«Vuol dire che adesso siamo diventati Swifties?», domandava ieri sera un fan dei National dopo l’annuncio della collaborazione fra Taylor Swift e i fratelli Aaron e Bryce Dessner, che della band americana sono figure centrali. Con l’ottavo album Folklore, annunciato poche ore prima della pubblicazione avvenuta stanotte, Taylor Swift si accattiverà la simpatia di chi l’ha sempre considerata brava – un dato oggettivo – e culturalmente rilevante, ma musicalmente poco interessante, per lo meno da Reputation in poi. Vale anche il contrario. Può darsi che questa Taylor Swift meno metropolitana e più campagnola che fa scelte musicali vagamente hipster e s’affianca a musicisti che di solito stanno con Sufjan Stevens spinga una piccola parte del suo pubblico a scoprire i National e il mondo che li circonda.
Dice Taylor Swift che ha scritto Folklore durante il lockdown, abbandonandosi a fantasie e flussi di coscienza. S’è messa a giocare con storia e memoria, ha rimuginato sul passato, ha inventato nuovi personaggi e li ha ficcati in situazioni scomode, s’è dedicata al suo argomento preferito: sé stessa. Al posto di tiraci fuori un altro disco pop sfacciato e appariscente come Lover dell’anno scorso, ha fatto un album scarno e delle tinte scure, che dà una sensazione di calore e famigliarità. Come se queste storie piccole e personali avessero avuto bisogno di un contesto sonoro fuori dal tempo, più vicino al mondo dell’indie americano che a quello del pop d’alta classifica. Lo dicono anche le foto in bianco e nero che accompagnano il disco e gli arrangiamenti morbidi e per certi versi sofisticati a cui hanno contributo Jack Antonoff e soprattutto Aaron Dessner, produttore e co-autore di 11 delle 16 canzoni. Non sembra neanche il disco di una celebrità e nemmeno quello di una pop star che per sfizio si fa un giro in un territorio, l’indie folk, che non è suo. Ma anche se restasse un episodio isolato, Folklore sarebbe una delle cose migliori fatte da Swift.
C’è una canzone che s’intitola Cardigan in cui la protagonista racconta che quando si sentiva come un vecchio cardigan abbandonato sotto a un letto lui l’ha indossato e ne ha fatto il suo capo preferito – poi, essendo la signorina una macchina da guerra, un vero cardigan è disponibile nello store del sito ufficiale a 49 dollari più spese di spedizione. Ecco, ascoltare Folklore dà la sensazione di famigliarità che si prova quando s’indossa un capo d’abbigliamento a cui si è affezionati. Ci si sta dentro bene. Messi da parte i fuochi d’artificio, i colori, gli effetti speciali, Swift costruisce le canzoni su frasi di chitarra o pianoforte attorno a cui Dessner e Antonoff inventano un mondo di suoni misurati, pieni di calore, a tratti raffinati, con tocchi electro contemporanei che lo fanno suonare con un disco del 2020 e non un For Taylor, Forever Ago. È una specie di album indie – un paradosso, parlando di una pop star – a cui Swift aggiunge il suo senso spiccato per la melodia, un talento che non hanno gli autori del mondo indie folk a cui guarda ora Swift. In queste canzoni lei è sempre perfettamente riconoscibile. Ci sono i suoi tic, il suo stile, echi del suo passato. Si può facilmente immaginare alcuni di questi pezzi con arrangiamenti super pop. E invece no. È come se Swift avesse rallentato e rarefatto la sua musica d’alta classifica dando più spazio alle sfumature della voce, che ha qui una presenza meravigliosa, in qualche canzone da standing ovation.
Folklore è un disco di storie. La cantante s’identifica con la capricciosa filantropa Rebekah Harkness di cui ha comprato la villa nel Rhode Island. Mette in piedi un magnifico duetto con Bon Iver, un dialogo in cui due ex amanti offrono due prospettive radicalmente diverse della fine della loro storia. Immagina un funerale a cui si presenta un ex persecutore. Dedica varie canzoni a ricordi d’infanzia, veri o inventati che siano, e racconta una storia d’infedeltà con grande empatia, e non per la vittima. Ricorda il nonno militare durante la Seconda guerra mondiale. Canta soprattutto di scelte sbagliate e di innocenza perduta. C’è un continuo andare indietro nel tempo, un po’ per un senso di nostalgia precoce per una trentenne e un po’ per ripensare la propria vita e correggere almeno nella testa gli errori fatti. Swift attraversa di continuo la linea che separa le vittime dai carnefici per spiegare che la vita è un gran casino e la perfezione non esiste. Per una volta, non punta il dito contro nessuno ed è un sollievo. A un certo punto canta una canzone dal punto di vista di un diciassettenne, James, che tradisce la fidanzatina e si presenta a casa di lei in cerca di perdono – che sollievo, grazie al cielo si può ancora scrivere dal punto di vista di una persona che non ha il nostro sesso, razza o classe sociale. Spesso il confine fra realtà e fantasia svanisce. Non è così in tutte le storie che diventano appunto folclore?
E insomma, è davvero brava questa Taylor Swift nostalgica e in bianco e nero, un po’ indie e un po’ folk. Folklore ne ristabilisce il profilo di maverick del pop che fa quel che le pare. Sfugge dalla necessità di presentare gli album come progetti mastodontici accompagnati da campagne promozionali lunghe, chiassose e sopra le righe. Ed è finalmente un disco bello dall’inizio alla fine, anche se 16 canzoni (17 nelle versioni fisiche) sono troppe. Otto anni fa Taylor Swift era un’eroina del country-pop che guidava il processo di svecchiamento di una delle musiche più tradizionaliste d’America. Sei anni fa era una pop star sensazionale che scriveva canzoni infallibili con i migliori sulla scena. Poi, tre anni fa con Reputation e l’anno scorso con Lover, ci è sembrato che la sua narrazione si fosse appannata, fatalmente consumata. E quando hai l’aria da prima della classe, ma smetti di fare dischi brillanti cominciano i guai. Quest’album meditabondo, da storyteller, ci dice che Taylor Swift è ancora la prima della classe e a vederla così, struccata e con addosso un vecchio cardigan, ci sembra più brava che mai.