Negli anni ottanta, Milano è piena di modelle, di boutique e, insieme a New York, è probabilmente la città più glamour del mondo. La moda “lancia” nuovi talenti e nuove facce come un tempo solo il cinema; influencer e altri figurini da social non ci sono ancora, ma ci sono le riviste, Vogue, Vogue America, Bazaar, Marie Claire, Donna, Elle, e anche le più easy come Amica e Grazia. Milano è la città del prêt-à-porter; il 5 aprile 1982 il settimanale Time dedica la copertina a Giorgio Armani, consacrandolo come uno degli uomini più influenti del decennio.
Milva veste spesso Ferrè in scena, nella vita Armani. Appena ha un momento libero frequenta la sua boutique di via Spiga, dove un affascinante e giovanissimo Alessandro Calascibetta la accoglie con sussiego, rispetto, sollecitudine e professionalità. Alle sfilate Milva non manca mai. Fra i suoi pochissimi amici c’è Luigi Salvioli, ex modello dal fortissimo accento fiorentino, focoso e pieno di interessi che, dopo aver sfilato per Coveri e Armani e aver posato mille volte come un Clark Gable nostrano, si è dato alla produzione, seguendo la parte uomo della Why Not?, un’agenzia milanese fra le più importanti, che scopre volti e corpi e li rilancia sulle riviste patinate e nelle sfilate. Mondanissimo, vulcanico ed esplosivo, provocatorio ma anche generoso, Luigi adora Milva e si lega a tutta la sua famiglia: con Luciana va alle Seychelles in vacanza, frequenta Martina che, studentessa di storia dell’arte nei primi anni ottanta, lo porta a Bergamo a vedere i dipinti di Lorenzo Lotto; e frequenta Massimo, che è intorno ai quaranta e, abbandonata l’università e il mondo politico, irriconoscibile rispetto agli anni settanta, dedica al lavoro per Milva moltissime energie.
Milva da anni non si è mai fermata un momento, ha semplicemente risposto alle richieste che le sono arrivate una dietro l’altra, una più prestigiosa dell’altra, senza avere spazio per tentare davvero una pianificazione, un programma almeno a media scadenza. La sua agenda è piena per anni, è piena da anni e, intanto, gli anni sono passati. Sono passati anche per Martina, che sta finendo l’università a Milano ed è diventata una ragazza alta, slanciata e molto bruna, con tanti capelli.
Milva ama impetuosamente sua figlia e le dà sempre tante cose, ma la conosce pochissimo, forse non le ha mai parlato per più di un quarto d’ora consecutivo e spesso non capisce e non condivide le sue scelte: Martina le sembra irrequieta nei sentimenti, ha avuto qualche fidanzato più vecchio di lei che, in genere, alla mamma non piace: seguono discussioni, qualche amarezza, ma anche momenti belli, un cinema, un ristorante, la visita a una mostra: per Martina, uscire con sua madre è come sfilare su un podio. Tutti le fermano, tutti le chiedono qualcosa. È una sensazione strana, vagamente euforica, vagamente perturbante: un giorno a pranzo al Bagutta incontrano Sandro Pertini che Milva vuole abbracciarla, baciarle rispettosamente le dita della mano e farsi fare un autografo. Che onore, ma come ci si sente “speciali”. A Martina, e a Luciana, Milva “passa” buona parte della profusione di abiti che le arrivano dalle boutique, i capi delle sfilate e qualunque altra cosa venga lasciato con un biglietto nella sua portineria: un’occhiata, una prova veloce e quello che non va a pennello scivola verso la famiglia. Milva ha tantissimo, è sempre elegantissima, e gli scarti di questa età dell’abbondanza si riciclano tutti fra le tante donne intorno a lei. Ma a Martina la moda interessa poco; anche la musica l’ha abbandonata da tempo, strimpella, sì, il pianoforte ma lo studio l’ha interrotto al quinto anno quando frequentava la quarta ginnasio perché, diceva, non ce la faceva con i compiti e tutto il resto; e questo alla mamma è dispiaciuto però la vita è sua. È brava a scuola, questo sì; ha tutti trenta, Milva non sa bene che esami faccia e come organizzi i suoi studi ma i risultati sembrano esserci; e poi scrive tanti articoli e testi critici per varie mostre: fra questi, prima ancora di finire il liceo, una presentazione per la bravissima Giosetta Fioroni.
Però, ovunque vada e per chiunque la incontri, Martina è soprattutto e immediatamente la figlia di Milva e questo la mette in crisi: anche agli esami, anche certe volte coi professori, sicuramente con gli amici e le loro famiglie, nelle gallerie d’arte e sul lavoro e persino quando va a rinnovare la tessera dei trasporti pubblici e deve esibire un documento: ma lei è la figlia di Milva?
Martina, invece, tenta caparbiamente di essere trattata per quel che è, giudicata per quel che vale, vuole essere se stessa anche agli occhi degli altri. Milva non capisce il problema fino in fondo, comunque non può farci niente; e quando a ventitré anni, appena tornata da una lunga estate di studio negli Stati Uniti, Martina le dice che vuole andare a vivere da sola ci resta decisamente male: che bisogno ne ha? Tanto non ci sono mai! Perché lasciare la nostra casa e scombinare quella sistemazione costruita faticosamente e nemmeno da tanto tempo? Ma Martina, testarda come sempre, è irremovibile, benché non sia ancora laureata. Massimo media, il primo anno fuori casa sarà un monolocale, che Milva chiama “il tugurio” o “il suo buco”, affacciato sul cortile dello stesso palazzo dove vive lui. La situazione però è economicamente insostenibile per la ragazza alle prime armi nella sua autogestione e nella sua vita adulta; l’anno successivo, Martina va a condividere un appartamento con altri amici a Porta Venezia trascinandosi la fedele, un po’ burbera ma sempre affettuosa Elvira che va da lei una volta la settimana per fare pulizia e, nel frattempo, dare un’occhiata alla ragazza, cosa che alla mamma non dispiace.
Milva porta Martina anche con sé in Giappone, in un tour trionfale insieme ad Astor Piazzolla; un viaggio di circa due mesi che tocca Tokyo, Kyoto, Nagoya e Osaka. Un bellissimo periodo, ricco di complicità e di piacere per le esperienze condivise, persino di una certa leggerezza. Milva è molto felice che i concerti si tengano di pomeriggio, così che, dopo gli applausi e un rapido passaggio in camerino, le due possono andare a cena in qualche bel ristorante di Ginza: vanno pazze per la cucina giapponese, entrambe sono ottime forchette e si divertono molto in quelle esplorazioni nel mondo gastronomico dell’Estremo Oriente. Non si dice di no a nulla, dal sashimi al sukiyaki, dallo shabu shabu al teppanyaki e a tutte le più sofisticate prelibatezze dell’adorata cucina del Sol Levante. Anche la Corea va per la maggiore: Milva ama in particolare le interiora finemente affettate e arrostite sulla piastra bollente posta sul tavolo, accompagnata dagli sguardi rapiti o divertiti degli ammiratori o semplici curiosi. C’è anche tempo per la cultura e l’arte: a Tokyo, Martina esplora tutte le gallerie d’arte contemporanea per una ricognizione sul paesaggio del presente che sarebbe stata pubblicata da “Flash Art”, mentre nell’antica città imperiale di Kyoto le due visitano insieme il palazzo di legno e di carta e i giardini con il celebre Tempio d’oro. Il Giappone è lindo, efficiente e preciso, Milva si sente a casa all’Hotel Seiyo di Ginza, di cui apprezza anche il profumo delle stanze, i rituali, la gentilezza delle persone e del suo pubblico, che la segue e la celebra con passione e un affetto quasi fanatico.
Poco dopo Martina si laurea in Lettere Moderne col massimo dei voti all’Università Statale, la prima in tutta la famiglia di Milva a raggiungere quel traguardo; di questo Milva è fieissima. “Il 26 giugno Martina si è laureata con 110 e lode,” scrive, “la amo molto.” Alla discussione ritrova Maurizio, contento anche lui. Martina sta già lavorando a ritmi serrati a Panorama, un settimanale allora distribuito in centinaia di migliaia di copie in tutta Italia, e si fa un nome come giornalista d’arte. Milva, nel frattempo, si è abituata a non averla più a casa: nell’ex studio di sua figlia comincia ad accumularsi la rassegna stampa dei suoi concerti e l’armadio ospita già i vestiti da sera. Presto anche a Martina verrà regalato un appartamento, non senza un conseguente strascico di ansie, tensioni e sentimenti contraddittori, tutti di natura economica: anche in quel momento, come sempre, Milva pensa moltissimo al denaro, senza mai lesinarlo a nessuno ma trasformandolo in un contenuto mentale alternatamente angosciante o euforico. Però una casa l’ha comprata ai suoi fratelli, non deve comprarla a sua figlia? No, deve, sente di doverlo fare. “Mi costa tantissimo,” scrive. “Vorrei aiutare Lucy di più. Vorrei, vorrei.” Eterna, ansiogena contraddizione fra il desiderio di dare agli altri, di gratificare i suoi familiari come una sovrana benefattrice, e il violento stress, quasi il rancore che questi suoi stessi gesti le procurano.
Il lavoro continua, implacabile e benedetto, benché Milva fra sé e sé si lamenti che “ne arriva sempre meno”. Il mercato discografico non lascia scampo e pretende un disco l’anno. Ancora Vangelis? Perché no? Il primo lavoro, bellissimo, aveva avuto ritmi affrettati, calendari incombenti, per entrambi. Perché non ripensare a qualcosa insieme? Nella primavera del 1986 Milva torna da Vangelis a Londra. Questa volta l’idea è sua. “Sono andata a Londra per un mese, Vangelis e io ci vedevamo nel suo studio, quando ne avevamo voglia. Questa volta, si può veramente dire che lui ha composto per me. A parte la sua vecchia Spring, Summer, Winter and Fall del periodo Aphrodite’s Child, che io ho ripreso, tutti i brani sono nati lì, dalle nostre improvvisazioni”. Nasce quindi Geheimnisse (Segreti), Tra due sogni in italiano, prodotto sempre dal convinto Klaus Ebert insieme allo stesso Vangelis. Un disco tutto elettronico, suonato anche in parte da Vangelis al synth, con un paio di idee potenti e vocalmente impegnative soprattutto, Du gibst mir mehr, in italiano Canto a Lloret, con testo di Raffaella Riva, una bellissima ragazza già vocalist del Gruppo italiano che in quegli anni si destreggia come molti, bazzica un po’ le gallerie d’arte e si porta addosso, con una certa classe, il suo nome, scomodo anche nella molto permissiva Milano da bere prima di Mani Pulite. Il pezzo più forte dell’album è però probabilmente L’ultima Carmen, variazione libera di Vangelis sul tema principale di Bizet che Milva interpreta magistralmente, appropriandosene con spontanea facilità, un ritmo naturale.
Nella versione italiana dell’album, dal titolo vagamente schnitzleriano come è stato notato, Massimo interviene parecchio, componendo diversi testi: vi si trova ancora il rimpianto della passione politica ormai scalzata via dalla realtà di “un altro maggio” e spesso vibrano anche, fra le risonanze dilatate, “co- smiche” di Vangelis, squarci su incontri brevi, un po’ esausti, erotismi da albergo. Un pomeriggio e 1/2 riprende esplicitamente quel mediocre film che aveva spopolato nell’86, 9 settimane e 1/2, e che tutti diligentemente erano andati a vedere, compiacendosi, o annoiandosi, delle variabili perversioni degli yuppies newyorkesi Kim Basinger e Mickey Rourke, immersi in ritmi melliflui alla Brian Ferry. Erano belli perlomeno, soprattutto la Basinger; Milva, in un servizio fotografico che la vuole inguantata in giubbotto di pelle, calze nere, tacco alto e spirale diamantata alle caviglie, fa finta di assomigliarle ma in realtà con l’attrice americana non c’entra niente. Ma che questa differenza stia diventando un handicap, un segno “meno”? Forse qualcosa in questo senso si intuisce nelle parole di Massimo, o nei consigli che le danno, lui e i suoi produttori; ma Kim Basinger ha trentatré anni, lei quasi cinquanta, come si fa? Vero è che nel rapporto fra Milva e Massimo trapela qualche disagio, qualche frizione, sempre più forte e sempre più frequente. Massimo non ha avuto nel lavoro un successo paragonabile a quello della sua compagna; l’università l’ha lasciata da tempo senza che si fosse mai formalizzato un rapporto stabile e adeguatamente compensato, vive di collaborazioni, di relazioni e di un patrimonio di famiglia forse non più così consistente come in passato. In più, alle esigenze del gigantesco e vorace lavoro di Milva, ha ampiamente sacrificato le sue; nonostante questo, la vede poco perché lei è sempre in giro, sempre in tournée, sempre in concerto, sempre in sala d’incisione, sempre da qualche parte. Non sono nemmeno diventati una vera famiglia; tentativi, forse goffi, di proporre un matrimonio non sono andati avanti; figli, neanche a parlarne, e poi li avrebbero voluti? La loro forza sembrava quella di essere liberi, è vero, è bello questo, ma come si spende questa libertà? Dove, con chi? Milva, che è stata corteggiata ma che, da quando sta con lui, non ha mai seriamente pensato a un altro, gli dice sempre che sarebbero invecchiati insieme, a Blevio, benché quando sono insieme a Blevio non stiano davvero bene, non siano sereni, affiatati. E Massimo ha poco più di quarant’anni, è molto giovane. Milva non è mai stata capace, non ha mai avuto il tempo di ascoltare qualcuno e adesso, di fronte al disagio del suo principe consorte, è spiazzata. Dice spesso a se stessa che non le piacciono più né lui né le sue idee, che dovrebbe trovare il coraggio di lasciarlo, ma quando è lui a fare la prima mossa torna precipitosamente sui suoi passi chiedendo scusa in ginocchio.
Anche, forse, per mettere a reddito un’esperienza professionale composita come la sua, e imprimere una svolta a quel falsopiano depressivo su cui forse sente di scivolare, Massimo entra in società con Luigi Salvioli, che apre un’agenzia per fashion model e, più avanti, per fotografi. Il momento è ancora intensamente glamour, un glamour quasi obbligatorio cui la nuova generazione si sottomette con naturalezza; tutto così bello, così facile. Soprattutto, così accessibile. È ancora Battiato a commentare la superficialità del presente in Le vittime del cuore, il brano che Milva canta insieme a Juri Camisasca nell’album, “Svegliando l’amante che dorme”, scritto e pensato per lei dal cantautore siciliano nel 1989.
Con Battiato avevano continuato a vedersi, di tanto in tanto: d’estate, nell’85, avevano trascorso qualche giorno insieme a Porto Rotondo; negli attimi prima del tramonto Franco invariabilmente si sedeva per terra a gambe incrociate come un orientale per guardare il sole scomparire dietro l’orizzonte, fino a che le ombre non si erano distese su buona parte delle colline e del mare. In “Svegliando l’amante che dorme”, non mancano atmosfere simili; il pezzo portante è un vecchio brano sofisticato e meditativo riadattato a misura di Milva, Una storia inventata, presagio involontario di quanto sta per accaderle, del suo prossimo futuro. E Milva si immerge in quel mondo musicale in modo più personale e convinto di alcuni anni prima, all’epoca del loro primo lavoro. Franco, nei testi scritti per lei, propone se stesso, sfumature e situazioni che non riguardano lei ma che la sua voce rende credibili, storie vere. Si gravita ancora e sempre intorno alla stessa cosa, flirt, innamoramenti, amori, passioni, sesso, ma che altra versione dei fatti! Sempre quelli e noiosi. In quel momento solo Battiato riesce a non esserlo.
“Il giorno provvisorio se ne va,” si sente gridare in Potemkin, uno dei brani più originali. Potemkin, la corazzata della Rivoluzione d’Ottobre. Russia, ancora; ne parlano qualche volta insieme, l’Unione Sovietica ha i giorni contati, nell’88 Gorbaciov avrebbe introdotto dopo più di sessant’anni la glasnost’, libertà di espressione e di religione nell’URSS, e nell’89 la gente infuriata e felice avrebbe spazzato via il Muro di Berlino. I tempi stanno per cambiare.
Una sera Milva e Franco Battiato si trovano al ristorante russo di via Mercalli a Milano. C’è anche Lucy, sempre informata e curiosa: Franco, cos’è quest’ottava, chi è Gurdjieff: ho visto il film di Peter Brook, Incontri… conversazione da salotto, eclettismo distratto. Franco vive già a Milo, si è fatto crescere una folta barba. La risposta è semplice: poco da dire, una disciplina, no, non una religione, un decalogo per affrontare la vita di tutti i giorni. Milva non toglie gli occhiali; Franco dice: ma Milfa tu non sei adatta. Martina forse, lei potrebbe esserlo. Ma se volete leggete un libro, Frammenti di un insegnamento sconosciuto, un tale Ouspensky. Vedrai, domani mattina non ti ricorderai più né il titolo né l’autore.
Milva, in realtà, è in cerca di spiritualità più che mai; non ha mai smesso di chiedere aiuto a Dio e va a messa anche più spesso di prima, si confessa, fa la comunione, benché quando Massimo la accompagna provi vergogna: andare a messa può essere un rito sociale, la comunione è un atto personale, di partecipazione, di fede. A Gesù chiede aiuto, soldi, forza, lavoro. Una volta poi, in diretta a Telemike, interpretando con Juri Camisasca Angelo del Rock, sfoggia una vistosa croce, per la pri-ma volta da tempo. E osserva, quasi spia, che cosa fa Franco, lo cerca, ne avverte la differenza, quella specie di superiorità alle cose. Va anche a Milo, a parlare del disco e a trovare Franco e Juri che vivono vicinissimi l’uno all’altro, ma in qualche modo cerca un aggancio, una guida; lui però, loro sembrano ritirarsi, non offrono appigli. Nel 1992, intervistata da Gianni Minà, Milva avrebbe detto con grazia e leggerezza di aver chiesto ufficialmente la mano di Franco. Una battuta felice cui lui, in diretta, si sottrae di nuovo: mi pare giusto, replica, quasi offendendola, e sfuggendo poi subito alle domande, cambiando discorso.
Quel che Milva non riesce a capire di Franco è la sua profonda indipendenza interiore, il suo essere centrato intorno a un fulcro di serenità e autonomia che lei cerca disperatamente negli altri perché dentro di sé non ce l’ha. Ogni tanto, a Milano, prendono un caffè da Taveggia; Milfa, vuoi la saccarina? Una volta c’è anche Alice; bellissima, magnetica ma in realtà anche lei tanto amichevole quanto inaccessibile. Ha imparato da lui? Franco non fa mai domande intime; non gli interessa? Ma com’è possibile?
Da Milva L’ultima diva – Autobiografia di mia madre di Martina Corgnati © 2023 La nave di Teseo editore, Milano.