In questi pochi giorni dall’uscita, Tranquility Base Hotel & Casino è stato considerato principalmente come il disco in cui gli Arctic Monkeys hanno abbandonato le chitarre e mi tocca sganciare subito una notizia incredibile in esclusiva: la chitarra è presente in tutte e undici le tracce!
Al di là delle provocazioni, chiaramente le sei corde hanno assunto un ruolo secondario – ma comunque fondamentale per la struttura di ogni pezzo – e differente rispetto agli standard ai quali siamo stati abituati in passato: nessun riff ossessivo che serpeggia per un intero brano, praticamente zero assoli, overdrive tenuti a bada, pochissimo ritmo e, per carità, anche a me tutto questo manca molto. Ma ha senso giudicare un album per quello che non è? E soprattutto, siamo sicuri che sia un passo così tanto azzardato e fuori luogo per una band come gli Arctic Monkeys?
«Volevo solo essere uno degli Strokes e invece guarda che casino che mi hai fatto fare» è il verso con cui si apre l’album e con cui Alex Turner compie un doppio gesto: per prima cosa consegna definitivamente l’indie rock anni zero agli archivi e alla nostalgia, anche perché sono passati quasi vent’anni, sebbene facciamo tutti fatica a rendercene conto e ad ammetterlo, quello è un capitolo chiuso, peraltro, già da un pezzo. In secondo luogo ha finalmente ucciso i suoi idoli e ha iniziato il suo personale viaggio (un po’ kubrick-retrofuturista, un po’ hoolywood decaduta), grazie al quale, probabilmente, ricorderemo gli Arctic Monkeys molto più a lungo degli Strokes o di qualsiasi altra band appartenente a quella scena.
L’ironia e la lucidità con cui Turner ha disseminato segnali in questa direzione lungo tutto il disco, valorizzano un lavoro che in ogni caso è da considerare maturo e consapevole. Sul tavolo ci sono una rinnovata sensualità, una scrittura sprezzante e spesso vanitosa (ma ehi stiamo parlando di rock’n’roll, no?), un dialogo diretto con le dinamiche del successo, con il rapporto tra umanità e tecnologia (e social network in particolare).
Di sicuro la vita a Los Angeles di Alex è lontana anni luce da quella dei sobborghi di High Green, anche la sua estetica si è definitivamente evoluta: niente più faccia da sbarbatello della working class con la adidas zozze, ora sembra un manichino di Zara seduto su una poltrona di pelle di coccodrillo con un Martini in mano, ma tutto sommato mantiene la sua efficacia e una certa credibilità, non ci vedo affettazione, anche perché non ha più diciannove anni. In tal senso assume un valore ulteriore tutto l’immaginario legato al pianoforte: a quanto pare uno Steinway ricevuto in regalo per i suoi trent’anni, suonato in grande solitudine in lunghe sedute casalinghe a Los Angeles.
È davvero incalcolabile il caos e la quantità di idee che generano a un chitarrista il passaggio alla composizione col pianoforte, soprattutto in un periodo di poca ispirazione, come ha dichiarato lo stesso Turner. Il che è piuttosto legittimo, considerando l’intensità con cui ha sviscerato tutto ciò che una Stratocaster gli tirasse fuori dalle mani e dalla testa in questi anni. Meglio un disco poco ispirato e ripetitivo, o qualcosa di completamente diverso e nuovo? Fermo restando che Tranquility base Hotel & Casino non è il prodotto di un pazzo fuori di testa che a un certo punto si è messo a fare noise sperimentale con i tappetoni spaziali o musica da camera.
I riferimenti, oltre a essere autorevoli, sono anche affini: ci sono tantissimi Timber Timbre innanzitutto, un po’ sullo sfondo, assieme ovviamente a tutta una serie di riferimenti pop soul e lounge di matrice americana. Ma poi c’è anche tanta coolness british. Ci sono i Wings di McCartney e tantissimo Lennon (The Ultracheese è praticamente un tributo) c’è l’ultimo e eccellente Bowie, insieme agli ultimi ed eccellenti Blur, anche per questo pezzi come l’omonima Tranquility Base Hotel & Casino, American Sports e la pazzesca Four Out Of Five non hanno nulla da invidiare ai pezzi storici della band, certo sono una cosa diversa, ma siamo tutti diversi da quelli del 2006.
Il fatto che gli Arctic Monkeys non abbiano deciso di ripiegare, lentamente, su se stessi è un grande regalo per i propri fan. Hanno ampliato il proprio repertorio, si sono aperti nuove strade per il futuro e hanno guadagnato tantissimo in longevità, come tutte le grandi band. Questo era un passaggio fondamentale per la band dall’esordio più rilevante e travolgente dello scorso decennio e probabilmente ce ne accorgeremo fra qualche anno, quando non ricorderemo più niente degli anni zero ma ascolteremo ancora gli Arctic Monkeys.