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Le Sleater-Kinney non sono fatte per l’epoca digitale

In tempi di polarizzazioni e semplificazioni, la eroine dell'indie femminista tengono botta e continuano a dipingere personaggi complessi. Se solo il nuovo 'Path of Wellness' avesse l'energia d'una volta...

Foto press

C’è un pezzo, nel nuovo disco delle Sleater-Kinney, che inizia con un riffone hard rock anni ’70 che più Led Zeppelin di così forse al momento sul pianeta ci sono solo i Måneskin. Poi appena parte il refrain “I know it’s alright, I know it’s alright” pensi: ehi, un attimo, ma questi sono i Led Zeppelin. La citazione (supponiamo voluta) di Dancing Days fa impennare il quoziente già notevole di suggestioni classic rock sparse nell’album, ma rappresenta anche un interessante gioco di contrasti con l’immagine e la storia della band. Le alfiere del punk/indie rock femminista, le compagne di strada delle riot grrrls, che omaggiano le divinità del rock machista tutte petto nudo e chitarrismo fallico? Perché no, in fondo.

D’altra parte Carrie Brownstein e Corin Tucker hanno l’età per essere cresciute in un periodo in cui i dinosauri dominavano, se non più la Terra, quantomeno le programmazioni radiofoniche e certe strizzate d’occhio al rock d’antan in modo più o meno velato nella loro musica ci sono sempre state. E comunque, se anche in questo caso ci fosse dell’ironia in gioco, uno dei vari progetti in cui è attualmente impegnata la Brownstein – scrivere una biografia delle Heart, la band mainstream rock canadese celeberrima negli anni ’70/80 delle sorelle Ann e Nancy Wilson – nasce da un affetto sincero. E il parallelismo, qui, non può certo sfuggire: le Heart erano sostanzialmente un duo femminile, cioè quelle che sono oggi (anzi: che sono tornate a essere) Carrie e Corin. Nel valutare non solo il nuovo album Path of Wellness, ma anche il ruolo presente e futuro delle Sleater-Kinney nel panorama cultural-musicale attuale, non si può prescindere dal fatto che non c’è più Janet Weiss a picchiare i tamburi e guardare le spalle delle due frontwomen. La batterista ha lasciato la compagnia alla fine delle session del precedente The Center Won’t Hold, prodotto da St. Vincent, e la formula di prammatica per spiegare l’abbandono della band in cui suonava dal 1996 – «divergenze musicali» – cela probabilmente un incrinamento nei rapporti e nella chimica umana tra le tre sulle quali è peraltro inutile congetturare.

Sta di fatto che questo nuovo disco da un lato è un più o meno forzato ritorno alle origini, dall’altro apre nuovi scenari. Per la prima volta nella storia del gruppo non si è ricorso a un produttore esterno: hanno fatto da sole, Brownstein e Tucker, con tutte le implicazioni positive (il ritorno a un feeling più spontaneo e diretto) e negative (diversi brani girano un po’ troppo su loro stessi, soprattutto nella parte centrale del disco, alcune coloriture di tastiere qui e là paiono forzate, ci sono soluzioni a tratti semplicistiche) del caso. Anche qui, ci si può chiedere se la necessità (lockdown, pandemia e tutto quanto) sia stata la madre dell’invenzione o se invece questo ripiegarsi sul do it yourself non sia una dimostrazione a posteriori che la collaborazione con Annie Clark non abbia funzionato poi così bene neppure nel giudizio delle dirette interessate. Che un disco, per certi versi comunque interessante nello sparigliare un po’ le carte in senso pop, come The Center Won’t Hold sia stato come minimo “divisivo” significa usare un eufemismo, ma leggendo tra le righe della diplomatica riflessione di Brownstein – «abbiamo imparato molto da Annie, anche se alcune cose sono riuscite bene altre meno» – si intuisce che insomma, non deve essere stata esattamente quella scintilla artistica che ci poteva aspettare. Ciao ciao, St. Vincent, alla prossima.

La domanda è: qual è il posto delle Sleater-Kinney nel panorama confuso e ancora piuttosto tetro del 2021? Path of Wellness non fornisce risposte decisive. Per chi le ha amate in questi 25 anni ci sono diverse canzoni che fanno da rassicurante coperta di Linus – su tutte l’ottima Worry With You, già uscita come singolo, in cui il solito eccellente intreccio di chitarre non ha mai suonato così funky – ma anche per chi ha apprezzato la (non) svolta electropop di due anni fa ci sono motivi di soddisfazione (ad esempio in Method, che ricorda incredibilmente Eleanor Friedberger). I testi sono più o meno in linea con la tradizione S-K: sintetiche, spesso criptiche allusioni a un continuo confronto emotivo e sentimentale tra un “io” e un “tu”. Là dove si usa il “noi”, come in High in the Grass (“abbiamo solo questo giorno per muoverci / abbiamo vissuto solo per un momento / lasciamo lo spettacolo prima che sia finito / c’è solo questa città da usare”) il riferimento alla situazione che ci ha accomunati tutti nell’ultimo anno e mezzo è invece evidente. Periodo nel quale, oltre a tutto il resto, Brownstein e Tucker hanno preso parte attivamente alle manifestazioni post assassinio di George Floyd, manifestazioni che nella loro Portland sono durate a lungo e, in linea con la tradizione progressista della città, sono state parecchio decise.

Non si trovano però esplicite dichiarazioni politiche né chiamate alle armi, e se il rifiuto di utilizzare slogan, preferendo strade più ellittiche e personali, è una caratteristica che fa onore alle Sleater-Kinney da sempre, d’altro canto le rende troppo poco “spendibili” in tempi di polarizzazione e di semplificazioni grossolane come questi. Precludendone forse l’appeal nei confronti delle generazioni più giovani e battagliere. Ma noi le preferiamo così. Perché snaturarsi quando si è ancora in grado di scrivere un testo come quello di Complex Female Characters, che racconta più efficacemente del maschilismo endemico – il protagonista è uno scrittore che si vanta di creare “personaggi femminili complessi” ma poi le donne reali le tratta come esseri monodimensionali – con tre frasi di quanto ci riescano saggi interminabili e ponderosi? Scuola punk. Carrie e Corin quel retaggio se lo porteranno sempre dietro, e va bene così. Ma continueranno anche a essere quegli affascinanti “personaggi femminili complessi” che conosciamo. La differenza è che loro si sono create da sole.

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