L’incredibile trasformazione dei Village People da icone gay a gruppo MAGA
E poi, quali Village People? Cambi di formazione, casini legali, mutamenti di stile: viaggio nella storia della band di ‘Y.M.C.A.’ e dei conflitti causati dall’allineamento con Donald Trump. Con la risposta alla domanda: sono un gruppo gay o la celebrazione del melting pot americano?
I Village People con Trump a Washington DC il 19 gennaio. Foto: Scott Olson/Getty Images
Un sacco di gente può dire d’essere cresciuta con la musica dei Village People. Jonathan Belolo l’ha fatto in senso letterale. È figlio del co-fondatore della band e ne ha vissuto da vicino la storia, arrivando a salire sul palco con loro quand’era piccolo. Lo scorso 19 gennaio, dal backstage della Capitol One Arena di Washington DC, ha assistito a una delle scene più surreali della carriera dei Village People. Mentre la versione odierna della band cantava Y.M.C.A., è salito sul palco il più celebre tra i fan, nonché l’uomo che poche ore prima aveva giurato come Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump.
«È stato surreale», dice Belolo, che è a capo della Can’t Stop Productions, società a conduzione familiare che gestisce il brand, l’immagine e i diritti musicali dei Village People. «Che piaccia oppure no, quell’uomo potentissimo era lì a ballare come un bambino ed era felice di ascoltare i nostri ragazzi. Un fatto decisamente bizzarro». A un certo punto, Trump si è rivolto a Victor Willis, l’unico membro originale della formazione classica anni ’70 del gruppo, vestito da poliziotto. «Ha notato che sono nel gruppo da un bel pezzo». Willis gli ha risposto che il testo di Y.M.C.A. l’ha scritto lui.
Vedere un Presidente sul palco con cantanti vestitiuno da poliziotto, uno da indiano d’America, uno da muratore, uno da militare, uno da cowboy e uno da leather man è stato bizzarro. Nati a tavolino quasi mezzo secolo fa da una coppia di produttori francesi, i Village People erano l’epitome della novelty band destinata a dissolversi col passare delle mode. E invece nel 2025, nella capitale degli Stati Uniti, c’erano loro, o almeno una loro incarnazione. E si esibivano per un pubblico di orientamento MAGA che ha accolto a braccia aperte un gruppo di cantanti in costumi stravaganti, con un immaginario interpretabile sia come una celebrazione del machismo, sia come una fantasia gay.
Il primo e più famoso cowboy della band, di cui non fa più parte, di chiama Randy Jones e non è affatto sorpreso dal continuo appeal della loro musica e della loro canzone più famosa. «Abbiamo sempre inteso Y.M.C.A. come pezzo pop. E una canzone pop è per definizione popolare, può essere ascoltata e apprezzata da un gran numero di persone. Non abbiamo mai mirato a un particolare target demografico, non abbiamo mai cercato di escludere qualcuno. Facevamo musica per tutti».
La passione di Trump e dei suoi sostenitori per i Village People è solo l’ultimo imprevedibile colpo di scena di un gruppo, di un franchise e di una saga che va avanti nonostante cambi di formazione, casini legali, mutamenti di stile e malumori sufficienti per riempire un’intera stagione di Behind the Music. Era dai tempi dello Studio 54 che i Village People non avevano un’esposizione del genere. Grazie al sodalizio con Trump e all’associazione della sua figura con Y.M.C.A., la canzone è tornata in cima alla classifica dance di Billboard, a 47 anni dall’uscita. Ma se i sostenitori di Trump si sono divertiti a ballare e cantare il pezzo durante i comizi e gli eventi inaugurali, i fan di vecchia data non possono fare a meno di chiedersi: come e perché è successo?
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La line-up classica: Randy Jones (il cowboy), David Hodo (il muratore), Felipe Rose (il nativo americano), Victor Willis (il poliziotto), Glenn Hughes (il leather man), Alexander Briley (il militare). Foto: CBS Archive/Getty Images
Chiunque abbia vissuto a New York a metà anni ’70 ricorderà l’Anvil, un ex motel trasformato in bar e gay club a downtown. Era il posto giusto per vedere spettacoli di drag queen e rimorchiare altri uomini, soprattutto nel seminterrato. Felipe Rose, un newyorkese di origini portoricane e Lakota/Sioux che si vestiva con abiti dei nativi americani, era uno dei ballerini del locale e spesso si esibiva con dei campanelli ai piedi.
Una sera del 1977, Jacques Morali, un produttore discografico francese che si era trasferito in America, era al bar del locale e ha notato Rose che ballava. «Quando mi ha visto e ha sentito il suono di quei campanelli, ha chiesto: “Che cos’è?”», ricorda Rose. «Qualcuno gli ha risposto: “È quel ragazzo laggiù”. Ha alzato lo sguardo e ha detto: “Oh, mio Dio”. Ero bellissimo. Ed ero unico».
Morali, che era gay, e il suo socio in affari, il produttore discografico francese e talent scout Henri Belolo, sognavano di conquistare l’industria musicale americana con la Ritchie Family, una band disco i cui membri in realtà non per nulla famigliari. Qualche sera dopo essere stato all’Anvil, Morali (morto nel 1991) si è avventurato in un altro gay bar dove ha visto degli uomini vestiti da cowboy e da muratori. «I gay non hanno un gruppo di riferimento», diceva nel 1978 a Rolling Stone. L’anno dopo Belolo (morto nel 2019) raccontava che «è poi venuto da me dicendo: “Henri, creeremo un gruppo chiamato Village People”».
Ingaggiati gli autori Peter Whitehead e Phil Hurtt, Morali e Belolo hanno messo assieme pezzi ritmati abbinati a testi che esaltavano le comunità gay del Greenwich Village, di San Francisco, di Fire Island e di Hollywood. (“Non andare fra i cespugli / Qualcuno potrebbe prenderti” è un verso di Fire Island, che parla della zona appartata di Long Island). «È un concept album molto specifico sullo stile di vita gay e sui valori LGBTQ», dice Jonathan Belolo. «È musica da attivisti. I testi parlano di fare coming out ed essere se stessi senza nascondersi. Henri non era affatto gay, ma diceva che la musica migliore era quella che si ascoltava nei gay club». Per la voce principale, i produttori hanno reclutato Willis con il suo timbro soul e potente, che in quel periodo era nel cast della versione per Broadway di The Wiz.
Un vero e proprio gruppo non esisteva quando è uscito Village People. In copertina c’erano dei modelli e in più Willis, per via del suo impegno a Broadway, non era stato autorizzato a partecipare al servizio fotografico. Ma quando il disco è scoppiato nei club, l’etichetta Casablanca ha capito che era necessario assemblare una formazione vera e propria dei Village People per le esibizioni live. I produttori hanno messo assieme Willis, Rose e i coristi Alex Briley e Whitehead, che dopo poco ha lasciato. Si è poi stabilita la line-up classica: Willis (il poliziotto), Rose (il nativo americano), Briley (il militare), Randy Jones (il cowboy), Glenn Hughes (l’uomo vestito in pelle) e David Hodo (il muratore).
La Casablanca ha pubblicizzato la band su riviste gay come Advocate. A poco a poco, la natura omosessuale del progetto è passata in secondo piano e i Village People si sono trasformati in un gruppo per famiglie che celebra gli archetipi americani. «Siamo gay e ne siamo orgogliosi», spiega Belolo, «ma l’idea principale è che siamo americani e orgogliosi di esserlo. È diventata tutta una questione di stereotipi e archetipi. I nostri cowboy e indiano non si sono ammazzati fra loro, sono felici e sorridono. Ci sono dei poliziotti neri vicino a operai edili bianchi e nativi americani: è una versione pacifica e gioiosa del melting pot culturale. Gli anni ’70 sono stati un’epoca buia per la cultura e quindi, forse, inconsciamente tante persone in America avevano bisogno di vedere questo ritratto positivo».
L’ambiguità dell’appeal del gruppo è emersa durante la registrazione del terzo album Cruisin’ del 1978. Le origini di Y.M.C.A., canzone originariamente accreditata a Belolo, Morali e Willis, sono ancora adesso oggetto di dibattito tra i componenti attuali e quelli passati, ma tutti concordano sul fatto che derivi dalla curiosità nata in Morali dopo essere stato qualche volta in una sede della Y.M.C.A. (la Young Men’s Christian Association è un’organizzazione cristiana ecumenica statunitense nata per fornire sostegno ai giovani e alle loro attività, ndt) nella zona nord del Greenwich Village.
«Ho convinto Jacques a venirci qualche volta con me», racconta Jones. «Era stupito da tutto ciò che era racchiuso in una sola struttura: palestre, campi da basket, piste di atletica, mense, corsi, persino stanze per chi non sapeva dove andare. Alcuni dei miei compagni di palestra si erano dati al cinema per adulti e credo che il vecchio Jacques rimanesse molto colpito ogni volta che uno di loro si avvicinava e ci salutava, mentre ci allenavamo». Aggiunge Rose: «Jacques era affascinato, perché lì i ragazzi potevano allenarsi e fare sesso».
Willis (che a differenza di altri del gruppo era etero) spiega che la canzone è nata quando Morali gli ha chiesto cosa significasse la sigla Y.M.C.A. «Mi ha detto che la cosa era interessante e che avremmo potuto scriverci su una canzone». Insiste a dire che l’ispirazione per il testo era la sede Y.M.C.A. della sua città natale San Francisco e che la canzone aveva a che fare con l’idea di un posto dove rimettersi in sesto, non col rimorchiare. «Giocavo a basket e facevo sport nella sede Y.M.C.A. e ci vedevo gente che non aveva soldi per andare al Ritz-Carlton e aveva bisogno di un posto dove stare», dice. «È un luogo dove ci si può rimettere in piedi. Il testo parla di questo. La gente poi ci vede quello che vuole».
A oggi, Willis non si rassegna all’interpretazione gay della canzone, tanto che l’anno scorso ha annunciato che la sua manager e moglie, l’avvocato Karen Willis, avrebbe fatto causa a qualunque media che avesse usato l’espressione “inno gay” per descrivere il pezzo. «Non m’importa se i gay vogliono rivendicarla per sé come inno», chiarisce. «Io dico che non è corretto definirla un inno gay perché non c’è nulla nel mio testo che parli di gay o di atti omosessuali nella Y.M.C.A. Se dovete definire la canzone in qualche modo, chiamatela inno».
Pubblicata nel 1978, dopo il boom della Febbre del sabato sera con John Travolta, Y.M.C.A. è arrivata al secondo posto in classifica. Quando sono andati ad American Bandstand hanno lanciato la moda del balletto caratteristico della canzone, in cui si sillabano le lettere con le braccia, in pratica una versione anni ’70 di Hot to Go di Chappell Roan. «Non avevamo alcuna coreografia», ricorda Rose. «Ci limitavamo a battere le mani verso la fine della canzone. Per la cosa delle braccia, saremo sempre debitori ad American Bandstand. Abbiamo copiato quel che i ragazzi facevano da Dick Clark».
Il gruppo è stato anche scritturato per recitare in un film con Steve Guttenberg e Caitlyn Jenner ed è finito sulla copertina di Rolling Stone. Ma la caduta è stata rapida quanto l’ascesa. Durante la fase di produzione del film Can’t Stop the Music (1980), Willis ha mollato il gruppo a causa, dice, di problemi con la sceneggiatura, per lanciarsi poi in una carriera da solista. Le critiche al film (il New York Times ha scritto che mancava «di una vera e propria trama o di slancio») e alla disco music, compresa la famigerata Disco Demolition, la sera dei roghi di dischi al Comiskey Park di Chicago nel 1979, hanno messo fine alla serie di hit della band.
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I Village People cantano cantano ‘Y.M.C.A.’ in Florida nel 1979. Foto: Michael Putland/Getty Images
Col nuovo cantante Ray Simpson, i Village People per un breve lasso di tempo hanno abbandonato i costumi per darsi al new romantic (presente Adam Ant?). Nel 1981 hanno registrato Renaissance: un flop. «Eravamo arrabbiatissimi perché alla gente il film non era piaciuto», racconta Rose. «Così abbiamo semplicemente cambiato immagine». Willis è poi tornato brevemente per scrivere e cantare in uno degli album successivi, ma i Village People ormai sembravano la reliquia di un’epoca passata, come le scarpe con la zeppa.
Sono tornati verso la fine degli anni ’80, quando alcuni componenti di spicco come Rose e Jones (ma non Willis) hanno preso in licenza il nome dalla Can’t Stop Productions e si sono rimessi in pista, esibendosi a matrimoni, eventi aziendali, ovunque li chiamassero. La risposta è stata all’insegna della nostalgia: il gruppo è stato persino parodiato in Fusi di testa e nel video di Discothèque degli U2 ed è andato in tour con Cher. «I Village People sono un giocatto fichissimo che avevi infilato da qualche parte nell’armadio e te ne eri dimenticato. E che ha ritrovato quando sei cresciuto», dice Eric Anzalone, che entrato nella band a metà degli anni ’90 prima come sostituto dell’operaio edile e poi come motociclista/uomo in pelle al posto di Hughes, che è mancato nel 2001. «Lo scopo del gruppo è semplicemente divertirsi e poi ci mascheriamo, che è sempre una figata».
Quando il gruppo ha cantato Y.M.C.A., durante un festival in Europa, migliaia di persone si sono lanciate a fare la coreografia con le braccia. «Non avevo mai visto uno spettacolo del genere: erano circa 200 mila persone», racconta Anzalone. «Mi ha letteralmente levato il fiato».
Quell’incarnazione della band, di cui facevano parte ancora diversi vecchi componenti, non sapeva di avere i giorni contati. Alla fine degli anni Duemila si è rifatto vivo Victor Willis, la cui carriera solista non è mai decollata e che aveva avuto problemi di droga e si era disintossicato. Durante il periodo trascorso nella band, Willis aveva ceduto i diritti d’autore delle sue canzoni alla società di Belolo e Morali. Su suggerimento della moglie avvocato, ha deciso di avvalersi della normativa che consente agli autori di canzoni di reclamarne i diritti dopo 35 anni. Ci sono state cause e negoziazioni e Willis è riuscito a riavere i diritti d’autore su 13 pezzi dei Village People. In un’azione legale successiva, ha dimostrato di essere stato lui, e non Henri Belolo, a scrivere i testi di alcuni di quei pezzi, tra cui Y.M.C.A.: di conseguenza, la sua quota sulle royalties dei brani è cresciuta passando da un terzo alla metà.
È stato un bel risultato, ma Willis non era ancora soddisfatto. Voleva tornare nella vecchia band. «Era il mio gruppo», dice Willis, «e volevo fare con loro la mia musica» (nei documenti processuali, Willis dice che i Village People erano stati formati da lui e Morali e che i dischi erano «semplicemente Victor Willis con dei coristi»). In base all’accordo con Willis, la Can’t Stop Productions (che deteneva ancora i diritti di immagine, nome, marchio ed edizione del gruppo) ha comunicato alla versione del 2017 dei Village People che la loro licenza sarebbe terminata e da quel momento l’Harlem West Music Group di Victor e Karen Willis avrebbe avuto i diritti di sfruttamento del nome per le esibizioni dal vivo. Come dice Belolo, «era fondamentale che non ci fossero sul mercato due band chiamate Village People».
Nuovamente al comando, Willis racconta di aver proposto ad alcuni dei membri di rimanere. «Ho proposto ai ragazzi di tornare nel gruppo con me, ma hanno rifiutato perché volevano fare le loro cose» (il mese scorso, in un post su Facebook, il gruppo ha dato la propria versione: «Abbiamo detto di no perché non ci voleva tutti»). Belolo sperava in una riconciliazione tra tutte le parti coinvolte, ma non era destino. «Quando le persone non si vogliono bene e quando c’è tensione nei rapporti di lavoro, a volte le cose precipitano». Di conseguenza, l’ultima formazione della band è stata sostanzialmente congedata. Willis ha ripreso ad andare in tour con i Village People con una nuova line-up e la versione precedente del gruppo ora si chiama Kings of Disco (con l’aggiunta della dicitura “ex membri dei Village People”).
Inizialmente i rapporti tra le due parti sono stati difficili. Sui loro account sui social media, i Kings of Disco hanno chiarito che avrebbero continuato a lavorare nonostante Willis, anche con un cambio di nome. In un contenzioso successivo con la Disney, in cui si sostiene che l’azienda avrebbe sbagliato la gestione della security, l’ospitalità e il pagamento per un’esibizione del 2018 a Disney World, Karen Willis ha accusato «la versione precedente del gruppo» (che non è mai nominata nei documenti) di aver «incoraggiato i fan a contattare la Disney per reclamare» per lo spettacolo e ha lamentato che la band è stata poi oggetto di scherno da parte di alcuni di questi fan (la manager dei Kings of Disco, Deborah Crawford, smentisce questa affermazione: «Non abbiamo mandato nessuno e non faremmo mai una cosa del genere»). La causa è ancora in corso.
Nel 2020, gli attriti tra le parti sembravano essersi placati. Grazie a un accordo stretto con la società di Belolo, i Kings of Disco possono ancora esibirsi, a patto di non aprire i loro concerti vestiti con i costumi classici dei Village People e di eseguire solo un certo numero di canzoni del gruppo. «Perdere il marchio è stato un brutto colpo», racconta William Whitefield, entrato nella band nel ruolo del muratore. «Ma che ci vuoi fare?».
Poi è arrivato Donald Trump.
Nessuno nella cerchia dei Village People saprebbe individuare il momento esatto in cui Trump è diventato un fan di Y.M.C.A. o del gruppo, ma molti ipotizzano che tutto sia iniziato con la nightlife della New York anni ’70. Jones e Rose ricordano di aver visto un giovane Trump frequentare la scena dei club newyorkesi. «So che la conosceva fin dal nostro primo incontro nel 1978 allo Studio 54, dove Y.M.C.A. veniva suonata ogni sera», racconta Jones (Willis dice di non sapere nulla di queste storie). È anche probabile che Trump abbia ascoltato più e più volte Y.M.C.A. durante le partite dei New York Yankees: la canzone viene suonata al sesto inning e lì è più legata al tifo sportivo che alla cultura gay.
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I Village People a New York nel 1979. Foto: Robin Platzer/Getty Images
Nel 2020, l’interesse di Trump per i Village People era evidente e ha iniziato a usare Y.M.C.A. nei suoi comizi senza comunicarlo e chiedere il permesso alla società di Belolo o al gruppo. «Quando è successo la prima volta, è stato uno shock totale e ho faticato a capire perché diavolo lo facesse e perché piacesse al pubblico», racconta Belolo, che l’anno prima stava elaborando la morte del padre per cancro. «Eravamo ancora in lutto e vedere che accadeva questo, che era completamente fuori dal nostro controllo, ci ha fatti infuriare. Quelle canzoni sono per tutti, progressisti o conservatori, bianchi o neri, di qualunque orientamento sessuale. L’utilizzo di quella musica durante una campagna elettorale molto schierata ci è sembrato inopportuno. Non l’abbiamo approvato e non l’abbiamo voluto noi».
In un post d’inizio 2020 Willis ha preso atto dell’uso della canzone da parte di Trump, ma ha poi reagito in maniera più decisa a distanza di qualche mese, dopo la morte di George Floyd e Breonna Taylor. «Ti chiedo di non usare più la mia musica nei tuoi comizi, specialmente Y.M.C.A. e Macho Man», ha scritto. «Mi dispiace, ma non posso più fare finta di niente». Belolo aveva carezzato l’idea di intraprendere un’azione legale nei confronti della campagna di Trump, ma sarebbe stato «estremamente difficile e costoso» per cui ha deciso di non farlo.
La questione sembrava risolta quando Trump ha perso le elezioni del 2020, ma nel 2023 il neocandidato ha ricominciato a usare Y.M.C.A. nei suoi comizi. Quando, quell’anno, un gruppo di performer si è travestito da Village People per un evento a Mar-a-Lago, Karen Willis ha inviato una diffida agli uffici di Trump per impedire «qualsiasi ulteriore uso non autorizzato dell’immagine e delle canzoni dei Village People per la sua campagna elettorale (o a titolo personale)».
E però, più la campagna presidenziale del 2024 proseguiva e più Victor Willis addolciva la sua posizione. «Ho visto che a Trump la canzone piaceva davvero e che ogni volta che la usava portava gioia al popolo americano». Ha dato istruzioni alla BMI, società per il diritto d’autore, di non sospendere la licenza politica di Trump per l’utilizzo della canzone. «Così gli abbiamo permesso di continuare a farlo e credo che abbiamo preso la decisione giusta».
L’elezione, dice Willis, ha confermato la bontà della sua scelta. Stando al cantante, i Village People sono stati chiamati a esibirsi a Mar-a-Lago, ma non hanno potuto farlo a causa di impegni precedenti. Tuttavia, quando è arrivato l’invito per suonare alla cerimonia inaugurale, Willis ha indossato con entusiasmo il suo costume da poliziotto. «Sono un democratico, quindi sostanzialmente non era lui il candidato per cui avevo votato, ma crediamo che chi vince, vince e che si debba appoggiare chiunque sia presidente, finché non fa qualcosa di scorretto nei nostri confronti. Ci sembrava giusto sostenere chi aveva vinto».
L’annuncio che i Village People si sarebbero esibiti con Kid Rock, Lee Greenwood e altri beniamini di Trump ha suscitato sgomento e stupore. Sui social ufficiali dei Village People, i seguaci MAGA hanno elogiato il gruppo, ma gli ex membri sono stati sommersi da e-mail e post che li criticavano o li attaccavano e hanno dovuto ricordare ai fan che i Village People ormai avevano una formazione molto diversa da quella originale. I Kings of Disco hanno diffuso un comunicato per mettere in chiaro che non erano loro la band vista con Trump. «Non ci esibiremmo mai in alcun comizio politico o inaugurazione o per alcuna figura politica», ha detto Whitefield.
Nonostante le sue perplessità, Belolo ha finito per volare a Washington da Parigi per la cerimonia inaugurale. «Non saremmo mai venuti per una manifestazione che si fosse svolta prima delle elezioni, ma adesso che ci troviamo in una fase di transizione del potere e si tratta più che altro di celebrare l’America, mi sento a mio agio e penso che Henri e Jacques l’avrebbero pensata allo stesso modo. Questo non significa che approviamo le politiche di Trump. Molte sono profondamente contrarie a ciò in cui credo e a ciò in cui crede la band. Capisco che per molti sia difficile digerirlo, vista la personalità del nuovo presidente».
Intanto, il giro d’affari dei Village People si sta nuovamente allargando. Belolo si era già mosso per proporre in giro un musical jukebox incentrato sulla band da ben prima che Trump iniziasse a ballare su Y.M.C.A., ma con scarso successo. L’anno scorso, però, lui e il fratello Anthony hanno stretto una partnership (per una somma non nota) con la società editoriale Primary Wave per sfruttare le canzoni, le registrazioni e il brand della band. Oltre al musical e al primo videogioco dei Village People (Disco Star) che dovrebbe uscire quest’anno, Belolo sta valutando l’idea di un documentario, una biografia e una versione avatar della band sul modello di quella degli ABBA. Willis, nel frattempo, ha dichiarato di aver terminato un nuovo album dei Village People che uscirà nel corso dell’anno.
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Il vicepresidente JD Vance balla ‘Y.M.C.A.’. Foto: Samuel Corum/Getty Images
Che impatto avrà su tutto questo la associazione con Tump? Neanche Belolo lo sa. «Ora potrebbe rivelarsi più difficile, per noi, realizzare questi progetti, ma chi può dirlo?». Da parte sua, Willis è più ottimista. «Dovrebbe andare bene», dice. «Se ci sarà qualcosa che non va con Trump o con quello che fa, ne parleremo. Non abbiamo rimpianti per aver suonato all’inaugurazione. È stata la cosa più importante che i Village People abbiano mai fatto ed è un onore essere invitati alla Casa Bianca, chiunque sia il presidente».
Una cosa in cui i fan vecchi e nuovi non dovrebbero sperare è una reunion dei membri originali in vita. A Belolo piacerebbe («È in cantiere per i prossimi anni», dice), ma Willis non è così ansioso di ripopolare quel particolare “villaggio”. «Sono soddisfatto dei ragazzi che lavorano con me. Abbiamo un’ottima formazione e loro fanno un gran lavoro. Non sono pronto a tornare indietro».
Per quanto assurdo possa sembrare un ritorno dei Village People, forse ha senso che un gruppo associato a dramma e nostalgia per un’epoca passata sia la colonna sonora perfetta per il Trump 2.0. In cosa tutto ciò si tradurrà, per il gruppo e per il Paese, è un’altra faccenda. «Come straniero, sono orgoglioso di partecipare in piccola parte a un pezzo di storia americana», dice Belolo. «Spero solo che il nuovo presidente non rappresenti la fine della democrazia in America».
Da Rolling Stone US.