni e con le sue manine d’oro: strumenti musicali a corda. I primi contrabbassi durano poco, lasciando velocemente posto a liuti elettrificati che mettono in luce il suo estro e la sua creatività che pare travalicare i limiti imposti da tecniche costruttive materiali abituali.

E qui vale la pena di sottolineare ulteriormente la bontà della decisione di Corsi di esibirsi nella finale con la Wandrè: far puntare i riflettori del più importante programma dell’anno sul genio dimenticato di un grande artista italiano. Rispetto a tanti costruttori di strumenti musicali che si lanciano sul mercato in quegli anni di boom  Pigini, Crucianelli, Quagliardi e tutta la celebre dinastia di Castelfidardo responsabile di marchi storici come Eko, Welson e Rex – Pioli si distingue per una sorta di urgenza poetica che se ne sbatte altamente della domanda e delle necessità dei musicisti, o perlomeno è in secondo piano rispetto all’urgenza espressiva del nostro. Nel suo laboratorio realizza strumenti unici che non rispondono a un design prettamente funzionale quanto piuttosto a uno stato emotivo: forme mai viste prima di allora (e nemmeno dopo), materiali innovativi come la bachelite, il vetro e soprattutto l’alluminio.

Se non siete segaioli della sei corde come il sottoscritto il nome Travis Bean non vi dirà nulla, ma il suo nome è indistricabilmente legato negli anni ’70 alla costruzione di chitarre in legno con manici in alluminio, soluzione che li rendeva particolarmente leggeri e letteralmente indeformabili da fattori climatici come umidità e sbalzi di temperatura. Ebbene, Wandrè fa le stesse cose un decennio prima, con silhouette così sperimentali da far sembrare le successive Kramer degli anni ’80 roba da vecchi boomer dimenticata in solaio.

I modelli si susseguono dettati dai capricci del demiurgo e dalla sua ispirazione: il calypso popolarizzato da Harry Belafonte fornisce a Wandrè lo spunto per raffigurare danzatori e colori vivaci sui suoi top (dove il legno diventa il materiale meno utilizzato). Brigitte Bardot nella sua età dell’oro ispira la BB, una semiacustica dadaista assurda, mentre la Scarabeo, progettata dal giovane designer Stefano Beltrami su indicazione di Wandrè arriva direttamente dall’amore del nostro per i Beatles, la cui paletta richiama (nelle intenzioni dell’autore) la silhouette di John Lennon. Nessuno aveva mai visto strumenti simili prima di allora e con lo stupore giunge anche la fama e gli endorsement: prima con i Corvi, Guccini (l’unica chitarra elettrica che suonerà in vita sua e da cui sarà sempre leggermente intimorito è una Wandrè), Celentano, che sfoggia in una sequenza di Urlatori alla sbarra di Lucio Fulcio (1960) proprio una Wandrè Oval, la stessa di Corsi, mentre duetta con Mina.

Poi oltreoceano: è noto l’aneddoto di Bob Dylan che cazzeggiando per Londra nel ’65 vede una Wandrè Oval in una vetrina e ne rimane affascinato, come se avesse visto un Moai dell’Isola di Pasqua; la scena viene immortalata dal regista che lo accompagna, D. A. Pennebaker, e finirà nel celebre documentario Don’t Look Back del 1967. Sempre a Londra in quel periodo anche il più radicale e influente chitarrista elettrico della storia, Jimi Hendrix, finisce per apprezzare una creazione di Pioli. È il ’66 e Jimi è appena arrivato della City accompagnato dal suo manager Chas Chandler per il debutto in società, un concerto diventato pura leggenda in cui si narra che con la sua funambolica esibizione estemporanea fece sbiancare Clapton, allora considerato il dio per eccellenza della sei corde con i suoi Cream. Jimi quel giorno non ha una chitarra con sé e allora Chandler lo porta nell’appartamento di Zoot Money, tastierista e punto di riferimento della scena di Soho, che per puro caso in casa ha una Wandrè Blue Jean mancina come il virtuoso di Seattle. Jimi la suona un po’ e commenta incuriosito «nice easy action»: non la suonerà al concerto ma la chitarra farà bella mostra di sé nell’appartamento di Hendrix a Londra, oggi divenuto un museo.

 

 
 
 
 
 
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All’apice della fama Antonio Pioli decide di espandersi e cosi apre una fabbrica, ovviamente alla sua maniera: la “fabbrica rotonda” è un open space con un’enorme finestra circolare e un giardino centrale. Di fatto ha una pianta pentadecagonale: 15 angoli di uguale apertura con lati di 4,5 metri che conferiscono alla struttura l’illusione della circolarità. Gli operai possono così comunicare tutti tra loro ed esprimere la loro creatività con delle variazioni sugli strumenti prodotti, nella forma delle “buche a f”, nelle verniciature, motivo per cui non esiste una chitarra perfettamente uguale all’altra: ognuna è frutto, oltre che del progetto originale, dell’energia creativa del singolo individuo che l’ha lavorata in quel momento.

Wandrè sarà uno strenuo avversario dell’alienazione degli operai, delle azioni ripetitive tipiche della catena di montaggio. L’operaio per lui deve poter sempre osservare il cielo, non aver compiti predefiniti fissi né orari prestabiliti: ognuno può entrare e uscire dalla fabbrica rotonda quando vuole, giorno e notte, utilizzandone le macchine per costruire anche manufatti personali. I lavoratori sono incoraggiati a sviluppare competenze non direttamente legate alle loro mansioni nella fabbrica, ma volte ad arricchire il proprio bagaglio culturale: suonare uno strumento, parlare lingue straniere per esempio. E i ruoli non sono attribuiti dall’alto ma autogestiti sulla base delle proprie capacità autodeterminata.

Una simile utopia è però troppo bella per durare e infatti non dura: ostacolato dai sindacati locali (che data l’organizzazione del lavoro dei suoi dipendenti cessano di avere un ruolo) ma soprattutto le costanti pressioni di un mercato straniero (prevalentemente tedesco e giapponese) sempre più competitivo, costringono Wandrè a chiudere la fabbrica circolare il 31 dicembre del 1968. Da quel momento lascia il mondo della liuteria e si dedica alla realizzazione di capi di vestiario in pelle, senza dimenticare la sua vocazione artistica come membro del collettivo dada Fluxus, dedicandosi alla scultura e ad occasionali performance pubbliche.

Wandrè si trasferisce permanentemente nell’altrove il 15 agosto 2004 per un’insufficienza respiratoria ma le sue chitarre uniche e originali (circa 70 mila, che oggi hanno raggiunto quotazioni da capogiro: il modello Oval può costare tranquillamente 20 mila euro) rimangono a testimoniare l’estro di un genio che non conosceva limiti né compromessi, oggi rese ancora più popolari da un ragazzo che voleva essere un duro, ma per fortuna è rimasto soltanto Lucio.

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