Non sarebbe un caso se l’inizio della seconda fase della carriera di Max Pezzali fosse sancito dal trionfo annunciato del Circo Max, il concerto che il cantautore pavese terrà il prossimo 2 settembre nella quasi omonima location romana situata tra i colli Palatino e Aventino, e recentemente scelta da Bruce Springsteen. Sarà un grande evento multinostalgico e intergenerazionale: verranno staccati 60 mila biglietti, divisi tra i nostalgici di primo pelo e i nostalgici sulla fiducia, accompagnati dai primi per vedere se, a cose fatte, avranno ancora il coraggio di dire che i Måneskin sono così bravi.
Solo la capitale d’Italia poteva ufficializzare il nuovo inizio a ritroso che Pezzali e i suoi manager da tempo stanno preparando e che potrebbe proseguire con tre autobiografie e un romanzo. «A 55 anni non devi già fare delle prove cognitive per rassicurarti che la testa funzioni ancora, ma cominci a non ricordare più il passato prossimo, mentre ricordi perfettamente quello remoto. Provi una bella scarica di dopamina quando senti qualcosa che ti piace e spesso questo qualcosa è un po’ rétro. Ti rifugi lì perché oggi ci sono troppe informazioni, troppi pezzi che escono ogni settimana», ci ha confidato Max mercoledì mattina, al termine della conferenza stampa di lancio del suo Circo al Campidoglio, alla quale si è presentato in sella alla sua Harley-Davidson Pan America (giunta con lui da Pavia la sera prima), impersonando la versione cromata e semovente di una statua equestre di imperatore locale.
«Anche nei momenti in cui sei giù, Roma ti insegna il fatalismo: ti dice che le cose si aggiustano. A Milano devi risolvere tutto subito e, se non rispondi in tempo a un WhatsApp, sembra che il mondo finisca. A Roma capisci che non puoi avere il controllo di tutto, e ’sti cazzi», ha distinto Max.
Forse, dalla provincia lombarda in cui è cresciuto, per molti anni Max ha semplicemente puntato il navigatore verso la coordinate sbagliate. Milano è troppo tesa verso il futuro – o perlomeno verso un’idea molto ottimistica di esso – per essere la città ideale della visione pezzaliana del mondo. Roma, invece, che da millenni applica la regola dell’amico ai milioni e milioni di abitanti che le muoiono dietro, è semplicemente perfetta per mettere in scena la versione live della playlist “Brani essenziali di Max Pezzali” che costituirà la scaletta del Circo (Max non prevede l’uscita di nuovi pezzi prima dell’evento).
Il nodo concettuale dell’arte di Pezzali è sempre stata trasformare un problema logistico, metaforico o no, in un’opportunità poetica. La sua discografia potrebbe essere sintetizzata in termini motoristici: la rivincita della riserva.
Il meglio della discografia trentennale dell’autore di Te la tiri e I cowboy non mollano è accomunato, in particolare, da una costante. Si tratta dell’ebbrezza di scoprire che il racconto del fallimento nello spostarsi da un punto A a un punto B – quali che siano il veicolo messo in moto, il carburante prescelto e le difficoltà insorte (budget non superiori a 10 mila lire per serata, la lungaggine dell’amico Cisco nel liberarsi in toilette, il diniego di una potenziale partner sentimentale) – costituisce di fatto una vittoria del percorso sulla meta. Da qui il postulato pronunciato da Max nel corso dei lavori capitolini: «Eravamo dei tamarri in un mondo di fenomeni».
A vederlo conferire alla stampa nell’aula consiliare del Palazzo Senatorio, attorniato dagli stemmi dei ventidue rioni storici della Capitale, col cranio e le idee lucidi come quelli del Giulio Cesare di tre metri di marmo grechetto alle sue spalle, nell’animo degli astanti può albergare il timore che sia in corso un tentativo di contaminare il linguaggio umile e schietto di Max Pezzali con quello barocco di Roma. È noto il fatto che l’Urbe sia una fuoriclasse quando si tratta di trasformare tutto in sé stessa. Chissà se anche la nostalgia intimista di un ragazzo cinquantacinquenne di Pavia può fornirle l’occasione di sfoggiare il suo trionfalismo decadente; del resto non sarebbe potuto accadere molto al di là dei confini del Grande Raccordo Anulare che un centro commerciale, situato nella via dedicata a uno scrittore morto suicida perché schiacciato dal disagio esistenziale, fosse intitolato: Gran Pavese.
Invece no, Pezzali mantiene la barra dritta. Il fatto è che ha capito molto prima e meglio di altri artisti equipollenti che dedicare canti all’epos dell’uomo medio, se incomprensibili all’uomo medio, sarebbe stato infruttuoso. Quindi ha scelto programmaticamente di opporre ai modelli forniti dai soliti elitari del cantautorato classico o agli Übermenschen del rap il superpotere della relatability offerta da un mondo fatto di piccoli eroi e antieroi della quotidianità e, più occasionalmente, di fighe stratosferiche.
Detto questo, Max sarà anche il Normalman del pop italiano, ma sa argomentare le sue dottrine come fuoriclasse: «Nel tempo che raccontavo tutto era più semplice. Era un mondo analogico, fatto di oggetti e facilmente decodificabile; mentre il mondo digitale di oggi è più complesso da capire. È più probabile provare nostalgia di una cassetta che di un file». Il segreto è dunque ammettere i propri limiti e renderli centrali nella narrazione, un po’ come avviene in uno degli sketch che ha particolarmente brillato nella prima puntata del GialappaShow su TV8, quando un personaggio interpretato da Marcello Cesena esorta a trasformare, seguendo il suo esempio, il problema della micropenia in una grande opportunity.
Un’altra tendenza stabile del meglio della produzione pezzaliana è che molti dei suoi brani (ad esempio: Rotta per casa di Dio, in cui solo perdendosi geograficamente per strada – e complice l’assenza di “fidanzate troie” – un gruppo di amici riesce a ritrovarsi moralmente) vengono al mondo già come atti di nostalgismo istantaneo, a presa rapida, anche se raccontano episodi di fatto coevi alla loro scrittura; in altre parole è come se Happy Days, invece che descrivere il sogno americano a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, visto dai ’70 e ’80, fosse stato girato direttamente vent’anni prima e avesse avuto come filo conduttore l’incubo pavese.
Il migliore alleato della nostalgia è il cambiamento, particolarmente quando è in peggio. Le nuove canzoni non funzionano come dovrebbero? Nessun problema: non c’è luogo al mondo migliore di Roma – città che non accenna a smettere di peggiorare da almeno cinque secoli; capitale mondiale delle belle cose finite ma ancora relativamente intellegibili – per celebrare definitivamente la superiorità del passato sul presente, anche se il passato è il 1998. Non c’è storia, in questa città, se metti a confronto l’essere felici e non saperlo degli anni ’90 contro il non essere felici e saperlo benissimo di oggi.
Vedere Roma attraverso il filtro bellezza fornito dalla visiera del casco di Max Pezzali può essere un toccasana per affrontare meglio i problemi della città. Non ultimo, mentre ci spostiamo dal Campidoglio ai Fori Imperiali, dove continueremo a conversare con Max, il traffico; e perfino quello all’ora di punta dell’uscita dalle scuole del centro, con l’aggravante dei lavori in corso per l’ultima tappa del Giro d’Italia che si sovrappongono ai cantieri perpetui della metro C.
Il frutto più artisticamente maturo del periodo in cui Max Pezzali ha vissuto proprio a Roma, prima di tornare nella sua città di origine, è In questa città, un inno di accettazione di pregi e difetti della capitale. Torna il tema del viaggio difficoltoso, in questo caso quello di un taxi bloccato negli incolonnamenti veicolari dalla stazione Termini a Tomba di Nerone, la zona urbanistica di Roma Nord (Cassia) che Pezzali elesse quale ultima propaggine meridionale della provincia di Pavia.
In quegli anni Pezzali era additato dai vicini di casa quasi fosse un marziano flaianesco, perché non si lamentava mai di niente. In particolare, ci ha spiegato, non andava loro giù il fatto che non solo il cantante non si lagnasse dei tristemente noti ungulati, già allora tanto diffusi nei pressi della riserva dell’Insugherata; ma che, vedendoli banchettare tra i cassonetti, cercando indefessamente nell’immondizia qualcosa di loro gusto, li salutasse come degli amici, cosa riportata fedelmente, tra l’altro, anche nell’inno suddetto.
In questa Italia strabordante di spazzatura non solo musicale i suini dallo “sguardo triste” che fanno “le feste” a Max Pezzali potremmo essere tutti noi; tanto che se ai suoi fan, e non soltanto romani, potesse essere attribuita una simbologia zoomorfa – in maniera non dissimile da quanto accade ai lupi di Ermal Meta o, meglio ancora, ai sorcini di Renato Zero – si chiamerebbero senza dubbio i suoi cinghialotti.