Almeno dal punto di vista discografico, avevamo lasciato i Muse a Simulation Theory, forse uno dei punti più bassi della più che ventennale carriera del gruppo di Devon. Rileggendo le dichiarazioni di allora, c’è qualcosa che salta immediatamente all’occhio: Bellamy e soci avevano infatti ammesso di essere decisamente più ottimisti rispetto a qualche anno prima, quando avevano scritto e pubblicato il precedente Drones. Non che Drones fosse un capolavoro, ma nonostante la sua già mastodontica autoindulgenza e autoreferenzialità, quel disco manteneva ancora un flebile legame con il loro passato. Quanto meno per quanto riguardava le tematiche generali dell’opera.
Viene quindi da pensare che la creatività del gruppo risenta inevitabilmente dello stato d’animo dei propri componenti (e questo è abbastanza scontato), ma soprattutto che i tre riescano a tirare fuori le cose migliori quando ciò che li circonda tende pericolosamente verso il baratro. In questo senso, Will Of The People rappresenta la più lampante conferma dell’assioma appena espresso. D’altra parte, il buon Bellamy aveva già messo tutto nero su bianco: «L’album è influenzato dalla crescente incertezza e instabilità nel mondo», aveva dichiarato. «La pandemia, nuove guerre in Europa, massicce proteste e rivolte, un tentativo di insurrezione, destabilizzazione della democrazia occidentale, crescente autoritarismo, incendi e disastri naturali e la destabilizzazione dell’ordine globale hanno influenzato Will Of The People. È stato un periodo di preoccupazione e spaventoso per tutti noi, poiché l’impero occidentale e il mondo naturale, che ci hanno cullato per così tanto tempo, sono veramente minacciati. Questo album è un viaggio personale attraverso quelle paure e la preparazione per ciò che verrà dopo». Ottimismo addio e ottimo disco in arrivo, quindi?
Più o meno. Partiamo dalla tanto sventolata svolta politica di cui si è parlato a lungo fin dall’uscita di Compliance. In realtà, i temi trattati da Bellamy sono sì strettamente legati al terribile momento storico che ci troviamo a vivere, ma non tracciano certo una linea di rottura con il songwriting del passato. Ai Muse è sempre piaciuto parlare di certi argomenti, di società distopiche e di mondi debitori degli incubi orwelliani, con qualche spruzzata di Roger Waters qua e là. La differenza, semmai, è che forse mai come oggi quegli incubi non ci appaiano più come semplici proclami da artistoidi annoiati o allarmismi da fine del mondo, ma minacce reali. Va comunque detto che, oggi come nel passato, solo parte dei testi sono imperniati sulla percezione del mondo del gruppo, togliendo di mezzo i dubbi (o le speranze) di trovarci davvero tra le mani il concept socio-politico dei Muse.
Questo è probabilmente il problema di Will Of The People: con un titolo e delle dichiarazioni del genere, non avrebbe avuto più senso tirare fuori un po’ più di coraggio e lasciarsi completamente andare a qualcosa di più definito? Perché, onestamente, la sensazione è che la band abbia avuto paura di spingersi fino in fondo sulla strada tracciata, quella politica appunto, trasformando di conseguenza le dichiarazioni delle ultime settimane in semplice promozione. Canonica e pure un po’ paracula. Sì, perché è proprio questo che mi fa incazzare dell’operazione e che mi lascia quella sensazione di delusione per qualcosa che poteva essere e che, invece, è stato buttato un po’ in caciara. Amarezza che aumenta in maniera proporzionale alla qualità di molti dei pezzi. I gusti sono gusti, non si discute, ma era davvero troppo tempo che i Muse non tiravano fuori brani di questo tipo, capaci di fottersene persino del gusto medio dei propri fan odierni. Eppure, proprio come per le liriche, allo stesso tempo si percepisce la paura di osare, il timore di non piacere più a così tante persone. Insomma, di perdere piano piano lo status di megastar raggiunta da almeno un lustro. Da qui forse l’esigenza di intervallare le canzoni più rilevanti con ballate sì belle, ma anche tremendamente autoderivative. Anche perché, quando raggiungi certi livelli, puoi forse permetterti un paio di brani a disco come Kill Or Be Killed, quelli che servono ai vecchi fan per poter dire «ah sono ancora loro», ma guai ad andare oltre. Pena quella di tornare ad essere davvero influenti, senza giocare più con Coldplay o U2 a chi ce l’ha più grosso.