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La storia della RCA non è (solo) una storia di nostalgia

Stasera e venerdì prossimo su Rai 3 ‘Lato A , La storia della più grande casa discografica italiana’. Un documentario (“narrato” da Marco Giallini e con ospiti come Gino Paoli, Riccardo Cocciante & Co) che è una storia della musica, sì, ma soprattutto del nostro Paese

Foto: Cattleya

L’istinto, guardando Lato A – La storia della più grande casa discografica italiana (il documentario sulla RCA italiana in onda in prima serata su Rai 3 oggi e il 12 aprile, prodotto da Think Cattleya e Rai Documentari), è di lasciarsi andare alla nostalgia: signora mia, che tempi erano quelli. Ci sta, il catalogo in ballo è spaventoso e riguarda gran parte della nostra cultura condivisa, dal 1955 e agli anni Settanta, con un ben di dio che copre la qualunque, da Modugno a Morandi, la beat generation, Gino Paoli, Dalla e De Gregori. Possibile che all’epoca fossimo messi così bene senza rendercene conto? Possibile che siano tutti rimasti o sono i ricordi che c’ingannano? No, non sono i ricordi, ma il punto è che non c’è spazio per la nostalgia, da queste parti. O non solo.

Costruito in due puntate – la prima si chiude con il Sessantotto e i figli della british invasion, cioè il primo tiro di canna per un Paese che copriva gli occhi ai bambini quando Celentano molleggiava, figurarsi le minigonne e l’LSD – è condotto dalla voce di Marco Giallini, che con mestiere e un po’ di retorica, appoggiato sul leggio, cerca di cadere proprio in quella nostalgia, inframmezzato dai tanti inserti in cui a parlare sono i giornalisti (Gino Castaldo, Maurizio Becker, Giulia Cavaliere) o gli addetti ai lavori di allora. Gli artisti, da Riccardo Cocciante a Paoli ed Edoardo Vianello, danno più che altro colore e ricordano com’è che un’etichetta sia diventata qualcosa di tanto nostro, famigliare. Non sempre funziona, le cose succedevano talmente in fretta (a un certo punto si parla di rivoluzione permanente) che sembra solo che i discografici abbiano cavalcato i cambiamenti sociali in corso, il boom e il benessere, senza dare merito alle loro intuizioni, che invece furono brillanti davvero; ma sarebbe stato difficile a priori, il materiale è troppo e se non altro ci guadagna il ritmo. Però se uno si aspetta un’opera sull’industria, resterà spiazzato; qui c’è soprattutto un piccolo trattato sociologico dell’Italia che fu, vista dai 45 giri.

Riccardo Cocciante in un’immagine di repertorio. Foto: Cattleya

Quella della riduzione del formato dai 78 ai 45, ecco, fu una delle tante intuizioni di un’etichetta che è stata fin dall’inizio «per i giovani», e che prende in mano il nostro Paese quando questa categoria sociale era appena stata inventata ed esportata dagli Stati Uniti, con i video paternalistici dell’Istituto Luce con la voce impostata a chiedersi «ma che faranno mai, questi giovani?», passa per programmi tipo Bandiera gialla di Renzo Arbore («A tutti i maggiori degli anni 18, questo programma è rigorosamente riservato ai giovanissimi», 1965) e lo lascia, il nostro Paese, mentre i suddetti giovani occupano le università, è il 1977. Se la Rai è stata «mamma», la RCA non può fregiarsi dello stesso appellativo solo per la natura corsara, per certi versi ribelle, che ha sempre avuto, tanto che nel 1964 organizzò quasi un contro-Festival di Sanremo.

E pensare che a far nascere la divisione italiana era stato un intrigo tra Vaticano e Stati Uniti, che dopo le devastazioni della guerra a Roma chiese e ottenne che gli americani aprissero una fabbrica a San Lorenzo, quartiere popolare distrutto; all’inizio l’influenza della Santa Sede fu notevole, si ristampavano solo lavori di grandi jazzisti, poi l’arrivo di Ennio Melis – uomo di fiducia del Papa, eh, ma pure decano illuminato della discografia italiana – diede una svolta e contribuì a uscire da una prima crisi, puntando su artisti italiani di rottura che avrebbero aggiornato il linguaggio della nostra musica in senso, appunto, “giovane”. Là dove, con tutto il rispetto, eravamo fermi a Claudio Villa e Modugno, sarebbe arrivato il quotidiano di Paoli, Bindi, Endrigo, poi le canzoni adolescenti di Morandi (Fatti mandare dalla mamma) seguite da quelle più politiche (C’era un ragazzo che come me…), i tormentoni di Vianello (arrangiati con creatività assoluta da Morricone), il diavolo per capello di Rita Pavone, il rock e la seconda età dell’oro di Renato Zero, De Gregori, Venditti. In una struttura che era una famiglia, gli studi con mensa, bar e campo da calcio e bocce i cui aneddoti sfociano nella mitologia, c’era spazio per tutti: dalle facce pulite per l’Italia borghesuccia dei primi Sessanta, come lo stesso Morandi, ai cani sciolti come Dalla, che per avere del riconoscimento di pubblico dovrà aspettare il decennio successivo. Ma la RCA avrebbe aspettato con lui, ed è questo il punto.

Se da una parte, infatti, l’etichetta era bravissima a cavalcare e dettare le mode e, spesso, a prendersi i migliori sulla piazza, dall’altra rappresentava un vivaio dove, dopo delle vere e proprie selezioni, provini, gli artisti entravano giovanissimi, pressoché esordienti, e uscivano con un disco finito. La differenza con i talent stava, sì, nel mercato in sé, ma soprattutto nell’atteggiamento dei discografici stessi, che non avevano fretta che i nomi in questione esplodessero: concedevano loro tempo e contratti a lunga gittata, così che potessero programmare la loro ascesa in più tappe, in maniera graduale. Dicevamo di Dalla, ma anche Venditti, De Gregori e Zero dovranno attendere almeno il terzo disco per vedere i primi numeri concreti.

Marco Giallini in una scena del documentario. Foto: Cattleya

Ma ciò non significa – e occhio, qui, alla nostalgia – che la RCA facesse arte per arte, o per puro mecenatismo: si trattava pur sempre di impostazione americana, follow the money; solo si era convinti che, con i debuttanti, la strategia migliore per portarli al successo fosse dare carta bianca e avere pazienza, senza pressioni. Non a caso, l’etichetta e i suoi storici stabilimenti andranno in crisi quando, fisiologicamente, non saranno più capaci di stare al passo di un mercato che con gli anni Ottanta stava prendendo sempre più le sembianze di un fast food. E questo però non toglie che quel modello lì, di cura e attesa, non possa essere replicato oggi, con gli accorgimenti del caso.

L’altro tema che rende Lato A attuale, e che per tanti aspetti si lega al primo, riguarda la percezione che si aveva all’epoca dei suoi artisti. Non è il discorso più nuovo del mondo, ma è vero che, di nuovo, Dalla e tanti altri prima solo di essere capiti ci avrebbero messo anni, respinti all’uscio da una realtà che non ammetteva gente che avesse il loro look, i loro testi, la loro vocalità. E lo stesso, già a inizio anni Sessanta, era capitato tra i tanti anche a Paoli, che nelle immagini del documentario viene trattato come una sorta di appestato dai vari conduttori tv perché porta sempre gli occhiali da sole e scrive testi che, ehm, «non mettono mai di buonumore», oltre a non avere la voce di un Villa. Insomma, non c’era spazio per quei cantautori che poi avrebbero, di fatto, distrutto il bel canto. Vi ricorda niente, dei pensieri che si sentono ora?

Sappiamo pure com’è finita: oggi Sapore di sale e Come è profondo il mare sono due pietre miliari di un documentario che, se ci si sbaglia, ci potrebbe far gridare alla nostalgia e diventare una specie di tributo all’immaginario boomer. E invece dice solo che tutto quello che una volta era rivoluzione poi diventa classico, e che quindi adesso non avremmo bisogno ancora della RCA, ma di un’altra RCA, aggiornata, questo sì.

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