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Niente è più black metal di Tolkien

Dai Beatles agli Zeppelin, i fan del Professore, nella musica, sono sempre stati tanti. Ma nessuno ha mai portato sul palco così tanto della sua filosofia come la scena norvegese
il signore degli anelli

Foto: press

Esiste una cospicua filmografia di documentari sulla famosa seconda ondata di black metal, cioè quella norvegese di fine anni Ottanta/inizio Novanta. Il più esaustivo e meglio assemblato tra questi è forse uno degli ultimi a essere usciti, nel 2020. S’intitola Helvete, che in norvegese, sì, vuol dire inferno, ma in questo caso si riferisce piuttosto al leggendario negozio di dischi attorno al quale si dipana la storia tragica della band più famosa della scena norvegese, i Mayhem. È in lingua originale e diviso in tre episodi da poco meno di un’oretta ciascuno. Per fortuna ha i sottotitoli in inglese e lo si può trovare su YouTube in un unico mappazzone da 2 ore e 51 minuti.

Altri documentari sul tema sono decisamente più sensazionalistici e giocano sugli aspetti più scabrosi che si possano raccontare in merito. È il caso di Until The Light Takes Us del 2008. Qui, più che sul genere musicale in sé, la storia si concentra nel dettaglio sui fatti di cronaca nera che hanno reso noto ai più il nome dei Mayhem. Quindi prima il suicidio del cantante, Pelle “Dead” Ohlin che, nell’aprile del 1991, al culmine di una crisi depressiva, si taglia le vene e poi si punta un fucile a canne mozze alla tempia e preme il grilletto. E poi, tutto ciò di cui si rende protagonista dopo il chitarrista Euronymous.

Lui che arriva sulla scena del suicidio e prima di chiamare la polizia va a comprare una macchina fotografica per scattare l’iconica foto che diventerà la copertina del bootleg EP The Dawn Of The Black Hearts (i pezzi di cranio di Dead li userà poi come monili da distribuire ai membri più vicini alla scena black metal). Infine, a sua volta, la sua morte violenta due anni dopo per mano del bassista Varg “Burzum” Vikernes. Ventitré coltellate per una questione di soldi. Il tutto si conclude con Vikernes che si becca il massimo della pena nella legislazione norvegese, cioè 21 anni, anche per aver dato fuoco a un numero imprecisato di chiese lignee di epoca medievale tra il giugno ‘92 e il gennaio ‘93.

Il senso di questo articolo però non è di raccontare una storia che sanno già tutti o che, per chi ancora non la conoscesse, può essere approfondita guardando uno dei documentari citati. È vero, oggi è il 10 agosto e ricorrono i 31 anni dall’omicidio di una persona che sarà anche stata sul cazzo a molti dell’ambiente, perché aveva manie di protagonismo e tendeva anche a raccontare un sacco di frottole; non per questo però uno si merita di finire così, oltretutto anche per la sua vicinanza ideologica al comunismo. Vikernes infatti, tuttora un neonazista convinto, dopo l’omicidio del suo chitarrista aveva pianificato di far saltare in aria la Blitz House, un centro sociale occupato di Oslo. In casa del bassista, infatti, dopo l’arresto vengono trovati 150kg di esplosivo.

Dicevamo, il senso di questo articolo sta nel suo titolo. Ma il titolo nasce da una domanda. Ogni documentario sul black metal in circolazione cerca di prendere dalla propria angolazione il tema, andando a fondo su ciò che sembra rilevante ai registi. In alcuni si parte persino dai Sabbath per descrivere la nascita del genere, che poi si è estremizzata in band come Motörhead, Celtic Frost ma soprattutto i Venom, che di fatto coniano per primi il termine Black Metal con l’omonimo album del 1982. La famosa prima ondata.

Ebbene, com’è che in tutti queste decine di ore di interviste, testimonianze, ricostruzioni forensi ma soprattutto antropologiche su questa scena di adolescenti disadattati non emerge mai un nome, che è anche il fil rouge che collega praticamente tutto il sottobosco metal e rock dal dopoguerra a oggi? Raga, dov’è Tolkien?

Fatta eccezione per una brevissima menzione in Satan Rides The Media, documentario del ‘98 di una palla allucinante perché tre quarti del girato consistono in poliziotti norvegesi che parlano con toni paternalistici, come mai nessuno si è preso la briga di citare il fantasy e il suo padre moderno come una delle forze generatrici e trainanti del black metal? Esiste qualcosa di più black metal dei racconti del Professore?

Una quantità spaventosa di band black metal fa riferimento nei suoi testi o direttamente si chiama con parole prese dalle pagine del Signore degli Anelli, Lo Hobbit o i vari racconti della Terra di Mezzo come il Silmarillion. Esempio lampante che già molti conosceranno: Burzum in lingua nera morgul (quella parlata da Sauron, per capirci) significa proprio “oscurità” nella famosa iscrizione che appare a Frodo incisa sull’anello quando Gandalf lo getta nelle fiamme del caminetto. È quella la dimostrazione di ciò che lo stregone intuisce (a differenza del film, nel libro ci mette 17 anni): l’anello che permette a Bilbo di diventare invisibile in realtà è l’Unico anello forgiato dal Signore Oscuro per dominare tutti gli altri 19 anelli dati ai re nanici, elfici e umani (sì, i tre anelli elfici non subiscono l’effetto di quello di Sauron, lo so).

Non bastasse, prima che Vikernes mettesse in piedi il progetto solista Burzum si faceva chiamare Count Grishnackh, come il Grishnackh capitano degli orchi alla fortezza di Sauron a Mordor, Barad-dûr. E prima di Count Grishnackh, ovviamente la sua band da adolescente come poteva chiamarsi se non Uruk-hai?

Per non parlare dei Darkthrone, band fulcro della scena norvegese che con una trilogia leggendaria di album – A Blaze In The Northern Sky, Under A Funeral Moon e Transilvanian Hunger (rispettivamente 1992, ‘93 e ‘94) – ha imposto non solo standard sonori all’interno del genere, ma anche estetici, con copertine spaventose che ritraggono figure demoniache, truccate in faccia con il caratteristico corpse paint, in movimento mentre si aggirano nell’oscurità della notte artica come ghoul non morti. Ebbene, il nome stesso Darkthrone viene dal famoso passo «One [ring] for the Dark Lord on His Dark Throne». Dopodiché, tra i tanti side project solisti dello stesso batterista, Gylve “Fenriz” Nagell, che tutt’oggi rimane una delle figure più venerate nell’ambiente (anche grazie al fatto di essere uno dei maggiori esperti mondiali di metal in generale), spicca Isengard, una bellissima avventura in stile primi Black Sabbath.

E poi ancora i Gorgoroth, chiamati così in onore della catena montuosa distrutta e sommersa con la sconfitta del maestro di Sauron, Melkor (poi chiamato Morgoth), nella Prima Era. È lui l’unico Valar che, quando il padre degli Ainur, Eru Iluvatar, comincia a dare vita all’universo, suonando una musica celestiale insieme ai suoi “figli”, suona una musica dissonante, in totale contrasto con l’armonia dei suoi “fratelli” e “sorelle”. Capisci bene che per un black metallaro questo equivale a un invito a nozze, più che a un manifesto.

Si potrebbe continuare all’infinito citando, nel solo black metal, band tolkeniane come (in ordine alfabetico): Angmar, Barad Dûr, Carach Angren, Eternal Helcaraxe, Falls Of Rauros, Fangorn, Glaurung, Grond… Insomma, spero di aver reso l’idea senza dover arrivare alla zeta.

Che ci sia sempre stato un rapporto stretto tra l’autore e i metallari è confermato anche dalla collaborazione tra il compianto Sir Christopher Lee (Saruman, nella trilogia diretta da Peter Jackson) e i power metallari friulani Rhapsody Of Fire, che nel 2004 in un disco mezzo metal, mezzo orchestrale gli fanno recitare un testo in The Magic of the Wizard’s Dream con la sua già comprovata voce baritonale. Vuoi perché ci prende gusto, vuoi perché capisce di poter spennare un po’ di fagiani con i capelli lunghi e i pantaloni mimetici, Sir Christopher decide poi nel 2014 di pubblicare il suo primo e unico disco metal alla veneranda età di 90 anni compiuti.

Sir Lee in più è l’unico del cast del Signore degli Anelli ad aver conosciuto di persona il Professore, e si vantava di essere un esperto tolkeniano ben più dello stesso Peter Jackson, avendo riletto l’opera ogni anno dall’anno della sua prima pubblicazione, il 1954. Ricorrono proprio in queste settimane di agosto i 70 anni dalla prima pubblicazione de La Compagnia dell’Anello.

Ma, in fondo, perché i blackster sono così attratti dal mondo di Tolkien? I motivi sono tanti. Tanto per cominciare, l’immaginario (oggi va tanto di moda il termine inglese lore) epico su sfondo medievale è un bello strumento per i sognatori. Gloriose battaglie, potenti magie, valorosi guerrieri e mostri leggendari sono un validissimo antidoto al piattume grigio della società consumistica. Lo dice uno che fa il Dungeon Master da quando ha 18 anni e se non gioca alle carte Magic almeno una/due volte a settimana comincia a dare segni di squilibrio. Più il mondo là fuori fa schifo, più la finzione è una medicina. Durante la pandemia, quante volte abbiamo letto i nostri romanzi preferiti o guardato i nostri comfort film?

Di affascinante poi, nell’opera del Professore, c’è l’esaltazione della natura selvaggia, il fascino infuso da reami elfici dispersi nelle foreste, le vaste distese desolate di Mordor, dove esseri divini sotto spoglie mortali si aggirano in pericolose avventure. Gli scandinavi sono molto legati alle proprie foreste e alla tundra, tant’è che tre quarti delle interviste ai membri della scena sono nel bel mezzo di un bosco. Hai mai visto una copertina black metal che ritrae la foto di un incrocio? Solo gente nei boschi.

Tolkien da parte sua ha attinto a piene mani dalla mitologia norrena per creare un ciclo epico che nella cultura inglese non andava oltre a Camelot, Avalon e i cavalieri della Tavola Rotonda. I topoi sono quelli classici dell’epica, dalla questagli incontri casuali con personaggi unici. Ma è importante riconoscere che nel mondo tolkeniano la storia non ha il primato assoluto. Essendo filologo con una cattedra in lingua e letteratura inglese a Oxford, Tolkien ha sostanzialmente creato questo mondo per dare alla lingua elfica un ambiente per esistere. Proprio così: la Terra di Mezzo nasce in funzione della lingua, non viceversa.

È chiaro che, in una cultura come quella norvegese, i racconti del professore abbiano trovato terreno fertilissimo. In contrapposizione alla natura, poi, c’è una specie di avversione per macchine e tecnologia che in generale Tolkien esterna spesso nelle sue lettere.

Anche dal canto loro, i black metallari (o blackster) della prima ora ripudiano artifici e virtuosismi. Kjetil Manheim, batterista fondatore, nel documentario Pure Fucking Mayhem descrive così i primi vagiti della band: «Eravamo ragazzini che ascoltavano cose come i Motörhead, ma il modo in cui suonavamo era punk». In Until The Light Takes Us, Burzum, dal carcere, racconta come fosse fondamentale agli inizi scegliere l’amplificatore più merdoso e il pedale più schifoso, il tutto per suonare volutamente male. Una delle aberrazioni più estreme di metal nasce infatti come volutamente impossibile da ascoltare: chitarre distortissime e lontane, una caciara dissonante di percussioni e voci possedute, urla che sembrano provenire da anime dannate nell’oltretomba. Una musica fatta per repellere, come quella di Melkor.

In linea teorica, anche gli effetti al di fuori della distorsione delle chitarre vengono ripudiati in fase di registrazione. Il disco più famoso dei Mayhem, De Mysteriis Dom Sathanas, cioè quello dove suonano sia la vittima che il carnefice, è stato registrato sfruttando i riverberi naturali della Grieg Memorial Hall di Bergen, la città natale di Vikernes.

La semplicità immediata della natura arriva però in contrasto con una cura amanuense per le illustrazioni grafiche e degli stessi loghi delle band. J.R.R. in primis adorava illustrare di propria mano i suoi racconti. Quando la sua casa editrice, Allen and Unwin, glielo chiede per la prima volta, lui accoglie con reticenza la proposta. Ma dopo ci prende gusto e oggi ci sono pervenuti tantissimi disegni originali, da cui gli stessi illustratori di Peter Jackson, Alan Lee e John Howe hanno attinto a piene mani per creare le ambientazioni cinematografiche dei film.

Arrivati a questo punto: Tolkien che cosa penserebbe del black metal? Come minimo ascoltando gli Immortal si farebbe il segno della croce. Non solo era un uomo molto cristiano che solo all’idea del satanismo sarebbe rabbrividito. Ma aveva gusti musicali diametralmente opposti al rock. Dopotutto, era una persona nata nell’Ottocento. Il suo compositore preferito era Sibelius, forse il più importante della storia finlandese. La sua Lemminkäinen Suite s’ispirava al Kalevala, poema epico della tradizione finnica che il Professore adorava particolarmente.

Dopodiché, sempre tra i suoi preferiti troviamo Carl Maria Von Weber, Giuseppe Verdi, Gilbert & Sullivan, Wagner e Swann and Flanders, che oltretutto lo aiutarono a musicare diverse canzoni che Tolkien fa canticchiare ai suoi personaggi durante i lunghi cammini nella Terra di Mezzo, come The Road Goes Ever On.

Per il Professore, tutto ciò che era musicalmente contemporaneo, a partire dai Beatles in primis, era inascoltabile. Nella lettera 257 del 16 luglio 1964 descrive così il vicino di casa rockettaro: «In una casa a tre civici dalla mia vive un gruppo di giovani che stanno evidentemente cercando di diventare un gruppo Beatle. Nei giorni in cui fanno le prove il baccano è insopportabile».

Sarà anche per questo che, quando nel 1968 i Fab Four chiedono a Tolkien i diritti del Signore degli Anelli per girare un remake dove loro stessi interpretano i protagonisti, quest’ultimo li manda a cagare educatamente. Chissà come sarebbe stato: Paul McCartney e Ringo Starr nei panni di Frodo e Sam, Lennon che fa Gollum (lol) e George Harrison con addosso le vesti di Gandalf. Per la regia si pensava addirittura a Kubrick.

Da quel momento in poi, molte altre leggende del rock si limitano a citarlo semplicemente, sapendo bene che al vecchio J.R.R. del rock non frega una beneamata ceppa. Gli Zeppelin, in particolare nelle persone di Jimmy Page e Robert Plant, nei primi anni ‘70 si prendono una sbandata colossale per i racconti della Terra di Mezzo. The Battle Of Evermore, Misty Mountain Hop e Ramble On prove schiaccianti di questo amore fantasy. Plant arriva persino a chiamare il suo cane Strider, che è il nome con cui Aragorn viene chiamato tra i raminghi del Nord (in italiano lo tradurranno poi in Granpasso). E poi Sabbath, Pink Floyd e chi più ne ha più ne metta. La lista di fan è praticamente infinita.

C’è però un ultimo punto su cui vale la pena concludere questo pippone gigantesco fatto ad articolo, ovvero le travisatissime letture politiche che nei decenni sono state fatte di Tolkien. Nonostante lo scrittore si sia sempre dichiarato un nemico delle allegorie, partiti e pensatori ci hanno sempre ricamato sopra, traendo ognuno le conclusioni più comode. Bilbo prima, e Frodo dopo, come ogni adolescente incarnano la debolezza apparente e l’insicurezza di una creatura minuscola di fronte a un mondo minaccioso, che però poi contro ogni aspettativa di amici e nemici si rivelano antieroi insospettabili, vincenti. Dagli hippie dei campus americani, che per protesta contro un militarismo guerrafondaio di stampo mordoriano andavano in giro con la spilla “I’m with Frodo”, fino ai Campi Hobbit estivi organizzati (fino al 1981) dal Fronte della Gioventù (ovvero la sezione giovani dell’MSI), tutti hanno sempre cercato di fare propria la causa della valorosa Compagnia dell’Anello. Tutti tranne i black metallari.

Come Tolkien ha ripetuto strenuamente a chi cercava allegorie e significati nascosti nella sua opera prima, il Signore degli Anelli non parla d’altro se non «della vita e della morte, come del resto tutte le buone storie che sono state scritte nei secoli». Lui la morte l’aveva conosciuta da vicino e anche molto presto: prima quella del padre, poi della madre e infine quella di amici e commilitoni nella Grande Guerra (traumatica sarà per lui soprattutto l’esperienza della battaglia della Somme).

Parallelamente, l’ossessione per la morte nel black metal è stata la prima scintilla nella polveriera. Dead, il sopracitato cantante suicida dei Mayhem, da adolescente era stato picchiato a morte dai bulli a scuola, e dichiarato morto appena prima di essere rianimato miracolosamente, con la milza spappolata e diverse settimane di coma davanti a sé. L’esperienza di essere stato “dall’altra parte” lo perseguiterà fino all’ultimo dei suoi giorni (i suoi compagni di band raccontano di quando teneva carcasse di uccelli sotto al letto per poter respirare continuamente l’odore di morte). Folli che siano queste cose, perlomeno nel black metal nessuno ha cercato di dare connotazioni politiche alle forze del male. Erano semplicemente ragazzini accomunati dalla noia soffocante scandinava e in cerca di sensazioni ed esperienze estreme. Soprattutto, della più estrema di tutte: la fine della vita.

Sicuramente oggi il vecchio John Ronald Reuel sarebbe disgustato dalla natura armaiola votata del soldo di molti governi occidentali, compreso il nostro. La guerra, dopotutto, viene sostenuta solo da chi non la vive sulla propria pelle, tutti i giorni.

C’è questa bellissima intervista della BBC del 1968 in cui Tolkien, per riassumere l’intera essenza del Signore degli Anelli, cita un passaggio di Simone De Beauvoir: «Non esiste una morte naturale; di ciò che avviene all’Uomo, nulla è mai naturale, poiché la sua presenza mette in questione il mondo. Tutti gli uomini sono mortali: ma per ogni uomo la propria morte è un caso fortuito, e anche se la conosce e vi acconsente, una indebita violenza».

P.S. Esatto, Giorgia, per riassumere la sua opera più importante, Tolkien citava una scrittrice marxista e bisessuale.

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