Il suo ritorno in versione restaurata è stato presentato con enfasi come uno degli eventi più attesi dai fan dei Beatles. Eppure Let It Be, il documentario di Michael Lindsay-Hogg uscito nella primavera del 1970 quando la band aveva già annunciato lo scioglimento e disponibile da domani su Disney+, per 50 anni buoni non solo è stato considerato da tutti o quasi un’occasione mancata, ma è stato anche forse l’unico documento della storia del rock (e di che parte di quella storia…) ad andare incontro a una cancellazione scientifica dalla memoria collettiva. Una censura di fatto tacitamente approvata dai Beatles, mentre i pochi fan che erano riusciti a vederlo ai tempi dell’uscita lo liquidavano sommariamente come la triste narrazione della fine della band più influente di sempre.
Ricordo perfettamente la difficoltà nel riuscire a trovarne testimonianza nei primi anni ’90, quando la fame di Beatles mia e dei miei amici ci portava a cercare qualsiasi tipo di manifestazione dell’esistenza degli dèi di Liverpool. L’unica cosa che era data sapere, e che ci arrivava da qualche biografia e da una manciata di articoli, era che il film era stato un fiasco, che aveva causato la fine del gruppo e che mostrava quattro persone ormai incapaci di stare nella stessa stanza per più di qualche ora.
Persino nei primi anni 2000, quando l’avvento del DVD ha portato alla ristampa (ufficiale e non) di quasi ogni opera messa su pellicola, era più facile scovare versioni digitali di Faccia da schiaffi con Gianni Morandi o titoli improponibili come Stuff – Il gelato che uccide di quel film. Persino il concerto sul tetto della Apple, uno dei momenti più iconici del rock del Novecento, era diventato nell’immaginario una cosa a sé stante, slegata dal progetto di Let It Be, come se un giorno John, Paul, George e Ringo si fossero trovati lì per caso con strumenti e telecamere e avessero improvvisato qualche nuovo pezzo.
Per anni si è vociferato di una riedizione del film, rinviata di continuo, come se l’opera portasse con sé qualcosa di talmente sbagliato e di cui vergognarsi da risultare persino difficile riproporla come semplice documento storico. Poi è arrivato Peter Jackson e The Beatles: Get Back ha restituito di colpo al mondo la vera natura delle tre settimane passate dai Fab Four in compagnia di Lindsay-Hogg e della sua troupe, lanciando di fatto la volata al ritorno ufficiale del lungometraggio originale.
Nella bella chiacchierata tra i due registi che apre la nuova versione di Let It Be è racchiuso il senso di questa operazione: rivedere oggi il film, alla luce della ricostruzione di Jackson, è un vero e proprio atto di giustizia. Non si tratta di una semplice questione filologica, di sterile completismo o di continuare a battere il ferro finché è caldo, ma di riuscire finalmente a vedere quella pellicola con occhi nuovi. Che poi, la vera condanna di Let It Be, al di là dei problemi oggettivi legati alla bassa qualità delle immagini, stava nel fatto di essere diventato in qualche modo uno dei capri espiatori di tutta la questione della fine dei Beatles e di aver dovuto fare i conti con il lutto di un’intera generazione. Qualcuno se la prese con Yoko Ono, altri con Lindsay-Hogg.
Restaurato e remixato con la stessa tecnica usata in Get Back, il film oggi appare sotto una luce completamente diversa, quasi il compendio perfetto di quanto visto nella miniserie del regista del Signore degli anelli. Il lugubre senso di morte che lo aveva accompagnato nel 1970 è stato spazzato via dal punto di vista mostratoci nelle sei ore di filmati inediti di un paio d’anni fa. A posteriori, anche le critiche legate alla scelta delle immagini del montato finale fanno sorridere.
È vero, Lindsay-Hogg aveva a disposizione una gran quantità di girato, ma bisogna anche pensare che, dopo tre settimane di riprese, si era trovato a dover dare un senso a un film nato con uno scopo, quello di filmare il primo concerto del gruppo dal 1966 e di riportare i quattro a comporre come alle origini, che in corso d’opera aveva preso tutta un’altra piega. Non poteva immaginare che l’idea di tornare a esibirsi dal vivo sarebbe naufragata sotto il peso degli ego e delle paranoie dei quattro musicisti, né che l’entusiasmo iniziale nel tornare a scrivere brani in presa diretta venisse bruscamente interrotta dall’abbandono di George Harrison nel bel mezzo delle riprese, costringendo di fatto la troupe a cambiare location e a spostarsi nei più familiari studi della Apple.
Eppure è proprio al regista che dobbiamo l’intuizione geniale del concerto sul tetto, come ricordato nello scambio di opinioni che precede l’inizio del film. «A un certo punto eravamo pieni di materiale molto buono, ma la cosa cominciava a farsi ripetitiva, quindi ho cercato di immaginare un finale degno di quel momento della loro vita».
A conti fatti, Let It Be non è un film né triste, né tanto meno noioso, come ci hanno raccontato per mezzo secolo. Per come è costruito, è una fotografia sincera di “un giorno nella vita dei Beatles”, come recitava il sottotitolo della versione uscita per il mercato italiano. Un giorno costruito mettendo insieme decine di ore di registrazioni, ma che al di là della lunghezza delle barbe che aumenta e diminuisce senza logica, regge perfettamente. In poco più di un’ora e mezza, il lungometraggio mostra infatti una band in studio che suona brani peraltro all’epoca ancora inediti e che sembra a tutti gli effetti prepararsi al concerto finale sulle teste di un’incredula Londra.
Anche la questione dei litigi e del dispotismo di Paul McCartney va completamente riveduta. Come abbiamo visto anche in Get Back, è evidente che si sentiva il leader del gruppo, ma i tanto enfatizzati rimproveri agli altri appaiono come semplici battibecchi che accadono in ogni sala prove, non solo quelle abitate da rockstar. Certo, la scena in cui un sarcastico ed esasperato Harrison gli dice che farà tutto quello gli verrà chiesto, persino di non suonare, fa male al cuore, ma non meno del Lennon che in Get Back dice «se George non torna, chiamate Clapton».
Sarebbe quindi un errore non dare una seconda possibilità all’opera, pensando di aver già visto tutto nella miniserie Disney. In un certo senso, equivarrebbe a guardare solo i contenuti speciali di un film, fregandosene del film stesso. Se c’è una pecca immutata nel tempo, è forse quella di non aver dato spazio ai tanti momenti camerateschi e genuinamente costruttivi di cui si disponeva, limitandosi invece a una semplice carrellata di jam session. Non è dunque la coerenza narrativa, seppur posticcia, a mancare, quanto piuttosto la coerenza temporale all’interno dei tre grandi blocchi in cui si può dividere la pellicola e un minimo di racconto di cosa accade oltre la musica. Senza conoscere l’esatto susseguirsi degli eventi è difficile (e soprattutto lo era cinquant’anni fa) capire perché il gruppo parta in uno studio per poi trovarsi in un altro, oppure perché, di colpo, compaia nelle session anche Billy Preston, come se fosse sbucato improvvisamente dai bagni della Apple. Tutte cose a cui oggi, grazie al lavoro di Jackson, siamo in grado di dare un senso.