Sottoporsi, in rapida successione, a tutti i testi delle canzoni di una data edizione di Sanremo – prima di poter disporre degli opportuni diversivi forniti da musica e coreografie, direttori d’orchestra e psicodrammi – è ogni anno un esercizio alienante, che si colloca tra l’esperimento di leggere un fumetto saltando le figure e quella di recensire un’antologia di bugiardini di farmaci scaduti. Eppure, al tempo stesso, è anche un’attività stranamente soddisfacente, come risparmiarsi cinque ore e mezza di rappresentazione dei Maestri cantori di Norimberga perché tanto, si sa, era meglio il libretto.
I testi di Sanremo esaminati di per sé si dividono in due categorie: quelli destinati a essere in parte o in tutto riabilitati dall’abbinamento alla performance e quelli che, una volta eseguiti, anche no. Non c’è verso abbastanza melenso che un beat adeguatamente sostenuto, o lo stylist di Achille Lauro, non possano trasformare in gustosa ammissione delle proprie colpe di zerbino autoironico. Viceversa, si ha un bell’aggiungere archi, ottoni e Peppe Vessicchio all’arrangiamento di un ritornello con un difetto congenito nella rima baciata (per tutti valga il caso Chiarello nel 1981): non ci sarà verso di fargli prendere il volo.
Ma quello delle parole imbottigliate in purezza non è un test importante tanto per il singolo brano quanto, semmai, lo è per l’edizione nel suo complesso. Soggetti tutti al minimo comune denominatore delle parole, a questa overdose di sinonimi di amore e allegorie di coppia, perfino artisti vicendevolmente fuori mano come Willie Peyote e Orietta Berti, per il tempo che impieghiamo a sfogliare con Acrobat il consueto numero di TV Sorrisi e Canzoni, ci appaiono sì diversi, ma conciliabili; separati, ma in casa, come gli Avengers prima di girare Civil War o le differenti personalità di Morgan prima di cancellarsi i rispettivi numeri dalla rubrica.
Solo nella relativa fissità del pdf gli elementi generali di uno spirito annualmente condiviso sono messi a nudo. I campioni che, una volta sul palco, duelleranno tra loro usando ciascuno la propria voce e la propria metafora del concetto di relazione complicata, nei giorni silenziosi che precedono il Festival, svincolati dai limiti dei particolarismi e liberi dalla minaccia, sempre incombente, dell’originalità, sembrano più che mai autenticamente parti di un solo affresco plurirestaurato, dipinto usando un’unica tavolozza.
Per la serie: non sono d’accordo con la tua rima con cuore, ma darei la vita affinché tu possa cantarla, ci siamo soffermati su alcuni di questi testi.
In Ora Antonio Aiello affida all’ibuprofene il ruolo di madeleine proustiana, mentre riporta alla memoria un suo misfatto sentimentale. Nel ricordo di quella passione, così impetuosa da rendere necessario l’intervento del noto antinfiammatorio (“Quella notte io e te / Sesso ibuprofene”), il peggiore effetto indesiderato del principio attivo non sembrano essere i consueti broncospasmi o pruriti, ma i sensi di colpa del cantante. La sua posizione sembra inoltre aggravata dall’aver consumato quella passione esagerata (“Ci tenevo a mostrarmi come un drago nel letto”) e insincera (“Non riuscivo a dirti che mi ricordavi di lei”) proprio nel giorno consacrato al di lui onomastico (“Tredici ore in un letto / A festeggiare il mio santo”). Chi è nato a Nord di Eboli potrebbe non capire la gravità della situazione. Fatto sta che la sottigliezza dell’autoanalisi psicologica (“L’atteggiamento di uno stronzo, invece era terrore”), neanche sul finale lascia spazio alla possibilità di replica da parte dell’interessata, ora sposata con prole, né a quella della redenzione.
Il pezzo di Arisa si intitola Potevi fare di più, e di certo non può rivolgersi al suo autore, Gigi D’Alessio, che qui ha dato fondo alla sua capacità di lettura in chiave empowerment della condizione della donna lasciata: “A che serve truccarmi se nemmeno mi guardi”. È esemplare il modo in cui i primi versi, volti in modo programmatico al superamento del problema centrale del brano (“Lasciarsi adesso non fa più male non è importante”) grazie a un’agenda dal piglio introspettivo (“Cosa ci importa di quello che può dire la gente”, “Racconterò a chi mi chiede che sto bene da sola”), volgono poi progressivamente, delicatamente a un puro canto di sottanza (“Sto annegando ma tu non mi tendi la mano”). E i buoni propositi della mollata si infrangono in un grido di dolore così potente da deformarsi in un anacoluto straziante: “È tutto quello che è stato oramai non ci credi”. È davvero difficile credere che l’abbia scritto un uomo di 54 anni.
Fedez e Francesca Michielin canteranno invece di un amore felice e spirituale. Un amore profondo, in grado di vincere qualunque difficoltà, anche la più inumana, come quella rappresentata da un outfit sbagliato (“Oggi ho una maglia che non mi dona”), fino a ispirare ai due protagonisti di Chiamami per nome il rifiuto di parte dei propri beni terreni (“Rinunceremo all’oro / Scambiandolo per pane”), approdando a un sentimento mistico-cristiano (“In ascensore spreco un segno della croce e quindi?”). Denudati del materialismo gli innamorati hanno bisogno di nuovi appellativi per riferirsi l’uno all’altra e si ribattezzano così a vicenda, shakespeareanamente: “Ma vedo solo te baby / Te baby”.
In Quando trovo te di Francesco Renga l’amore è la soluzione a un altro tipo di problematica che attanaglia la nostra contemporaneità superinformatizzata, collegatissima, ma spesso incurante dell’essenziale: il disturbo da deficit di attenzione e iperattività. Il ritornello suona come la notifica di un promemoria che, ciclicamente, rammenta all’autore, impegnato in un’adrenalinica passeggiata notturna (“E la mia testa non ne vuole più sapere / Di stare ferma e io continuo ancora a camminare”) dell’esistenza della donna amata: “Come sempre mi dimentico / Sempre mi dimentico / Ma poi io ti ritrovo”. I più infami ci vedranno un omaggio alla condizione dello stesso Renga come artista la cui nozione riaffiora solo a intermittenza, in occasione del Festival di Sanremo.
Willie Peyote è l’unico campione in gara a dedicare il suo brano satirico, Mai dire mai (la locura), al Festival stesso, nel contesto più ampio di un j’accuse multigenere e multigenerazionale, che rivolge nei confronti di qualunque categoria umana o disumana gli capiti a tiro. In una specie di girotondo felliniano coatti e intellettuali, trapper e influencer, sono tutti imputati dello stesso crimine: il mercimonio improvvisato e opportunista della propria coscienza mancata: “(Mai dire mai) non so se mi piego non so se mi spezzo / (Mai dire mai) non so se mi spiego, dipende dal prezzo”. Ne ha per tutti e non la tocca piano, fin dal primo verso: “Questa è l’Italia del futuro, un paese di musichette mentre fuori c’è la morte”. Se all’Ariston questa fosse l’esibizione finale, in ordine cronologico (come lo è per quello alfabetico), l’epifania di Peyote somiglierebbe a quella dell’eroe di una famosa barzelletta un po’ razzista. Willie sarebbe come la centesima e ultima persona di colore che, in fila dal genio della lampada, dopo che le precedenti novantanove avevano chiesto e ottenuto di diventare bianche, ordina che tutte le altre tornino nere.
Infine fa due volte eccezione la figura del turbospeziale inventato da Max Gazzè per il suo Farmacista: sia perché si prende la briga di affrontare, con morbidezza e senza essere per niente morboso, l’attualità pandemica, e sia perché riesce a tagliare il tema riferendolo sì alla sfera sentimentale, ma in modo del tutto originale. Ogni rimedio il cui nome fantasioso viene immesso nella filastrocca, a metà tra Gianni Rodari e Mago Merlino (“Trifluoperazina / Stramonio e Pindololo / Un pizzico / Di Secobarbital: / Somministra / Prima / Di un logorroico / Assolo / E via anche questa / Smania di parlar!”) viene dedicato alla persona che il cantante ama e con cui sembra condividere paturnie, stress e noia di questo periodo (“Per tutto / Invento / Stai tranquilla / Una bio-chimica pozione!”). È la canzone più politica e, sulla carta, riuscita di Sanremo 2021, per via dell’idea di prendere in giro chi dice di avere una soluzione ai nostri problemi, contrapponendo alle false certezze uno dei pochissimi toccasana miracolosi della cui efficacia siamo sicuri: le formule magiche del linguaggio e i sortilegi del pensiero.