Tina Turner non è stata solo la protagonista del ritorno sulle scene più clamoroso nella storia del pop. No, lei ha inventato l’idea stessa di comeback, diventando una superstar a 44 anni. È l’età che oggi hanno Brandy, Adam Levine o John Legend. Lei a 44 anni stava appena cominciando.
Nella voce di Turner, morta ieri a 83 anni d’età, era iscritta l’intera storia della musica americana. In molti sensi, lei era quella storia e molto di più. Era Anna Mae Bullock da Nutbush, Tennessee, figlia di mezzadri che cercava di farsi strada nel cosiddetto chitlin’ curcuit, i locali dove gli afroamericani potevano esibirsi ai tempi della segregazione razziale. Non era che una ragazzina quand’è diventata famosa nel duo Ike & Tina Turner. Nella voce di lei c’era l’America profonda. «Esprimevo emozioni vere perché le vivevo», scriveva pochi anni fa. «Vale anche per Private Dancer, che sembra una canzone sulla prostituzione e invece parla anche di desideri, di speranze, di sogni. Racconta la storia di donne come me, quelle che sono invischiate in brutte situazioni e in qualche modo riescono a uscirne».
A definirla è stata la hit del 1984 What’s Love Got to Do With It. Ci è talmente famigliare, oggi, che tendiamo a dimenticare l’effetto che fece all’epoca, quando passava in radio tra Madonna, Prince e Cyndi Lauper. A differenza di tutte le altre, lei non nascondeva la sua età. Aveva vissuto, e tanto. Era uscita da situazioni tremende che un giovane fan degli Smiths che si sentiva infelice manco poteva immaginare. O meglio, il pubblico non sapeva di preciso quel che lei aveva passato perché non aveva ancora raccontato al mondo la sua storia. E però, persino un ragazzino riusciva a sentire le sfumature di rabbia e di dolore nella sua voce. Sì, nonna era più tosta di te.
Negli anni ’60 era per così dire una one-woman genre: troppo rock per l’R&B, troppo R&B per il rock, troppo muscolare per certo pop, troppo grezza per le canzonette sentimentali. Le hit maggiori centrate con Ike Turner, tipo Proud Mary e Nutbush City Limits, in fondo parlavano della strada che aveva fatto. E pensare che quella giovinezza mai vissuta davvero non era che l’inizio. La vera Tina Turner è venuta fuori nel 1984 con Private Dancer, un blockbuster di nuova concezione in grado di trascendere ogni confine generazionale, razziale, musicale. È stata la prima nonna rock star. Tante altre si vantavano d’essere le regine del rock’n’roll, ma di regina dopo Private Dance ce n’era una sola.
E così s’è fatta negli anni ’80 tutto un nuovo pubblico che a stento conosceva la musica che aveva fatto con l’ex marito. Per loro, Tina Turner era un’artista contemporanea. Non che lei insistesse a ricordare il passato. «Per me il rhythm & blues è sempre stato un po’ deprimente», andava dicendo. Non sopportava che la stampa le appiccicasse addosso il ruolo di vittima. Non aveva tempo per quelle cose. Doveva spaccare.
Poi Turner ha raccontato la sua vita più e più volte nelle interviste, nei libri (da leggere My Love Story. L’autobiografia del 2019), nel musical Tina, nel biopic What’s Love Got to Do With It. Sono tutte storie incentrate sulla fuga dal marito che abusava di lei. Non va sottovalutata l’importanza culturale di questa narrazione. Oggi non ce ne rendiamo conto, ma Turner è stata la prima star a parlare apertamente di violenza domestica, a insistere su quella parte della sua vita senza infingimenti. Prima di lei, l’espressione “violenza domestica” non faceva parte della conversazione pop. Come disse Gloria Steinem nel 1984, «l’ammiro in quanto sopravvissuta. Aiuta che qualcuno di così famoso ne parli».
L’adorazione per Tina sarà pure diventata un’industria, ma non dobbiamo sottovalutare quel che fece e la forza che dovette trovare per tagliare i ponti col passato in un’epoca in cui non c’erano precedenti, non c’erano esempi da seguire. Non la si loda mai abbastanza per questo, ma lei non voleva essere ricordata solo per questo. Parte della sua grandezza sta nel rifiuto di essere considerata una vittima, non voleva essere quel tipo d’eroina.
Se c’è qualcuno che ha riassunto in sé la storia del rock, quella è Tina Turner. Tre mesi dopo Abbey Road già cantava una versione feroce di Come Together mettendoci più sesso e paura di quel che l’autore John Lennon poteva immaginare. Molti anni e parecchie vite dopo – siamo nel 1986 – eccola sul palco a cantare Get Back con Paul McCartney. Per lui è la prima volta dopo il concerto sulla terrazza della Apple. È un evento benefico con un sacco di star tipo Elton John, Eric Clapton, Mark Knopfler. E sì, alla batteria c’è ovviamente Phil Collins. Tina canta il verso su Sweet Loretta, la ragazza americana che scappa di casa per non tornarci più. È l’unica artista di colore su quel palco, l’unica americana, l’unica donna. È stata Loretta prima ancora che Paul scrivesse Get Back. E insomma, il pezzo va avanti, ma dopo Tina nessuno se la sente di andare al microfono. Ha azzittito il gruppo meno azzittibile di star del pianeta. È lei l’adulta sul palco, le rock star sono bambini.
È il gennaio 1975. Ann-Margret introduce nel suo varietà televisivo Turner come la sua migliore amica. Duettano su Nutbush City Limits, in pratica la vita di Tina fatta canzone, e poi sull’ode dei Rolling Stones alle regine di Memphis Honky Tonk Women e su Proud Mary.
È mai esistito un duetto più americano di questo? Da una parte Ann-Margret, cantante e ballerina svedese, bomba hollywoodiana che s’agitava a fianco di Elvis in Viva Las Vegas. Dall’altra Tina Turner, figlia d’un mezzadro di Nutbush. Avevano legato recitando in Tommy, ora cantano di solcare il Mississippi a bordo di un battello a vapore. Non è un mondo che conoscono. Non che lo conoscesse l’autore della canzone, un tizio bianco della periferia di El Cerrito chiamato John Fogerty. Il pezzo, insomma, è una fantasia, ma tutti e tre hanno fatto un bel viaggio per arrivarci e il Mississippi di cui cantano è il fiume che li ha portati lontani da dove provengono. «Tu su un battello a vapore?», chiede Ann-Margret. «Non ce ne sono da 75 anni!». Tina ride: «Li porto bene i miei 80 anni!».
Aveva già avuto successo con Proud Mary, ma in quel 1975 non poteva immaginare che cosa avrebbe significato quella canzone per lei negli anni a venire. La trasformerà in un inno femminista, la rappresentazione musicale delle indicibili (e non dette) violenze che si era messa alle spalle, ma anche della determinazione di prendere in mano la propria vita. Nel ’75 è ancora intrappolata nel matrimonio con Ike che lascerà nel giro di un anno, guarda caso il 4 luglio. Non aveva nulla, se non 36 centesimi di dollaro, una carta di credito, un vestito macchiato di sangue. È Ann-Margret a metterla in contatto con lo stilista Bob Mackie e con un avvocato divorzista.
E ora eccole in tv, a cantare in un teatro di posa londinese. Non riescono a smettere di ridere: due donne che condividono una battuta molto privata in un luogo pubblico. E la grande ruota continua a girare.
Dopo essersi messa alle spalle Ike, Tina viene emarginata dal mondo della musica. È una donna nera di quarant’anni ed è il periodo del circuito oldies. Scopre però che negli anni ’80 c’è una generazione di ragazzi cresciuti con la new wave che la adora. Succede quando nel 1982 duetta con Martyn Ware e Ian Craig Marsh degli Heaven 17 nel loro progetto B.E.F., British Electric Foundation. È scioccata dal fatto che quei ragazzi non la vedono come un’artista finita, ma come una leggenda vivente e rilevante nel fiore degli anni. Lo scrive in My Love Story: «Martyn, che non era che un ragazzo seppur di talento, pensava che questa cantante di mezza età avesse un futuro brillante di fronte a sé».
Tina canta con loro Ball of Confusion, in una sola take. Non s’aspetta che venga rilanciata da un nuovo canale della tv via cavo chiamato MTV che trasmette video di rocker di colore che le radio non passano, tipo Prince, Grace Jones o Joan Armatrading. Diventa una star di MTV, anche se le radio continuano a ignorarla. E lei piazza una hit ancora più grande, un remake di Let’s Stay Together di Al Green con Ware.
È la canzone che la porta alla sera che le cambia la vita. Siamo a New York, è il gennaio del 1983. David Bowie è a cena coi suoi discografici poco prima del lancio di Let’s Dance. Li informa che ha un impegno: vuole andare a vedere Tina Turner dal vivo. Di perderla non se ne parla proprio e allora li porta tutti con sé. Il manager della cantante, Roger Davies, riceve una chiamata: ci sono 63 nomi da aggiungere alla guest list. «Il mio momento Cenerentola», scrive Turner nel libro. «Quella sera al Ritz è stata per me l’equivalente del gran ballo (al netto del Principe Azzurro) perché m’ha cambiato la vita».
I fan si stupiscono nel vedere quanto bene si muova nel mondo del classic rock, anche se ci aggiunge pezzi contemporanei come Legs (sì, le aveva) e Addicted to Love (no, non lo era). Finisce al Live Aid, a duettare con Mick Jagger su It’s Only Rock & Roll But I Like It.
In realtà, non era indietro, ma avanti sui tempi. L’idea stessa di classic rock non esisteva. La cultura rock era impantanata nel mito della giovinezza e la sua presenza rétro era qualcosa di nuovo. È una sua innovazione ed è spesso sottovalutata: la nonna afroamericana che inventa il dad rock.
La recensione di Debby Miller di Private Dancer su Rolling Stone è una delle più influenti nella storia di questa giornale. Inventa di fatto la narrazione del grande ritorno di Tina Turner che sarebbe stata adottata in tutto il mondo. La chiusura: «L’anno scorso l’ho sentita cantare in tv quella brutta canzone di Terry Jacks, Season in the Sun. Ci ha tirato fuori qualcosa che m’ha colpita nel profondo. Ora, immaginatela alle prese con canzoni davvero buone».
L’amicizia con David Bowie è una delle più belle fra rockstar. Riuscivano a tirare fuori la parte strana l’uno dall’altra. Hanno duettato su un bizzarro spot della Pepsi, uno dei panni del Dottor Frankenstein, l’altro in quelli della sua creatura da laboratorio, una dea rock. Hanno unito le voci anche su una versione stranamente toccante di Tonight, un pezzo synth-reggae su due amanti separati dalla morte, intonando parole come “ti amerò fino alla morte, ti vedrò nel cielo, stanotte”.
Ha trovato casa infine a Zurigo ed è diventata cittadina svizzera. In un certo senso, la sua storia ricorda quella di Leonard Cohen, buddista come lei. Entrambi nati negli anni ’30 del Novecento, sono esplosi negli anni ’80 diventando icone di coolness di mezza età, dopo essere stati una vita in giro. Sono stato l’esempio di come invecchiare con grazia, ostentando e non nascondendo l’età che veniva fuori dalla crepe delle loro voci, vivendo le loro lunghe e strane vite nella tower of song.
Quando la sua vita è diventata il film con Angela Bassett What’s Love Got to Do With It le ha rubato la scena nel finale con Proud Mary. Ma non riusciva a vedere il film. Lo scrisse su Rolling: «Non l’ho visto perché quei ricordi dolorosi erano troppo recenti. Temevo risultasse sconvolgente, come un documentario». Si era opposta inizialmente all’idea del musical di Broadway del 2019 Tina per lo stesso motivo, per non tornare a fare incubi. Ma alla fine aveva amato vederlo mischiata col pubblico. Diceva: «Desidero passare il testimone a loro e a chiunque si trovi ad affrontare una sfida, voglio che lascino il teatro convinti di potercela fare».
In fondo, è quel che ha fatto per tutta la vita. Ecco perché la voce di Tina Turner non si spegnerà mai. È lei la ruota che continua a girare, per sempre.
Da Rolling Stone US.