Un anno pieno di festeggiamenti di quarantennali prestigiosi, questo 2019. Perché gli ultimi lampi prima della fine dei ’70 – anni di pieno reflusso e brusco risveglio da utopie politiche, sociologiche, urbanistiche, sessuali, musicali –, da un punto di vista artistico non furono affatto male. O almeno così ci appaiono oggi alcuni di quei prodotti, che, in confronto ai tempi che corrono, sembra che arrivino dal futuro più che dal passato.
Decisamente il caso di Franco Battiato, almeno limitandoci all’ecosistema musicale italiano, che in questi giorni festeggia – con una ristampa – le 40 candeline di uno dei dischi cruciali della sua lunga carriera: L’era del cinghiale bianco. Già all’epoca fu considerato l’album che poneva fine al suo “periodo sperimentale” – quello della psichedelia, del prog e dell’avanguardia, da Fetus (1971) fino a L’egitto prima delle sabbie (1978) – con il passaggio alla EMI, che rifiutò la prima versione dell’album perché considerata troppo poco vendibile. Non che la versione finita nei negozi abbia sbaragliato le classifiche, ma era pur vero che dopo un sacco di tempo Battiato tornava quantomeno al formato canzone e a sonorità che ancora oggi vengono definite “pop”. Il che fa sorridere, visto che se oggi uscisse un disco del genere, influenzato soprattutto da studi orientali e da René Guénon, filosofo esoterico di inizio Novecento, sarebbe considerato come minimo… be’… sperimentale?
Di certo si tratta di un capolavoro a tutto tondo, ma questo non stupisce più di tanto. In quelle tracce si trovano tutti i germogli della sua svolta pop – continuiamo a forzarci in definizioni approssimative – degli anni seguenti: pochi mesi dopo tocca a Patriots e dopo ancora l’apoteosi della Voce del padrone, il primo disco italiano a vendere più di un milione di copie. Più pop di così.
Da questo punto di vista L’era del cinghiale bianco è un disco embrionale, in cui, con il senno di poi, si possono intravvedere già le evoluzioni successive, a partire dai contrappunti di basso, i giri di chitarra, l’utilizzo dei sintetizzatori, con lontani sfondi progressive e new wave all’orizzonte. Anche i testi sono un perfetto esercizio di sarcasmo, citazionismo, critica sociale, ermetismo e esoterismo, inconfondibile marchio di fabbrica di Battiato. Gli arrangiamenti a tratti bizantini si alternano a quelli delle tracce strumentali, e in un certo senso minimaliste. Gli archi e l’oboe di Pasqua etiope ricordano certe atmosfere di Anima Latina, quantomeno nei sapori esotici, così come l’architettura brutalista di Strade dell’est ricorda le ambientazioni di Luce dell’est, sebbene al contrario del brano acustico di Battisti, qui siamo di fronte a un aspro riff di chitarra e assoli puramente e ingenuamente rock.
Citiamo infine la title track di apertura, il brano più celebre del disco e divenuto uno dei più celebri di tutta la discografia di Battiato. Un pezzo che, assieme a Magic Shop, è forse l’esercizio più pop del disco, e non avrebbe sfigurato nella selezione della Voce del padrone. L’era del cinghiale bianco si apre con un magistrale riff di violino di Giusto Pio, ai tempi nel pieno del sodalizio con l’artista siciliano e artefice di tutti gli arrangiamenti assieme a Battiato.
Secondo la tradizione celtica, l’era del cinghiale bianco è un’epoca mitologica lontana, nella quale gli esseri umani raggiunsero la piena consapevolezza spirituale. Nel celebre ritornello Battiato si augura il ritorno del passato, ma è ormai chiaro che quello in realtà era il futuro, dal quale ci stiamo allontanando con la stessa velocità accelerata con cui si espande l’universo.