Un anno e mezzo fa, quando Lucio Corsi s’è esibito a Milano, l’Alcatraz era mezzo vuoto. Questo Gianni Rodari cresciuto con Bowie e Dylan, questo cantautore che trasfigura il mondo con una fantasia sfrenata e fanciullesca ma non infantile, questo cantastorie che ti fa vedere un’altra realtà perché questa fa schifo era un piacere per pochi ma buoni. A Sanremo è successo qualcosa di prodigioso sul palco, in sala stampa, anche a casa. Corsi è stato costantemente tra i più votati e alla fine è arrivato secondo distaccato per uno 0,4% da Olly. Ha portato a casa il 25% del televoto, quattro volte tanto Simone Cristicchi, per fare un paragone. Dietro di lui non si sono piazzati i favoriti Achille Lauro o Giorgia, oppure una popstar sexy o uno scannatore di sentimenti, ma un cantautore adulto e classicissimo come Brunori Sas, che aveva una canzone vera e per niente spettacolare.
Una cosa li accomuna, oltre al management: sono fuori dai giochi, dai giri dei producer di moda e degli hitmaker che al Festival hanno firmato quattro, cinque, sei, sette pezzi. Uno è il solo autore di L’albero delle noci, l’altro ha scritto Volevo essere un duro col suo partner in crime Tommaso Ottomano, è roba fatta in casa come i vestiti di Corsi, è il nostro bell’artigianato pop. Eppure come in quel film, con Sanremo al posto di Milano e le chitarre al posto delle scope, hanno preso il volo, verso un mondo musicale migliore. O almeno si spera. Una vittoria non è una rivoluzione, Sanremo non è la realtà, ma viene da pensare con un bel po’ d’ottimismo che se mostri qualcosa d’anticonvenzionale e fatto con cura e talento, il pubblico lo apprezza, persino quello del Festival che com’è noto non ha gusti particolarmente avanzati. La prendo come una buona notizia per la musica italiana, visto che Sanremo è ancora uno dei pochissimi posti dove puoi andare per lasciare un segno, che tu sia un veterano o l’ultimo degli outsider.
I due stili che hanno segnato la nostra musica e le ultime edizioni di un Sanremo risintonizzato sui gusti della nazione sono il pop d’ispirazione internazionale e il rap/trap in versione de-rappizzata, affiancato dalla canzone d’autori (il plurale è voluto) cresciuta spalla a spalla col rap. Il primo ha contribuito alla sprovincializzazione del gusto, anche se in questo strano Paese le sue protagoniste stentano a far passare l’idea che il pop passi anche attraverso i corpi. Si trova però a fare i conti con la statura dei talenti che abbiamo a disposizione, col ricorso eccessivo a un bacino di autori che conoscono le regole dello streaming e del mercato e vanno sul sicuro, coi limiti del nostro show business, con una progettualità che sembra risolversi in alcuni casi nella decisione di scimmiottare modelli che vengono dall’estero. C’è un appiattimento preoccupante. Lo si difende, questo pop, perché è contemporaneo, libero, sexy. Ma non sempre si distingue dal vecchio giacché insegue la ricerca facile del consenso. Le produzioni dance pop che solo pochi anni fa rappresentavano una delle novità di un Festival svecchiato nel 2025 hanno cominciato a sembrare trite.
Sul fronte della trap, siamo in attesa che le seconde generazioni facciano sentire in modo ancora più forte la loro voce rimescolando le carte, dando uno scossone, crescendo artisticamente, portando nel mainstream un mondo verso cui c’è una forte ostilità. Ora come ora pare avere esaurito la spinta, si perpetua nella ripetizione di suoni, temi, gesti, e mescolandosi col pop non crea valore, se non economico. La rivoluzione di ieri è la normalità di oggi. Se Shablo e i suoi hanno portato senza boomerismi, ma con grande stile, un pezzetto di storia dell’hip hop italiano all’Ariston (molto bene), Tony Effe ha cercato una strada alternativa senza risultare credibile (male male). S’intravede da tempo in Olly, Bresh, Rkomi e molti altri un cantautorato pop cresciuto spalla spalla col rap. Nessuno di loro ha fatto ancora qualcosa di grande.
L’anno scorso è arrivato secondo Geolier, ora Lucio Corsi. Forse sono troppo ottimista, ma il suo piazzamento e quello di Brunori e magari anche la presenza nel cast di Joan Thiele, che non sarà tra le preferite del pubblico di Rai 1 ma ha fatto un bel Festival, apre uno spiraglio da cui potrebbero entrare artisti strutturati, con una storia solida ma non ancora nota al grande pubblico, con una concezione musicale meno convenzionale di chi va all’Ariston a cantare la propria malinconia su una cassa in quattro. Se davvero un po’ d’audacia paga, c’è spazio per antieroi che raccontano una loro verità, che hanno qualcosa da dire e la dicono da anni, mi riferisco a gente come Cosmo o i Calibro 35, per citarne due. Questi ultimi, che sono passati dal Festival ma mai da concorrenti, hanno scritto pochi giorni fa su Instagram di sperare che «una traccia, seppur minima, di innalzamento dell’asticella qualitativa, negli anni, si sia (si parla di musica, ovviamente) un minimo percepita e che un frammento di Calibro si sia incastrato nelle mura dell’Ariston. Magari anche per le prossime edizioni, chissà. Non che sia poi così importante: ma a noi la gente ci interessa. E la musica senza la gente, non ha luogo».
È uno dei punti chiave. Non bastano gli outsider, le individualità forti, le storie consolidate e interessanti. Ci vogliono il talento musicale, la fantasia degli arrangiatori, la cura del suono, ci vogliono cose che oggi sembrano accessorie per raggiungere il successo. Lo dimostra l’appiattimento degli arrangiamenti che si sono ascoltati all’Ariston. Bisogna trovare un modo, come ha fatto Lucio Corsi, di non omologarsi e al contempo riuscire a parlare al Paese non perché il successo di massa sia necessario, ma per far progredire il pop in cui viviamo. Servirebbe forse anche far fruttare meglio il patrimonio italiano. Lo devi conoscere, però, devi sapere quale e quanta storia ti precede, devi studiare senza beninteso alcuna nostalgia o retromania. Volevo essere un duro e L’albero delle noci non sono rivoluzionarie, ma non nascono nel vuoto. Sono canzoni popolari dentro cui sono sedimentate e rielaborate esperienze, suggestioni, abilità, influenze. A Sanremo 2025 qualche segnale si è visto anche se il passato è stato usato per lo più come abbellimento estetico in un momento in cui è difficile intravedere il futuro della musica italiana. È un paradosso visto che il repertorio locale ha un successo forse senza precedenti: i 10 album e i 10 singoli più ascoltati nel 2024 erano italiani, così come lo era l’84% dell’intera top 100 dei dischi.
L’augurio è che vocabolari musicali e letterari più ampi, fantasie sfrenate e non convenzionali, un artigianato pop non conformato, un bel po’ più di audacia aiutino la musica italiana da uscire da questo stallo di gran successo. Per non ridursi a cantare tutti quanti “mmh ha ha ha” come Young Signorino, uno che forse aveva capito tutto.