Può un flop risultare imprescindibile? Certo che può: quello che al momento sembra non funzionare col tempo può rivelarsi non solo profetico, ma anche imitato e amato dalle masse. In questo caso parliamo di un album partorito dalla mente di una band che ora osanniamo come fondamentale, ma che all’epoca, 1974, era vista dai piani alti dell’industria discografica né più né meno come un gruppo di pagliacci: i Kiss.
L’album, Hotter Than Hell, è il secondo della loro lunga discografia e nasce in un frullato di follia e di ambizione: più che sugli eccessi – comunque notevoli – i Kiss spingono l’acceleratore su sogni di rock’n’roll (per citare il Liga) distillati in purezza. Diventare delle rockstar uscendo dalla nicchia delle serate per dieci persone, dei tour in furgone mangiando schifezze, dei trucchi scenici circensi e sembrare la next big thing nonostante gli amplificatori altissimi fossero in realtà composti da casse vuote esattamente come le loro tasche diventa priorità assoluta.
Con l’album di debutto su Casablanca e gli show a base di effetti pirotecnici, sangue finto, zatteroni e volti volti truccati da personaggi quasi da fumetto (non a caso nel 1978 cercheranno di vendersi come supereroi nel film tanto imbarazzante quanto di culto Kiss Meets the Phantom of the Park, girato in evidente stato di alterazione e per quello a nostro parere incredibile) non avevano fatto altro che inimicarsi le major. In particolare i dirigenti della Warner, che distribuiva la Casablanca: inorriditi dai live rumorosi e dalle facce pittate, intimarono di rescindere il contratto di distribuzione se non avessero applicato un detergente per il viso abbandonando la loro estetica. Il secco rifiuto della band metterà in ginocchio economicamente la Casablanca. La Warner faceva sul serio e stracciò l’accordo senza tanti problemi.
I Kiss devono per forza di cose insistere sul loro progetto, anche perché l’album di debutto, commercialmente, non è andato da nessuna parte nonostante i brani storici che contiene (avete presente Deuce? E Cold Gin? Credo basti a far capire di cosa parliamo) e nonostante la vita on the road, che comunque aiuta il quartetto a far parlare di sé per i loro potenti spettacoli. I quattro vanno fuori giri, macinano chilometri e proprio mentre sono in tour nei pressi di Los Angeles sono costretti dalla mancanza di soldi a scrivere nuove canzoni al volo e registrare il secondo disco.
L’ idea è quella tentata nel debutto: riuscire a ricreare l’impatto dei concerti. Impresa che sembra difficilissima, e il primo album lo testimonia, ma il team di produzione – ovvero Kenny Kerner e Richie Wise – viene riconfermato, con testardaggine lodevole. Trovarsi a L.A., per gente abituata a New York, non aiuta il mood, anzi. A Paul Stanley viene immediatamente rubata la chitarra appena messo piede in zona, Wise è stordito dal cambio di prospettiva e dal superlavoro che gli toglie il fiato. Un Ace Frehley ubriaco fradicio testa la velocità della sua auto sulle Hollywood Hills stampandosi contro un palo della luce e aprendosi la testa, tanto che per non far vedere i punti potrà truccare solo il lato destro del viso negli ultimi photoshoot per la copertina.
Questo generale stato psicologico di confusione si scaricherà prepotentemente sul sound del disco, all’epoca – e per molti anche oggi – considerato di scarsa qualità, quasi un bootleg. I critici, unanimi in questa disamina e poco lungimiranti, hanno quasi convinto gli stessi autori del disco di aver fatto un passo falso. In realtà Hotter Than Hell, col suo suono crudo e “marcio” e con momenti in cui gli strumenti sembrano addirittura scordati, rappresenta uno dei primi esempi di lo-fi, anticipando il punk e il suo DIY sonoro (i riff di Comin’ Home, ne vogliamo parlare Pistols?).
Ma Hotter Than Hell non è solo questo: va addirittura oltre, diventando a tutti gli effetti un esempio di proto grunge (basti pensare ai suoni “crunchati” di Parasite, che ricordano Bleach dei Nirvana, grandi fan del quartetto), di stoner (Got to Choose e Watchin’ You, apripista del genere) e di sludge. I Melvins, devoti al culto dei Kiss, devono praticamente tutto a questo disco, caratterizzato da brani con bpm rallentati (Goin’ Blind, col suo delirante testo su un amorazzo tra un novantatreenne e una sedicenne diventerà un highlight non solo del repertorio della band di King Buzzo, ma anche dei Dinosaur Jr.) tanto che lo stesso Frehley, riascoltando l’album, pensava di averlo registrato più veloce, e da suoni – batteria compresa – che non è difficile accostare a certi trattamenti di Steve Albini.
In più, aprono la strada al metal, tanto che un maestro del thrash come Dave Mustaine dei Megadeth confessa che Hotter That Hell è stata la loro palestra per «spingere le cose oltre il limite» (Parasite di Frehley parla chiaro). E non è neanche detto che il suono torbido dell’album non abbia direttamente influenzato il black metal: facepainting a parte, i Kiss sono stati decisamente molesti rispetto a tutto quello che di “duro” si produceva musicalmente in giro in quel periodo, e Hotter Than Hell paradossalmente, nella sua evidente e fiera imperfezione, indica la strada. Anche del noise rock: basti sentire il solo al fulmicotone di Ace nella traccia di chiusura Strange Ways, allucinante e in odore di no wave ante litteram, per capire che da questo momento le cose non saranno più le stesse.
La copertina, curata nientepopodimeno che da John Van Hamersveld (vi dice niente la cover di Magical Mystery Tour dei Beatles?), è una singolare strizzata d’occhio ai manga giapponesi con tanto di kanji sparsi, in un periodo in cui il Paese del sol levante rappresentava puro esotismo (anche qui avanguardisti, visto che ora se non piazzi qualcosa di giapponese nelle copertine non sei nessuno). Era anche una altrettanto singolare “strizzata di palle” ai benpensanti, visto che nel retrocopertina accanto a una maschera kabuki “kisseggiante” ci sono foto dei quattro bandmates intenti a folleggiare in un party ad altissimo tasso tossico, con donnine nude mascherate e pose che non danno adito a dubbi (Paul Stanley verrà trascinato a spalla fuori dal set perché cotto a puntino, mentre Peter Criss perderà coscienza solo per recuperarla distrattamente e scoprire con stupore di star ricevendo una fellatio da una simpatica invitata con una maschera da caprone satanico in testa).
È uno spaccato, quello della copertina, dello stato d’animo dei quattro, invischiati nella dolce vita californiana, ma già con la testa alla conquista del mondo (il Giappone apprezzerà molto questa grafica, che aiuterà ad accrescerne la popolarità nel Paese). Il disco però non soddisferà tali ambizioni, andando se possibile peggio del precedente per quanto riguarda il piazzamento in classifica. Penalizzati dal contratto cancellato dalla Warner e quindi dall’assenza di promozione, non riescono nemmeno a piazzare il singolo Let Me Go, Rock and Roll, una specie di bignami hard della storia del rock classico che aveva tutti i numeri per fare il botto.
L’insuccesso motiverà ancora di più i Kiss, che a stretto giro torneranno ancora una volta in studio realizzando in soli dieci giorni Dressed to Kill. Parzialmente autoprodotto causa semi-bancarotta della Casablanca e più “ascoltabile”, ne risolleverà le loro sorti per poi arrivare al trionfo di Alive!, sempre nello stesso anno, il 1975. Proprio un disco dal vivo era quello che ci voleva, con la registrazione del suono diretto tanto cercato in Hotter Than Hell finalmente la band trova la quadra. Ma attenzione, Alive! è un falso disco live: i Kiss hanno confessato di avere fatto numerosi overdub per rinforzare l’ellepi, pratica questa iniziata da loro per la prima volta proprio con Hotter Than Hell, che si conferma un passo importantissimo nella carriera della band, anche e soprattutto per gli esperimenti in studio. Non solo: Hotter che era stato considerato un buco economico all’epoca dell’uscita, sarà certificato disco d’oro nel 1977, non a caso l’anno del punk, di cui è certamente uno degli album precursori, lasciando tutti di stucco.
Quando vi dicono che il rock deve essere ben prodotto, non gli credete: Hotter Than Hell nel suo anniversario ci ricorda che il rock non è una confezione di sapone da supermercato, ma quel sano sudiciume che non va via neanche dopo cinquanta bucati pop.