Gridano alla censura i sostenitori dello scrittore a cui è stato impedito di leggere il testo antifascista in diretta tv, 479 parole che sull’onda della polemica sono state recitate a reti pressoché unificate e pubblicate da giornali d’ogni tipo. Dice d’essere stato cancellato il rapper che ha chiesto un minuto di silenzio per Gaza in piazza a Milano e non è stato invitato a Napoli. Sbraita che non si può dire più niente il politico che viene votato grazie alle sparate razziste e omofobe che ripete liberamente ovunque. Denuncia la censura il cantautore estromesso dal talent.
Siamo una nazione che conta più censurati che incensurati. A giudicare da certi appelli, viviamo un tempo di libertà in grave e immediato pericolo. Ma se tutto è censura, niente è censura. I piccoli e grandi episodi repressivi sono usati come leve politiche e moltiplicatori di popolarità di chi li subisce. Poi però arriva il sottosegretario alla Cultura Gianmarco Mazzi e chiede davvero agli operatori del settore discografico di regolare i testi dei rapper, beninteso senza «adottare un atteggiamento censorio». La parola è tabù, meglio girarci attorno.
In questo contesto di grande confusione e grande libertà d’espressione è uscito un mezzo libro e mezzo magazine che affronta l’argomento con 18 interviste a cantanti e non condotte da Paola Zukar, negli anni ’90 redattrice di Aelle e oggi manager tra gli altri di Marracash, Fabri Fibra, Madame (li intervista nel libro, forse un piccolo discaimer lo si poteva mettere) e da Claudio Cabona, giornalista del Secolo XIX e di Rockol. Titolo: Testi espliciti, citazione dell’adesivo “Parent Advisory Explicit Content” apposto negli anni ’80 sui dischi dai contenuti forti. Nell’introduzione Zukar paragona quell’adesivo all’imprimatur che nel 1500 l’autorità ecclesiastica concedeva alla stampa di un’opera. A me sembra né più né meno la versione vintage degli odierni “Trigger Warning”. Gli ultrasensibili di quest’epoca somigliano a Tipper Gore, ma hanno pettinature migliori. Sullo sfondo c’è il dibattito accesosi qualche mese fa sui testi rap, su quel che è lecito dire, fin dove ci si può spingere, quali forze agiscono per moderare i contenuti e quindi la libertà d’espressione.
Testi espliciti non è il tentativo di affrontare in modo sistematico l’argomento, ma un giro di opinioni in cui il tema dei nuovi stili di censura, come recita il sottotitolo, risulta spesso tangenziale o addirittura marginale, raramente centrale. Spesso sono conversazioni anche molto interessanti attorno ai temi più ampi della libertà, del vero, del falso, del ruolo dell’artista. Rapper, scrittori, fumettisti, attori e giornalisti intervistati spazzano via il luogo comune secondo il quale in Italia il diritto di manifestare il pensiero sarebbe in pericolo. Concordano sul fatto che per lo meno nel mondo dell’arte e della musica non è questo il luogo, né il tempo della censura tradizionale, che prevede che vi sia un’autorità che controlla e limita dall’alto la libertà d’espressione. Lo dice bene Zerocalcare, che difatti fatica a usare la parola censura: «Che molte persone non si schierino per paura di perdere consenso, o di vedersi chiudere alcuni spazi, è sicuramente vero, ma mi sembra che dica più sulla deontologia e sul senso di responsabilità della classe intellettuale italiana che sul “potere” censorio». Va dritta Milena Gabanelli: non ha mai subito censura «né in Rai né al Corriere, dove lavoro da sei anni».
Annullato il riflesso che fa gridare alla censura ogni qual volta viene chiesto a qualcuno di cambiare qualcosa, resta il tentativo di raccontare, come scrive Zukar, «il percorso che ci ha portati da un controllo verticale, dall’alto, che impediva di dire determinate cose, al controllo orizzontale attuale che fa sì che qualsiasi tentativo di dire qualcosa di inedito, di scomodo, o quantomeno di nuovo, venga stroncato sul nascere non più da chi ti sta sopra, bensì da chi ti sta di fianco. Dal tuo “seguace”, da chi commenta i tuoi tweet, i tuoi video, le tue foto, le tue canzoni, i tuoi tentativi di espressione. Una forma più raffinata e molto più subdola di post censura».
Incombe malefica la formula «dittatura del politicamente corretto» e non poteva che essere Cattivissimo Guè a tirarla in ballo. È un’espressione scivolosissima giacché usata come una clava da chi guarda la questione da destra e rivendica la possibilità di offendere chiunque, senza conseguenza alcuna, e di farlo anzi con grande godimento. Per il rapper si tratta di una «forma di censura dal basso, più che altro di autocensura che si riassume con l’abusato detto “non si può dire più niente”. Non voglio sembrare un barbaro, perché comunque capisco che nel mondo non si possa offendere tutti, a maggior ragione le minoranze, però è pesante non poter più dire un cazzo specialmente per un genere musicale che nasce così, esplicito».
La paura d’incorrere in reazioni degli utenti dei social, quando fanno massa, spinge a non esprimere certe opinioni, a meno che non aiutino a posizionarsi in quello che in quel momento, in quel contesto è lo schieramento dei buoni. Oppure in alcuni casi porta a esprimerle per poi pentirsi e cancellarle per il timore d’essere travolti da una tempesta di commenti negativi a cui sarà impossibile replicare con ragionevolezza.
Lo shitstorm, dice Marracash, «è la più grossa arma di annientamento del pensiero perché ti fa passare totalmente la voglia di provare a dire qualcosa che vada oltre il nulla». Il brutto, dice, è che lo shitstorm non è considerato tossico. «Se io scrivo una rima sui BTS, fastidiosa, pungente, io resto pubblicamente condannabile, ma se 500 milioni di ragazzine mi scrivono “figlio di puttana, devi morire” allora non c’è problema». Finisce che ci si sente liberi di trattare qualunque argomento in un pezzo rap, cosa che effettivamente avviene, e si è oltre misura cauti quando si scrive sui social dove «ci penso cinque volte e quasi mai poi scrivo, perché è troppo facile venire fraintesi, è troppo poco lo spazio per dirlo, è troppo angusto il margine per spiegarsi bene».
Per Marracash, peggio c’è solo la cancellazione a furor di popolo social. «È una scelta ancora più estrema perché se tu censuri un contenuto, per quanto odioso, quel contenuto da qualche parte resta, invece oggi cancelli proprio quella persona e con lui ogni possibilità che lui/lei dica qualcosa». E invece il passato non dovrebbe essere cancellato, «deve rimanere lì anche a riprova e testimonianza degli errori commessi e quindi mi sembra più utile se usato come una cosa da cui imparare». E quindi oggi, continua Marra, la censura è strisciante. «Non è esplicita, non viene esibita come una minaccia, anzi, viviamo tutti in una grande illusione di libertà di espressione, di poter dire quello che vogliamo dire, di poter essere quello che vogliamo essere, ma poi in realtà il giudizio e la censura sono ancora più forti di prima, secondo me. Viviamo con la “sindrome del Grande Fratello”, dove i tuoi amici e tuo figlio ti denunciano».
Il rap è ovviamente al centro di questo discorso, attaccato anche da un certo moralismo che è più di sinistra che di destra. A differenza del pop italiano, in parte arresosi all’idea che il cantante debba perseguire obiettivi sociali ad esempio sul fronte dei “nuovi” diritti, nel rap sopravvive l’idea che l’artista possa essere provocatore, che possa mettere a disagio, che sia bellamente indifferente alle battaglie civili. Il rap è ovviamente attaccato anche dalla destra-destra poiché portatore di modelli di comportamento socialmente riprovevoli e pericolosi (si vedano l’iniziativa di Mazzi o certe altre dichiarazioni da Medioevo). Secondo don Claudio Burgio, fondatore della comunità Kayros, all’origine degli scandali creati da molti testi rap in Italia ci sarebbe il dilagante «quietismo» derivante dalla cultura cattolica di cui siamo imbevuti. Il censore dentro di noi vuole che gli artisti ci facciano vedere la realtà «entro forme accettabili, non sotto una lente di inquietudine». La forza del rap sarebbe invece «quella di restituire la realtà per quello che è, anche nelle sue forme più dure e violente. Quelle canzoni ci aiutano a “vedere”».
Resiste in realtà una forma di controllo dei contenuti dall’alto: è quello esercitato dalle piattaforme, spesso secondo il poco sindacabile giudizio di misteriosi algoritmi dotati di giudizi morali sballati. È la privatizzazione del controllo dei contenuti. Il profilo Facebook di Rolling Stone Italia, ad esempio, è oggetto da sei mesi e lo sarà per altri sei di uno shadow ban per avere pubblicato la foto tratta dal film Una poltrona per due di Dan Aykroyd vestito da Babbo Natale che si punta la pistola alla tempia. Va in onda ogni 24 dicembre su Italia 1, ma per Facebook è istigazione al suicidio. «Puoi essere bannato per una parola, puoi essere frainteso», dice il monologhista satirico Filippo Giardina. «I social corrompono qualunque mestiere. Alcuni ragazzi mi chiedono: “Come faccio a diventare un comico di successo?”. Forse oggi, se si è donne un po’ sovrappeso e si parla di femminismo sui social, lo si diventa. Basta accumulare follower sfruttando determinati temi e si può arrivare ovunque». Per Riko De Ville, co-creatore di Thamsanqa, i meccanismi sono bizzarri. «Io lavoro tanto con il mondo di Twitch: puoi bestemmiare, ma fino a poco tempo fa non potevi stare a petto nudo. Se la piattaforma scovava un capezzolo maschile, ti chiudeva il canale, ti bloccava totalmente, causando un danno economico».
L’altro nuovo stile di autocensura nuovo non è. Si tratta del potere esercitato dai brand che con i loro investimenti determinano la fortuna di cantanti che guadagnano sempre meno dalla musica registrata e dai concerti, per com’è fatto il sistema o per incapacità d’appagare il gusto dominante. In Testi espliciti l’argomento è solo accennato ed è un peccato. Ci sono Massimo Pericolo che racconta che il video di Beretta ha spaventato un investitore, che si è perciò tirato indietro e Fabri Fibra che cita i marchi di sfuggita dicendo che «il creatore di contenuti si autocensura perché sa che altrimenti non potrà accedere a determinati passaggi in radio, palcoscenici, brand o specifici cachet».
Forse è un caso o forse no, ma le tre forme di autocensura e moderazione dei contenuti sono strettamente collegate. In un contesto in cui probabilmente si guadagna di più da un’esibizione a una festa aziendale che da un anno di streaming, il potere contrattuale degli artisti coi brand è dato dalla propria fama, che è misurata tramite il numero di follower. Se non hai le spalle abbastanza larghe, non puoi alienarteli con certe uscite e prese di posizione, né puoi permetterti di giocare con la spiccata sensibilità (ehm) di un algoritmo ebbro di virtuosità. E non conviene ovviamente assumere posizioni che scontentano i brand che potrebbero investire su di te. È naturale: voi pubblicizzereste la vostra azienda che produce energie rinnovabili affidandovi a chi vi accusa di greenwahsing?
Vuoi sapere chi comanda? Segui i danè. È questo il non detto del libro. Lo accenna Milena Gabanelli quando afferma che nei siti di informazione la pressione degli inserzionisti si sente. Siccome la gente oggi vuole «avere le notizie gratis online», prima di attaccare una grande brand «che paga un sacco di soldi bisogna pensarci bene». Ora rileggete la frase sostituendo “le notizie” con “la musica”.