Seppur in maniera meno teatrale rispetto agli esordi, Marilyn Manson continua nella sua personale opera di trasvalutazione di tutti i valori della civiltà occidentale. Dopo il momento di appannamento della metà degli anni Zero, periodo nel quale aveva sperato di fare propria la generazione emo così come aveva fatto con quella orfana del grunge, Manson ha fatto i conti col passare degli anni e con la consapevolezza di non poter più esprimere le proprie idee con uno stile ormai superato.
Chi oggi lo ignora perché non è più industrial o perché è più decadente che orrorifico forse non ha compreso che il fulcro della sua opera è costituito dal corpus filosofico che vi stava dietro piuttosto più che dalle esibizioni controverse e dalle provocazioni di facile presa. Un giochino che ha finito per ritorcersi contro lo stesso Brian Warner, colpevole di aver indugiato forse troppo su un’immagine che era servita sì a rompere gli schemi, ma che di contro ha presentato poi un conto salatissimo. Un errore fatto da molti in passato, convinti di poter utilizzare la provocazione come mezzo temporaneo e che, invece, vi sono rimasti invischiati fino alla parodia di sé stessi.
Memore dell’esempio di David Bowie, Manson ha attivamente cercato di scardinare l’identificazione protettiva che lo legava a doppio filo al proprio alter ego artistico. Un delirio amplificato anche nel suo caso dall’abuso di droghe, che l’aveva portato vicino al punto di non sapere più dove finisse la finzione e dove iniziasse la realtà. Spinto dal desiderio di non passare il resto della propria carriera e ripetere un semplice cliché, da una decina d’anni a questa parte Manson ha avviato una radicale opera di rinascita, che in qualche modo culmina oggi in We Are Chaos. Perché è vero che Manson ha sempre giocato a fare il cattivo, a mischiare abilmente arte e provocazione, ma in fin dei conti la sua arte oratoria e la sua figura, spesso ridicolizzata ed esorcizzata perché realmente inquietante, hanno lasciato un segno profondo anche in chi l’ha sempre considerato un mero commediante.
Chi si aspettava un cambio radicale di sonorità rispetto al recente passato rimarrà deluso: al netto della produzione di Shooter Jennings, We Are Chaos si inserisce alla perfezione nella tradizione di Manson, per lo meno in quella recente. Niente svolta Americana, niente alleggerimento delle tematiche, niente ritorno posticcio alle sonorità che furono. Semmai, è evidente la volontà di raggruppare un po’ tutti i propri punti di riferimento musicali e non, dal classico Bowie (spesso si ha la sensazione di ascoltare qualcosa uscito da Hunky Dory o Ziggy Stardust), a Marc Bolan e persino Elton John, citato spesso nelle ultime interviste ed evocato in continuazione da innesti di pianoforte dove meno te li aspetti. Senza tralasciare una potenza di fondo che rimane immutata, anche se oggi fondata più su deviate radici blues che sugli archetipi di un tempo.
In un’epoca dove si fa a gara nel ribadire quanto il concetto di album non abbia più alcun senso, Manson e Jennings hanno ritrovato il gusto di mischiare a lungo il materiale prodotto insieme, in modo da comporre il puzzle migliore possibile. Partendo dall’idea comune di ricreare due lati ben distinti, hanno lavorato per settimane alla composizione e alla divisione concettuale dei brani, dando risalto (proprio come si faceva una volta) alla conclusiva Broken Needle, vero concentrato di quasi trent’anni di Manson-pensiero. In questo senso, l’undicesimo album della sua carriera è forse quello che rappresenta meglio degli altri l’uomo Manson. Quanto meno quello del qui e ora. Non a caso, in Keep My Head Together, Marilyn proclama: “Steal from the last / fuck the past / here is your present / let’s take the future”. È quasi come se, in linea con l’opera del faro Friedrich Nietzsche, Manson sia giunto alla piena coscienza del proprio sé, mettendo in fila per la prima volta ogni sfumatura di un pensiero che finalmente ha trovato un’organicità.
I concetti di satanismo, nichilismo, superomismo (“Am I Superman? Am I superstitious?”) e destino sono sempre presenti, ma ora hanno trovato una dimensione adulta, fortemente permeata di una disperazione che non ha più nulla a che vedere con la teenage angst dei tempi che furono. Ecce Homo era l’opera di Nietzsche dedicata al destino, un concetto che l’Occidente aveva continuamente impoverito, fino ad abbandonarlo all’uso esclusivo delle chiromanti e del linguaggio sentimentale. Il filosofo tedesco fu il primo a pensare il destino nel caos: un concetto che Manson decide oggi di fare proprio. Come in Ecce Homo, l’autore di Antichrist Superstar pare giunto al culmine della consapevolezza del proprio Io, attuando una messa in scena totale, dove i due poli della sua anima – l’uomo dionisiaco e il commediante – vengono a coincidere per rivelarci come si diventa ciò che si è veramente. Qualcosa di molto più profondo e disturbante di una Bibbia bruciata sul palco.