Non tutti lo sanno ma ogni giorno a Borgo Dora, un minuscolo rione nel cuore di Torino, va in scena un piccolo miracolo di integrazione quotidiana. Attraversando via Mameli si possono cogliere tutte le virtù di un quartiere aperto, popolare nel senso migliore del termine, culturalmente ricchissimo e meravigliosamente portato alla contaminazione. Un miracolo coltivato anche da Lavazza, Save The Children e l’ufficio minori del Comune, che collaborano attivamente per mantenere in salute una realtà preziosa come Civico Zero, un progetto rivolto a minori e giovani adulti, stranieri e italiani, portatori di potenzialità inespresse che i professionisti impegnati nel centro vogliono far sbocciare a ogni costo.
Grazie ai laboratori espressivi, all’attività dei volontari, dei mediatori e degli psicologi coinvolti nella struttura e a una vera e propria avversione per ogni forma di ghettizzazione, gli ospiti di Civico Zero hanno la possibilità di scoprire e sviluppare talenti e inclinazioni personali, valorizzando la ricchezza che portano dentro di sé.
Il gruppo di torrefatori torinesi ha allestito all’interno della sede una Basement Room che, negli anni, è diventata un ambiente inestimabile per tutte le persone che animano il Civico: pochi metri che fanno tutta la differenza del mondo. All’interno dello studio si compone musica, ci si sforza di scrivere un testo collettivamente superando tutte le barriere linguistiche del caso, si ibridano registri e tradizioni differenti: tutti esempi di come la musica possa rappresentare una corsia d’integrazione privilegiata.
Ieri il Civico ha ospitato Levante, un’artista legata visceralmente a Torino: ha trascorso qui buona parte della sua infanzia e una porzione importante di vita adulta, immagazzinando quel patrimonio di testi, idee e arrangiamenti che l’hanno portata a sostenere i primi provini. Claudia (ci tiene a essere chiamata così) ha interagito con tutte le anime del Civico, cantando con loro, leggendo i testi che hanno scritto insieme, ascoltando le storie personali di persone con vissuti differenti alle spalle, ma tutte accomunate da un linguaggio universale come la musica. L’abbiamo intervistata per chiederle che tipo di Paese che sogna per il domani. La fanta–Italia di Levante è un posto meraviglioso: si lavora di meno, si possono immaginare uno spazio e un tempo per coltivare le proprie passioni, le proteste dei giovani vengono prese sul serio e, soprattutto, la diversità è un valore fondante.
Com’è tornare a Torino?
In realtà torno spesso, mia madre e le mie sorelle vivono qui. Tornare a Torino in un contesto come questo, però, è speciale: per tutti e diciannove gli anni in cui ho vissuto qui ho ignorato l’esistenza di Civico Zero, e ora mi sento in colpissima! Sono passata un milione di volte da questo posto senza sapere cosa fosse. Ti rendi conto?
Oh no, e adesso come farai a continuare a vivere a Milano?
(Ride, nda) non ne ho idea, vivessi qui passerei dal Civico una volta a settimana. Vorrà dire che dovrò tornarci più spesso. Che poi questa è la Torino che piace a me, quella aperta, meticcia, multiculturale. Sono contesti che cerco anche nella vita di tutti i giorni.
Prima hai parlato di privilegio e di quelle condizioni di partenza vantaggiose che, spesso, sottostimiamo.
Esatto: nasci, cresci e pensi che il mondo sia quello che ti stanno mostrando, quando in realtà siamo semplicemente egoriferiti e concentrati sulla nostra vita. Per carità, non è mica una colpa: in qualche modo dobbiamo pure andare avanti, costruirci delle certezze. Queste occasioni però ti fanno tornare a contatto con la realtà, ti ricordano che alla fine della fiera basta veramente poco per aiutare qualcuno, e che quello che dal tuo punto di vista è una briciola per un’altra persona può essere un aiuto indispensabile.
I ragazzi hanno sollevato dei temi molto attuali, come ad esempio il lavoro che fagocita tutto quel tempo che potremmo impiegare per arricchire il nostro io “non operaio”: leggere un libro, scrivere, andare a una mostra, fotografare un paesaggio. Hai mai avuto la sensazione di essere troppo concentrata sul lavoro e troppo poco sulla tua arte?
Quando non vivevo di musica, ahimè, assolutamente sì. Ho lavorato alla Drogheria (un locale di Piazza Vittorio, nda) per due anni e mezzo, il primo disco l’ho finanziato a suon di caffè e cappuccini. Mi ricordo che maneggiavo coltelli e che, poco prima degli aperitivi, mi facevo sempre male alle dita: una volta, affettando un limone, mi sono fatta così male che se ne è andato un pezzo di indice. Ero arrabbiata perché quella non era la vita che desideravo, ma una tappa di passaggio obbligata e faticosa. Funziona così per tutti.
Com’è stato quel periodo di mezzo?
È stato un limbo strano. Parto dall’inizio: quando mi sono trasferita a Torino avevo già 9 anni, e non avevo un vissuto in questa città. Mi sono resa conto di essere un pesce fuor d’acqua: le mie compagne di classe avevano interessi diversissimi dai miei. Pensavo solo alla musica, volevo suonare, comporre creare. Questa mia dedizione totale alla causa ha scoraggiato moltissimo le relazioni sociali.
Sentivi “il peso delle aspettative”, per dirla con Colapesce Dimartino?
No dai, ho provato a rincorrere questo sogno in maniera razionale, rimanendo ancorata alle cose reali: sono sempre stata molto giudiziosa, vivevo nel terrore di deludere mia madre o portare dei problemi a casa. Sentivo il peso di questa donna, rimasta vedova molto giovane, che aveva già i suoi problemi e lavorava dalla mattina alla sera.
Questo grande senso del dovere ha influenzato la tua scrittura?
Come ogni siciliana che si rispetti, soffro di uno strano tic: una ricerca un po’ folle del contegno. È un retaggio siculo e familiare, quindi pesante due volte, e mi ha segnato moltissimo. La mia metamorfosi è iniziata dalla scrittura di Alfonso, un pezzo nato per scherzo che mi ha fatto scoprire un mondo, un po’ come accadde al Battiato de La voce del padrone, l’album che lo ha consegnato al grande pubblico con quelle che, all’inizio, venivano percepiti come canzonette più disimpegnate. Cantare a squarciagola una frase ordinaria e facilona come «Che vita di merda!» (la intona, ci vengono i brividi; proviamo a calmarci, nda) andava in controtendenza con tutto ciò che ero stata fino a quel momento: prima volevo scrivere poesie a tutti i costi, dare risalto al mio animo tormentato ricercando parole difficili e incastri eleganti. E invece non prendermi sul serio, fare emergere il mio aspetto più ludico e liberarmi da quel dover essere engagé a tutti i costi, mi ha aiutata moltissimo.
In effetti la canti sempre con una certa fierezza.
Sì, Alfonso è il mio cavallo di battaglia, dai.
Quindi ci sono due Levante? Quella più riflessiva e quella più scanzonata?
Sì, ho un lato tragico, malinconico e cervellotico che non mi abbandona mai, anche perché risente delle mie esperienze di vita, ma sono sempre stata la pagliaccia di casa per definizione: anche la leggerezza fa parte di me.
Prima Lino – uno dei ragazzi di Civico Zero, nda – parlava del poco tempo che ha a disposizione per scrivere e della difficoltà di coniugare la musica, la sua passione, e il lavoro in officina, quello che gli permette di sbarcare il lunario.
Come dicevo prima, non avere il tempo per coltivare le proprie potenzialità e doverle riversare in un lavoro mal pagato e di fatica è tremendo. Torni a casa stanchissimo, vuoi solo buttarti sul divano e non pensare assolutamente a niente. Lo capisco perfettamente, l’unico consiglio che ho potuto dargli è quello di ritagliarsi delle finestre per scrivere. Una grande canzone può nascere anche durante la mezz’ora che passi in metro.
Quindi un’Italia più giusta è anche un’Italia in cui si lavora di meno?
Me la gioco così: un’Italia più giusta è un’Italia modello Civico Zero.