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Laura Agnusdei, Sax and the City

Classica, elettronica colta, musica afroamericana, avanguardia, sperimentazione. Quella di ‘Flowers Are Blooming in Antarctica’, che uscirà a fine mese, è musica dell’altro mondo. A Bologna (e non solo) oggi l’underground suona anche così

Foto: Matilde Piazzi

«Voglio sempre fare 40 mila cose in 10 minuti, è più forte di me. Col risultato che sono sempre in ritardo su tutto, faccio sempre le cose all’ultimo, anche i treni, per dire, li prendo al pelo… Un mio amico mi ha detto che mi prendo così tanti rischi ogni volta che dovrei darmi al gioco, alle scommesse. Forse ha ragione». Inizia così la chiacchierata con quel personaggio meravigliosamente atipico, per la scena musicale di casa nostra, che è Laura Agnusdei. E se dobbiamo credere in questa sua confessione, va anche detto che con noi, per l’appuntamento fissato per l’intervista, è stata meravigliosamente puntuale. Svizzerissima, proprio.

Ad ascoltare la sua musica, a partire dall’ultimo atto che è il Flowers Are Blooming in Antarctica in uscita a fine gennaio 2025 ma ripercorrendo tutto il suo percorso, la sensazione è quella di avere di fronte una musicista che ha più che mai il controllo. Tutto pare preciso al dettaglio, e sono dettagli abbastanza complessi, nell’equilibrio tra respiro analogico degli strumenti suonati live ed elettronica, tra parti di scrittura molto raffinate e calibrate ed altre più apparentemente legate alla sperimentazione e all’improvvisazione. Un congegno per nulla banale, routinario. Un congegno atipico. Un congegno dagli equilibri delicati, sofisticati. Sul palco Laura non è un’affannata ritardataria che fa tutto all’ultimo. «Sul palco mi lascio molto andare. Per me è una safe zone, che mi fa star bene. Le ansie al momento di suonare le avevo, sì, ma sono tutte finite nel momento in cui ho terminato il conservatorio: se riesci ad ottenere il diploma in classica, beh, dopo non devi avere paura più di nulla. Da lì in poi il resto non può che essere tutto discesa», e giù una risata.

Ecco, qui iniziano le stranezze e le unicità di Laura Agnusdei che meritano di essere raccontate. Conservatorio? Va bene. Diploma in musica classica? Va bene. Però lo strumento d’elezione suo è il sassofono. Non il violino, non il pianoforte, non quello che volete: il sassofono, accidenti. «Amo il mio strumento. E se ho imparato ad amarlo davvero, è stato proprio grazie al conservatorio, che mi ha obbligato ad entrare nel piacere di suonare uno strumento acustico, analogico. Se poi mi chiedi se ero tagliata per fare la musicista di musica classica, beh, no…».

Una sassofonista dovrebbe fare in primis jazz, no? Magari sperimentale, magari atipico, ok, ma… «Ecco, lo sapevo si sarebbe arrivati a parlare di questo», scoppia a ridere. «Ho un rapporto molto controverso con la parola jazz, lo ammetto». Già solo con la parola? «Già solo con la parola, sì. Scherzando, spesso uso la definizione j-word, figurati…». Come mai tutto questo? «Perché io in effetti amo la musica afroamericana. Non il jazz, o almeno non tanto il jazz come viene comunemente inteso: preferisco parlare proprio di musica afroamericana. Credo che sia proprio per questo che mi sono orientata verso il sax come strumento d’elezione: amo la black music, dove il sassofono è da sempre uno strumento fondamentale. Eppure, non ho mai studiato il jazz». Mai? «Pur suonando uno dei strumenti per eccellenza del jazz, non ho quel linguaggio lì, non l’ho mai fatto mio. Non ho quel fraseggio. Io il sassofono l’ho studiato legandomi alla musica classica; poi però nei miei ascolti è sempre stato preponderante tutto ciò che è afroamericano, anche mentre studiavo. Se proprio devo prendere qualcosa del jazz, prendo il free. Ecco, se le robe che fa la International Anthem di Chicago le possiamo considerare jazz, allora quel jazz lì mi piace, allora va bene». Mentre se invece devi eseguire il classico standard, che so, una My Favourite Things… «Non lo so fare, semplicemente! Anche volessi farlo, e non voglio, farlo proprio non mi interessa, non lo saprei comunque fare. Capisci perché faccio fatica a relazionarmi con la j-word?».

Capisco. Così come capisco che c’è anche molta formazione sperimentale più legata all’elettronica colta, nella musica di Laura Agnusdei. «Ecco, quella è stata l’altra parte della mia formazione accademica, gli studi in musica elettronica fatti all’estero, in Olanda. Tanto ho sofferto quelli in classica, tanto ho amato quelli in elettronica». Ma se ti affidi agli studi in conservatorio, è vero che in qualche modo ti metti al di fuori della contemporaneità? Cioè, che ti leghi a qualcosa di museale, che sia la classica dei secoli scorsi ma anche le avanguardie storiche del Ventesimo secolo? «Beh, dipende dove studi e con chi studi. Nel dedicarmi al sassofono, ho avuto un rapporto bellissimo col mio docente di riferimento, Daniele Faziani, che è anche compositore e soprattutto è uno molto aperto alla musica contemporanea. Poi ho rifinito gli studi in Olanda, all’Institute Of Sonology, e lì è effettivamente tutto un altro mondo, lì davvero affronti la musica elettronica in tutte le sue sfaccettature, in profondità».

Tutte? Anche quelle per cui è comunemente nota nel mainstream, ovvero quello di essere musica da ballo, da club? «Io sicuramente non vengo dal mondo dei club. Non è il mio. Non che mi non piaccia ballare, eh, e comunque ho anche qualche ascolto in chiave techno o house, assolutamente; ma sono ascolti più da musicista, più curiosità intellettuali che altro, e in effetti se parliamo di “elettronica” io appartengo più al mondo di un certo tipo di sperimentazione. Ma il bello dell’applicare l’elettronica alla musica è proprio questo: sperimentare, ovvero la possibilità cioè di creare linguaggi multiformi. Se io affronto uno strumento acustico, ho comunque dei limiti fisici contro cui a un certo punto mi scontro, no? L’estensione sui registri, ad esempio quelli gravi, arriva solo fino ad un certo punto». Vero. «Con l’elettronica invece sei nella condizione di non avere dei limiti. Sono proprio due approcci diversi». Che tu però si diverte a mescolare. «Eh sì, a me piace mescolare le due cose, mi piace fare tutto. Magari lo faccio male, che so», e qui Laura sorride, «ma mi diverto molto a farlo».

Tocca chiederlo: appartiene a una scena specifica? Riusciamo a delinearla? Sì, di solito i musicisti odiano questa domanda, ma… «Ti rispondo subito: sì. Credo di fare parte di una scena precisa: quella legata alla musica sperimentale e underground. Difficile specificare meglio. Al di là del discorso specifico su generi e linguaggi, sono profondamente convinta che ci si possa ancora identificare, quando si parla di underground, in un approccio molto preciso, tangibile: per me underground è una parola bella, preziosa, e avere un approccio underground alle cose è una cosa che rivendico con orgoglio. Cosa significa? Significa fare le cose con i propri mezzi, significa farle con un senso di comunità ben preciso, quindi parliamo di autoproduzione e anche di auto-organizzazione. Sì, mi sento parte di una scena: perché attorno a un certo tipo di musica che nasce da questo approccio ben preciso esiste, ancora oggi, un network, una comunità, e proprio questo network mi ha permesso di suonare in giro, di conoscere molte persone, anche al di fuori dell’Italia: di conseguenza sento un misto di gratitudine e di responsabilità verso tutto questo. È una scena che vive ai margini? Assolutamente sì. Vive ai margini della grande industria musicale, vero. Ne sta al di fuori. Ma parliamoci sinceramente: in Italia, l’industria musicale quanto è grande davvero? Ci vuole molto poco per finire ai margini, qui da noi…», chiosa ironica.

Foto: Matilde Piazzi

Torna seria, e riprende: «Ora poi sono tornata a Bologna, che resta la mia città. Ed è una città dove comunque un certo spirito controculturale resiste sempre. È sempre più difficile portarlo avanti, ci sono sempre meno spazi. Molti sono stati sgomberati in questi ultimi anni, si fa molta più fatica a trovare spazi creativi autogestiti. Ma lo spirito c’è ancora, e ci sono ancora le persone che si fanno in quattro per portarlo avanti. A partire ad esempio da Jonathan Clancy e da tutta la storia Maple Death, a cui negli ultimi tempi mi sono avvicinata con mia grande felicità, perché è proprio un insieme di persone che ha un’identità ed un approccio ben precisi, e questa identità e questo approccio ci tengono a mantenerli vivi. Oppure c’è tutta la faccenda di Grabinski Point, un luogo ma ancora di più un collettivo multidisciplinare dove ci sono io, c’è Jonathan, c’è anche Stefano Pilia, una delle persone che ammiro di più in assoluto e verso cui più sono grata, nonostante la differenza d’età mi ha subito accolto e coinvolto in mille cose, ecco, lui è bravissimo non solo per sé come musicista ma anche nel supportare gli altri. Così come ci sono altre persone, ad esempio la fotografa Matilde Piazzi. Ma dovrei farti anche tanti altri nomi…».

Bologna o non Bologna, quanto è di nicchia e autoreferenziale questa comunità di musicisti legati all’underground e alla sperimentazione? «In effetti il pubblico delle cose nostre è spesso fatto da altri musicisti. Musicisti che suonano per musicisti. Probabilmente anche per questo si forma un forte senso di identità. Guarda, la scorsa estate sono andata all’Holydays Festival e per una volta mi sono portata dietro due amiche che di base non c’entravano nulla col mio mondo da musicista. È stato molto interessante. Io ho provato un po’ a spiegare le nostre dinamiche, i nostri riferimenti. Mi sono resa conto che in effetti nei nostri eventi non vai a sentire la musica così per caso, come potresti che so andare al cinema un sabato sera: da noi c’è veramente una questione di identità, di immedesimazione, di appartenenza. Poi non è che ce le tiriamo, attenzione: ci fa anche piacere raccontare tutto questo a chi è esterno alla nostra cerchia».

«Ma è anche vero che sì, un po’ di autocompiacimento nella nostra diversità c’è. È come se, per apprezzare davvero quello che facciamo, ci fosse bisogno quasi di un rito d’iniziazione… La nostra è una musica che va scelta. Ti ci devi tuffare dentro. Quando per la prima volta nella mia vita, ed ero al liceo, ho sentito il free jazz di Ornette Coleman il primo pensiero è stato: oh, ma che cazzo è ‘sta roba? E lì ti trovi di fronte a un bivio. Puoi allontanarti perplesso da una cosa che non capisci, o puoi invece essere attratto da essa proprio perché non la capisci e la vuoi quindi approfondire, per riuscire a ricavarne un senso».

Nel percorso della Agnusdei però c’è anche un progetto molto meno “ai margini” e sperimentale, quel Lazarus, il musical di David Bowie ispirato da L’uomo che cadde sulla terra di Walter Tevis portato in Italia da Valter Malosti con Manuel Agnelli come frontman e un plotone eccezionale di talenti della musica italiana più o meno alternativa, da Jacopo Battaglia (già co-fondatore degli Zu) a Paolo Spaccamonti, più molti altri. «È stato Stefano Pilia a tirarmi dentro a tutto questo, ed è una esperienza fantastica».

Dai, le dico, allora vedi che puoi andare bene anche per contesti non prettamente underground… «Diciamo che per me conta prima di tutto il lato umano, e quello che si è creato all’interno dell’operazione Lazarus è splendido. Non sono contro il pop a prescindere. A me, per dire, la musica pop degli anni ’80 piace molto. Ma in generale, se penso al fatto di entrare nei giri del pop mainstream attuale, se mai me ne capitasse l’occasione, boh, non lo so. Magari sono io che ho dei pregiudizi, ma diciamo che il mondo del mainstream lo vedo come un mondo dove sono molto presenti le gerarchie. Un mondo dove spesso sei tu alle dipendenze di qualcosa o qualcuno. Ecco: questo credo che alla lunga lo soffrirei abbastanza. Non credo farebbe per me».

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