Rolling Stone Italia

Nick Cave e Warren Ellis hanno fatto il disco definitivo sul lockdown

Si intitola 'Carnage', è uscito a sorpresa oggi e lo abbiamo ascoltato. Di fronte alla «catastrofe collettiva» che stiamo vivendo, non ci resta che l'immaginazione

Foto: Joel Ryan

Ci voleva Nick Cave per cantare la vita magnifica e feroce che non possiamo più fare, ma solo immaginare. Ci voleva Warren Ellis per dare un suono vivido e selvaggio alle sue parole. Carnage, che la coppia ha pubblicato a sorpresa oggi, potrebbe essere il disco del lockdown più potente uscito finora. Non perché parli di virus, di malattia o d’isolamento, ma perché usa l’immaginazione come ultima risorsa, estrema linea difensiva contro il nulla che a volte sembra inghiottirci.

Warren Ellis è il braccio destro di Nick Cave, il polistrumentista dei Bad Seeds che più spesso lo aiuta a mettere in musica le sue visioni. Finora in coppia avevano pubblicato colonne sonore. Carnage è il loro primo disco di canzoni, «un processo accelerato d’intensa creatività», l’ha definito Ellis. Dicono sia nato per caso: i pezzi sono venuti fuori in due giorni e mezzo, scritti in modo compulsivo e musicati dando spazio all’improvvisazione e alle jam. Se lo sono ritrovati fra le mani questo disco, così dicono i due. Ci vogliamo credere: è una bella storia sulla genesi d’un lavoro che effettivamente sembra sbucare dal nulla e prendere forme inattese.

Carnage è una raccolta di canzoni (o forse no, ci arriviamo fra un po’) in cui Nick Cave smette di scrutarsi dentro e lascia libera l’inventiva. Questi otto pezzi sono pieni di descrizioni di paesaggi, di natura, di viaggi, esattamente le cose che ci sono state sottratte della pandemia. C’è quasi sempre un ambiente, una strada, un luogo in cui succedono le cose. La narrazione non procede in modo lineare, ma per salti, associazioni di idee, immagini poetiche. I pezzi si basano su un’idea centrale attorno a cui le parole di Cave girano a volte in modo vorticoso, smettendo di narrare, cominciando a evocare. In un mondo in cui il pop è diventato trasparente, in cui ogni messaggio è semplificato e reso comprensibile, la scelta di Nick Cave di lasciare a chi ascolta un ampio margine di interpretazione è una bella liberazione.

Ci sono immagini che legano alcuni di questi testi che sono pieni di acqua, di ghiaccio che si scioglie, di fiumi, di mare, di lacrime. C’è una frase in particolare che è al centro di Hand of God e che torna in White Elephant e Lavender Fields. “Alcuni cercano di capire chi, alcuni cercano di scoprire perché, altri non cercano alcunché se non il regno dei cieli”, declama Cave. La svolta sbagliata in automobile raccontata in Old Time è vera o metaforica? E di chi è la statua abbattuta e gettata in mare dai manifestanti di Black Lives Matter in White Elephant? A volte sembra di ascoltare il resoconto caotico di un’allucinazione, altre sembrano metacanzoni, qualche volta si ascoltano ricordi, qua e là ci si abbandona a momenti contemplativi. Poche canzoni sono violente, all’altezza di un titolo come Carnage, anche se l’idea di carneficina e massacro è metaforica e non reale com’era invece nelle Murder Ballads. “Il mio cuore è una strada aperta”, canta a un certo punto Nick Cave. Sembra una bella chiave per interpretare il disco. Lo è anche il verso di Albuquerque, struggente e aliena, un movimento lento verso il nulla, in cui il narratore dice alla donna che ama che “quest’anno non andremo da nessuna parte, cara”.

Più che canzoni, sembrano flussi di coscienza. È una cosa a cui Nick Cave ci ha abituati e che qui fa benissimo. Chi riesce a scriverli più pezzi come Into My Arms o Where the Wild Roses Grow? Sono già stati composti e comunque non apparterrebbero a questo tempo. Tanto vale mettere al centro la parola e farci girare la musica attorno. La struttura tradizionale della canzone è in parte abbandonata a favore di spoken word, poesie, recitar cantando, melodie strette declamate da Cave col suo celebre eloquio magnetico, autorevole, da attore consumato. Le musiche rispondono alle parole in modo libero, sottolineando certi passaggi con impennate di rumore o al contrario avvolgendoli con cellule sonore di pianoforte o archi che si ripetono, tra frasi convulse di due secondi di chitarra elettrica e dolci meditazioni.

Ci sono pulsazioni elettroniche e glitch, atmosfere sospese, energia contenuta a stento e momenti di stasi, dissonanze da fine del mondo e strumenti che entrano nel campo sonoro squinternando ogni equilibrio. Ci sono cori che ingentiliscono i pezzi e ritmi che li rendono meccanici. Ci sono passaggi di musica contemporanea e momenti di liberazione come l’immenso finale di White Elephant. Ci sono suoni a cui è persino difficile abbinare uno strumento. Nel finale, le musiche si fanno più distese e i suoni impalpabili, perdono peso e corpo, è come se si sciogliessero, come suggeriscono i testi. Non c’è naturalmente il sound dei Bad Seeds, ma questo è comunque un disco a suo modo estremo, in cui ogni parola, ogni nota sembra avere un senso, un ruolo. Suonato in modo libero e poi ricomposto in post produzione, Carnage è frutto dell’arte dell’editing. Per apprezzarlo bisogna accettare l’idea che la canzone oggi sia anche questa cosa qui: un teatro sonoro assemblato ex post più che una costruzione ordinata e cantabile fatta di strofe, ritornelli e ponti.

Con le sue otto canzoni-non-canzoni, Carnage è un disco piccolo e assieme enorme. È il frutto di un’immaginazione sfrenata, è un luogo fantastico in cui rifugiarsi per ricordare la vita com’era e com’è secondo la lente deformata dell’anno osceno che abbiamo vissuto. L’autore l’ha definito «un disco brutale, ma bello, radicato in una catastrofe collettiva». È Nick Cave che chiude apparentemente un periodo di introspezione e di domande a cui è impossibile dare risposte e riprende a osservare il mondo. Anzi, a re-immaginarlo.

Non è importante sapere se il protagonista di alcune di queste canzoni sia lui. Pare però d’intravederlo nel finale. Potrebbe essere lui il Balcony Man, l’uomo che guarda il mondo dal balcone di casa e dice alla donna che ama che “questo mattino è una meraviglia e anche tu lo sei”. Lo ripete più volte con una dolcezza confortante, arresa, assoluta. Un secondo prima che quel mantra diventi una formula sdolcinata, Nick Cave cambia la massima “quel che non uccide fortifica” in “quel che non uccide ti rende più folle”. E chiude l’album con queste parole, negandoci un finale consolatorio. È proprio vero: Carnage è brutale e meraviglioso.

Iscriviti