Si è tanto detto come Milano nell’ultimo decennio sia diventata la capitale nazionale in assoluto per quanto riguarda il clubbing e la musica del vivo: e sinceramente, la cosa è vera al 100%. La quantità di concerti e dj set di qualità nella città lombarda ha raggiunto quozienti londinesi, nelle ultime stagioni pre-pandemiche. Si è creato un circolo virtuoso a Milano per cui la musica “funziona”, è percepita come valore. La gente a Milano se vuole consumare socialità, cultura e divertimento sceglie molto la musica, sceglie i club, i live, i dancefloor; e li sceglie con naturalezza, non per forza con la Spada di Damocle un po’ dirigista, cupa e sovietica del «dovete sostenere l’arte la cultura, maledette capre!». Consumare musica dev’essere infatti preferibilmente una scelta e un’esigenza, non un obbligo morale. Gli obblighi morali li lasciamo al Vaticano, a Formigoni e Giovanardi (c’è fra questi chi ne fa buon uso, chi meno).
Poi chiaro: a Milano è tutto un po’ fashionizzato, come negarlo. Quindi l’osservazione che molti in città vadano nei club e nelle live venue per moda più che per reale e consolidata passione sì, può anche starci, va bene. Sta di fatto che però a Milano la gente agli eventi ci va, i biglietti li compra (se tutti i tour stranieri mettono Milano sulla mappa è perché si sa che i biglietti in prevendita si vendono più lì che a Torino, Bologna, Roma, eccetera) e nei club dancefloorosi nell’ultimo decennio la programmazione si è fatta di qualità altissima (nulla a che vedere col decennio precedente, dove città come quelle prima nominate erano anni luce avanti).
Insomma, un modello Milano su scala nazionale in musica esiste. È nei fatti. Ora però questo modello, come qualsiasi altro modello o scena in Italia come nel mondo, è stato ovviamente piallato dalla pandemia. Senza pietà. La pietà – e il supporto – dovrebbe in questo caso arrivare allora almeno un po’ dalle istituzioni. Avete presente, no? Quella roba lì, a cui vengono pagate regolarmente le tasse, e che dovrebbe servire non solo a regolamentare ma anche a sostenere e tutelare le esperienze collettive di valore nei momenti di difficoltà.
Mettiamo subito le mani avanti: senza scomodare il recente, pittoresco corsivo anti-assistenzialismo di Michele Serra (un tempo un grande giornalista e pensatore, ora invece dolente e moraleggiante trombone), siamo i primi a dire che è sbagliato pensare che lo Stato possa ripianarti tutte le perdite e azzerarti il rischio d’impresa. È sbagliato concettualmente pensarlo, è sbagliato fattualmente: perché ragionare così in una nazione con gravissimi problemi di debito pubblico come la nostra è, semplicemente, una via non percorribile nel breve, irreale, pure un po’ infantile. Ma al tempo stesso se le risorse sono poche o comunque limitate, bisogna saperle usare bene. Sennò oltre il danno (il dramma), c’è la beffa (la necrosi).
Flashback: il modello Milano si è consolidato anche grazie alla spinta o comunque all’intelligente fiancheggiamento silenzioso della classe politica e amministrativa locale. Dopo la deprimente era-Moratti, in cui il “marchio” della sindachessa era buttare soldi a cazzo e mettere invece i bastoni fra le ruote a chi faceva cultura in campo musicale con onestà e impegno, con l’elezione di Pisapia c’è stata una chiara inversione di tendenza (forse data anche dal fatto che fu proprio un grande concerto musicale, davanti alla Stazione Centrale, a segnare la svolta nella campagna elettorale e a dare il la a una delle più grandi sorprese politiche degli ultimi decenni).
Sala, il sindaco cumenda con però i consiglieri pop che lavoravano in Nike (che lo hanno consigliato in modo vispo e incisivo, e che lui ha ascoltato), ha continuato senza indugi questo filone: fino ad andare in un live club come Santeria Social Club e farsi intervistare da Marracash, tanto per fare un esempio molto concreto e simbolico, risultando pure spontaneo e credibile (tipo, che insensatezza loffia verrebbe fuori se la Raggi si facesse intervistare da Coez?). Ma al di là del sindaco e dei suoi calzini arcobaleno, la verità era (è) che è tutta la macchina comunale milanarda ad avere persone di valore e meccanismi snelli ed efficaci per – come minimo – non mettere i bastoni fra le ruote agli operatori di settore, creando così i presupposti di una ricchezza-per-tutti (ricchezza come offerta al pubblico, ricchezza come fatturati degli operatori – poi chiaro, con la musica soprattutto se la prendi seriamente come cultura non è che ci fai tanti soldi, anzi, però se gira più denaro e più interesse se ne giovano anche gli operatori più sotterranei e meno commerciali). Persone di valore a partire dallo stesso Assessore alla Cultura: un uomo di musica – Filippo Del Corno è infatti in primis un valido compositore di musica classica contemporanea, per chi non lo sapesse – e un pensatore di qualità. Non insomma un anonimo raccomandato piazzato a calci in culo su uno scranno dove non fare danni, e non avanzare troppe richieste che disturbino i manovratori.
Ora, però: la pandemia. Eccola. Tutto fermo. Tutto bloccato. E tutto bisognoso di un minimo di aiuto. Dunque: la cosa positiva è che il Comune di Milano si è posto il problema dello spettacolo e degli eventi ad esso connessi (musica, teatro e dintorni), tenendo fede all’ormai decennale new deal di cui parlavamo sopra. Bene. Non è una cosa da poco. Che ha fatto, il Comune? Ha fatto nascere Milano, che spettacolo!: «misure di accompagnamento per la ripresa delle attività di spettacolo dal vivo» recita il post ufficiale, che aggiunge anche le parole sostegno e rilancio.
Bene? Tutti contenti? No. Per nulla. E non è un problema di “non ci sono abbastanza soldi”, che come dicevamo è una questione endemica di un Paese che, dal periodo DC-PSI in poi, ha fatto esplodere il debito pubblico scaraventandone le conseguenze sulle generazioni successive (eccoci: siamo noi le generazioni successive, evviva! Bello, vero?), cosa che peraltro continua allegramente a fare, ma non divaghiamo. Il punto non è economico: il punto è proprio di principio. E lo hanno perfettamente individuato i locali milanesi dediti alla musica dal vivo. I quali – fatto non scontato – si sono uniti, e si sono fatti firmatari di un’unica lettera aperta. Lettera di cui abbiamo già parlato, ma fateci fare un commento a margine.
Il succo infatti è: bello il sostegno allo spettacolo, ma avete fatto tutto senza chiederci un cazzo e soprattutto state ipotizzando un fantomatico spazio aperto (anzi: «un hub», perché a Milano il vizio di usare l’inglese è ormai necessario se ti vuoi far prendere sul serio) di cui non è chiara né la forma né la direzione artistica e pratica, mentre lasciate completamente fuori dal quadro noi, noi che la produzione di eventi musicali la portiamo avanti da anni con consolidata attenzione, fatica e professionalità.
È effettivamente così. E il problema è che Milano, che spettacolo! mette in campo una visione un po’ paternalistica dell’arte che viene vista come ecosistema dove ci sono «quelli che ci fanno tanto divertire» che, poverini, hanno bisogno di uno spazio dove giocare, dove preparare le loro simpatiche e ispirate creazioni. Il Comune, cara grazia, non solo offre questo spazio ma lo offre pure attrezzato e debitamente sanificato, con la possibilità appena le condizioni sanitarie lo permetteranno di ospitare pure del pubblico pagante, così gira qualche soldino in più. Che bellezza! Manca il pacchetto di pasta e conserve di pomodoro in omaggio (quello l’ha fatto la Siae: e no, non è una battuta), poi abbiamo veramente tutto l’armamentario dell’approccio sbagliato, degno di Achille Lauro (il sindaco armatore, non il cantante partito rapper e finito Renato Zero minore) in quanto a paternalismo.
In filigrana l’impressione è proprio che si faccia in generale fatica a capire l’arte – in questo caso la musica, che è l’arte più visibile e redditizia a Milano – come (anche) una entità industriale. Non sono stati infatti consultati i primi motori economici e produttivi del comparto: le venue. Si è pensato solo all’artista, e lo si è fatto non in ottica di sistema evoluto e ramificato ma in ottica di momentanea regalia, una roba tipo «dai, vieni qui che ti offro un posto e un pasto caldo finché lì fuori non smette di piovere, poi torna pure sulla strada a fare gli spettacolini per i passanti».
Francamente questa scoria degli artisti che-ci-fanno-tanto-divertire deve veramente essere sradicata a tutti i livelli. Oxfordianamente detto, ha rotto il cazzo. Gli artisti sì, effettivamente ci fanno divertire; ma nel farlo creano mercati, aprono prospettive, aiutano la filiera del turismo e della ristorazione, danno impulso all’editoria, stanno fianco a fianco di chi crede che l’impresa possa avere una finalità anche sociale e collettiva oltre che economica e privata e, last but not least, danno una grossa mano al grande non detto dell’economia contemporanea: il settore immobiliare, quello su cui si reggono i conti dell’intero sistema bancario e quindi finanziario. Lo hanno capito i colossi più sgamati del settore, che sempre più spesso acquisiscono grandi lotti di edilizia dismessa, li convertono per qualche anno a zona culturale di eventi e poi oplà, rivendono tutto a prezzo al metro quadro decuplicato (come minimo) rispetto al prezzo d’acquisto, visto che l’arte è riqualificazione territoriale. In Italia siamo invece troppo spesso ancora nella fase in cui arte, musica ed eventi sono un mero problema di ordine pubblico: di vicini cioè che chiamano i vigili lamentandosi dello schiamazzo (e, anche se non lo dicono, del fatto che fanno più fatica a trovare parcheggio sotto casa). Il problema dell’ordine pubblico c’è, negarlo sarebbe malafede, ma è solo un tassello di un quadro molto più grande, composito, importante.
Facendo un paragone, è come se nel disegnare le politiche industriali i più alti organi dello Stato ascoltassero solo gli operai (e li ascoltassero dando loro giusto un contentino, un luogo dove giocare, dove fare la pausa pranzo), e non si consultassero minimamente con chi le industria le crea e le porta avanti. Ce ne rendiamo conto? Certo: il capitano d’industria e il padronato sa essere un covo di stronzi che non si fa problemi a sfruttare la forza lavoro e gli operai, Confindustria in Italia non brilla certo per mancanza di corporativismo, ma resta il fatto che a nessun politico sano di mente verrebbe meno di escludere gli industriali dalle discussioni sulle politiche industriali, parlando (male) solo con gli operai. Se lo facesse, verrebbe bastonato in primis dall’opinione pubblica.
Questo shift per cui l’arte e la cultura sono (anche) un’impresa e non solo un lusso sociale da finanziare a fondo perduto deve ancora essere compiuto, in Italia. Al solito, è più che altro compiuto a metà, e solo la metà pelosa: perché la cultura è un lusso sociale, quindi sacrificabile, quando hai la scusa di decurtare quasi del tutto i finanziamenti (tolte eccezioni assurde, come la vergognosa pioggia di milioni sugli enti lirici, vergognosa essenzialmente in confronto al nulla che viene dato ad altri); ma quando però c’è da considerare l’arte come impresa, improvvisamente ci si fa di nebbia, perché in fondo «è arte, è cultura, non è impresa». Ricorda tanto la storiella che, altro oxfordismo, la sta pesantemente mettendo in culo a tutta una generazione e a quelle successive: con la riforma Treu è stato varato il lavoro atipico per rendere meno rigido il mercato del lavoro italiano (giusto), ma questo neo-istituito lavoro atipico non ci si è preoccupati poi di tutelarlo normativamente (sbagliato, sbagliatissimo, praticamente criminale, sempre più ne vediamo le conseguenze).
Fino a quando vogliamo perseverare in questi errori? Risolverli sarebbe un’operazione a costo quasi zero. Ma a discreta fatica politica e intellettuale, perché si tratterebbe di scardinare svariate rendite di posizione sedimentate negli anni, nei decenni. Forse il problema sta proprio qui. Ed è un problema grosso.