Il primo singolo? Una suite di 21 minuti pubblicata su audiocassetta. Il primo disco, invece, ha quella stessa suite da un lato e tre brani dall’altro, per un totale di 45 minuti che si inseriscono con una certa noncuranza – per non dire arroganza – nel mercato italiano, pretendendo spazio e tempo, imponendo durata e pesantezza e ottenendo un riscontro inatteso fin dalla prima pubblicazione, segno che forse il vento sta cambiando e questa musica che si rifà al Krautrock e al protopunk – leggasi: Neu! e Velvet Underground – ha fatto il classico giro, risultando paradossalmente una ventata di aria fresca.
Per fare nomi e cognomi: stiamo parlando dei Neoprimitivi e del loro Orgia mistero. Il nome, tratto in verità da Shock in My Town di Battiato, in un certo senso sembra quasi rimandare ai gruppi beat italiani, le cui influenze sono evidenti soprattutto nelle pochissime parti cantate che compongono il loro album d’esordio, ma anche al concetto di “nuovo” che era alla base del mondo Krautrock. «Ci ha colpito quella parola: Neoprimitivi. Era perfetta. Istintiva, quasi un segno del destino», racconta Andrea Gonnellini, bassista, cantante e fondatore del gruppo. Un approccio sorprendente per dei ragazzi della gen Z, cosa che infatti non sono: «C’è questa cosa che gira per cui si dice che siamo tutti gen Z, ma io ho 32 anni, Flavio 34, Pietro 39. Ci sono tre membri che oggi non sono presenti che effettivamente sono sotto i 30, e alcuni di loro probabilmente sono gen Z, ma non so perché giri questa cosa».
Accanto ad Andrea ci sono Pietro Rianna, architetto del noise e dei sintetizzatori, e Flavio Gonnellini, che oltre a essere suo fratello è anche il produttore dell’album insieme a Giacomo Fiorenza. La band si completa poi con Giacomo O’Neil, Martino Petrella, Roberto Callipari e Emilia Wesolowska. Il disco d’esordio dei Neoprimitivi si configura come una sorta di emigrazione su un pianeta, appunto il Globo d’argento ripreso dal film di Zulawski del 1988, e la nascita contestuale di nuove forme musicali da parte di quelli che, di fatto, diventano i neoprimitivi di questa nuova civiltà.
«L’idea di essere dei primitivi» spiega Andrea «ci ricordava in qualche modo il nostro approccio quasi ancestrale a certi aspetti del suono, che secondo me hanno qualcosa in comune con le origini della musica anche su questo pianeta, al di là del concept fantascientifico, quindi quest’idea di comunicare con l’ultraterreno attraverso la riproduzione di suoni. Per questo la parte rumoristica curata da Pietro spesso e volentieri viene aggiunta alla fine, quasi come se lui fosse chiamato ad ancestralizzare le tracce per connotarle in questo senso. Un altro elemento che in qualche modo ha a che vedere con questa idea è il fatto che di fatto noi nasciamo come una jam band, le nostre tracce nascono sostanzialmente improvvisando a partire da basi semplici, di solito formate da giri di basso e batteria, motivo per cui le tracce incise su disco sono solo una delle tante versioni possibili, e per questo siamo convinti che la nostra musica prenda davvero forma solo dal vivo».
Un’idea di primitivismo che è filtrata da una forte passione per le avanguardie, che Andrea richiama alla mente in continuazione. «Ci piace proprio l’idea dell’happening nel senso avanguardista del termine: l’idea che l’opera d’arte possa coincidere con un evento che si verifica una volta sola, per questo diamo così tanta importanza all’improvvisazione, e per questo ci sentiamo liberi di scambiarci gli strumenti a seconda di quello che ci viene spontaneo fare nel momento in cui ci stiamo esibendo. È strano, perché verrebbe da pensare che ci conosciamo da una vita, invece la band è nata dal mio tentativo di mettere insieme persone che inizialmente conoscevo solo io separatamente: a parte Flavio, che è mio fratello, sono tutte persone che ho incrociato in contesti diversi e che tra di loro, prima dei Neoprimitivi, non si conoscevano. Quando siamo andati in sala prove per la prima volta, non scherzo, è successa una specie di magia, eravamo tutti così allineati che ci è sembrato davvero di essere parte di qualcosa che è sempre esistito».
Il risultato di queste esperienze è un suono che affonda le radici in un passato che è sì rodato, ma che non è il “solito” passato fatto di nomi altisonanti: tolti i Velvet Underground, i riferimenti continuamente rievocati dai ragazzi sono tutti abbastanza “laterali” e molto specifici. Appunto i Neu!, ma anche i Can sono progetti importanti ma che anche durante il loro culmine di attività e popolarità richiedevano comunque un certo sforzo di ricerca. L’imprinting del padre di Andrea e Flavio è stato fondamentale.
«Avevamo un negozio di dischi, siamo cresciuti ascoltando i dischi che piacevano a nostro padre, che ne conosceva davvero tanti e molto belli. Per dire, i Can li ho scoperti a 5 anni, una cosa del genere. Questa influenza, ma anche il fascino del negozio di dischi, la possibilità di avere accesso a così tanta musica rara credo che abbia influito tantissimo sia su di me, sia su mio fratello. Io a un certo punto mi sono avvicinato al metal estremo, per capire abbastanza presto che non era tanto il metal a interessarmi, quanto l’estremo. E così ho iniziato a spostarmi su dischi sperimentali in vario modo, fino a innamorarmi del Krautrock. Ma tutt’ora mi piace scoprire tutto ciò che in qualche modo si fonda su idee sperimentali. Comunque questa esperienza del negozio di dischi è stata fondamentale anche da un altro punto di vista: anche se ora il negozio di dischi non c’è più, io continuo a vendere e collezionare dischi, ed è così che ho conosciuto Pietro». Che conferma: «Eravamo a questa fiera sfigatissima, e abbiamo visto che avevamo dischi molto simili e che forse proprio per questo nessuno ci stava cagando, ci siamo annusati e da lì siamo rimasti in contatto».
Questa mentalità, in ogni caso, si riflette anche nella cura per l’oggetto fisico. «Abbiamo pubblicato il singolo in cassetta, perché durava 21 minuti ed era il formato perfetto. Il vinile, invece, ha una suite su un lato e tre brani sull’altro, per mantenere una logica sia sonora che estetica», spiega Flavio. Il design, curato da Emilia, gioca un ruolo fondamentale nel definire l’identità della band. «Volevamo che la nostra musica fosse anche un’esperienza tattile, visiva», aggiunge Pietro. Tanti elementi, quindi, al posto giusto al momento giusto, che hanno convinto 42 Records, realtà discografica che ha fatto la storia della musica indipendente italiana degli ultimi vent’anni, a puntare su di loro, nonostante l’apparente incompatibilità con le regole del mercato discografico. «Guarda, di per sé esordire con una traccia di 21 minuti non nasce come una polemica verso la musica commerciale, ma era la cosa più affine alla nostra natura. Poi non nascondo che, con il tempo, un pochino di vena polemica viene inglobata. Riflettendoci con il passare del tempo personalmente ho colto anche una specie di aspetto politico legato a questa scelta: veniamo da un decennio in cui in Europa si è svolto tutto nel segno di un certo edonismo e nella convinzione che vivessimo nel benessere perpetuo e ci siamo trovati invece a fare i conti con uno dei periodi più spaventosi, in cui ci sono guerre e morti da tutte le parti e in cui le incertezze sono di gran lunga superiori alle certezze. E quindi, alla luce di questo, mi sembra inevitabile imporre una certa pesantezza attraverso la musica, perché la musica è e deve essere anche pesantezza. Nell’ultimo anno il mio interesse e il mio impegno politico sono aumentati molto, e non escludo che nei prossimi lavori dei Neoprimitivi questo attivismo interiore possa essere esplicitato molto di più». E comunque, aggiunge Flavio, «ci eravamo un po’ tutti stancati della forma canzone, della sua prevedibilità, e abbiamo preferito assecondare questa nostra predilezione di ascoltatori, applicandola alla nostra musica».

Foto: Giorgia Bronzini
Il cuore pulsante del progetto, come sottolineano a più riprese i Neoprimitivi, è la dimensione del concerto, approfondita nella residency al Trenta Formiche di Roma. «Suoniamo senza pause, cercando di creare un flusso continuo», racconta Andrea. «Proiettiamo anche video, per rendere il tutto più immersivo cercando un equilibrio tra suono e performance. L’idea iniziale della residency si ispira alle residenze underground degli anni ’60, come il club UFO a Londra. Pensiamo che questo sia un elemento sottovalutato della cultura e dell’avanguardia di quell’epoca. Oggi, è raro che un gruppo rock o psichedelico organizzi una residency, ma volevamo recuperare questo concetto, adattandolo al nostro modo di fare musica. L’obiettivo era anche affermarci prima nella nostra città, piuttosto che cercare subito di espanderci altrove. Ci è stato consigliato di lavorare in questa direzione, e ci è sembrata una strategia sensata: suoniamo insieme da circa due anni, ma con questa formazione da poco più di un anno, quindi ci serviva un periodo di consolidamento».
E ancora: «Durante la residency abbiamo presentato diversi set con video sempre nuovi e abbiamo realizzato tre fanzine diverse. Abbiamo anche suonato un set musicale ambient e una nuova suite che pubblicheremo in futuro. Volevamo misurarci con i nostri limiti e le nostre possibilità, senza bruciare le tappe. Un altro aspetto interessante è che sperimentiamo molto con gli strumenti, scambiandoceli e aggiungendone di nuovi. Quando abbiamo iniziato, il nostro obiettivo non era fare un disco, ma trovare un locale per esibirci. Per noi era fondamentale suonare e trasmettere un messaggio. Il disco è arrivato come mezzo per amplificare questa esperienza».