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Non si va a un concerto degli Oasis per nostalgia

Credete che le persone che intaseranno i server cercando di comprare un biglietto per il tour 2025 siano tutte retromaniache? No, le grandi reunion hanno a che fare con la storicizzazione, col pubblico che si rinnova, con la riscoperta di repertori fuori dal tempo. Un pezzo contro la retorica della nostalgia

Foto: Dave Hogan/Getty Images

C’è una lagnanza che leggo spesso quando una band internazionale viene in Italia e fa il pienone. Arrivano i video e le foto di decine di migliaia di persone in festa e c’è sempre un over qualcosa che dice: essì, ma dov’eravate tutti quanti trent’anni fa quando li ho visti in quel localetto di provincia? C’è una verità dietro all’elitismo dei fan-prima-di-te che vorrebbero tenersi certi gruppi tutti per loro, come certi capifamiglia degli anni ’40 del Novecento che chiudevano le mogli in casa per gelosia. La verità è questa qua: molte band che consideriamo importanti per la storia del rock hanno un seguito maggiore oggi che nel momento in cui la facevano, quella storia.

È naturale, la popolarità di certi gruppi cresce nel corso del tempo. Succede anche se restano fermi per anni. Anzi, spesso succede anche grazie al fatto che restano fermi, giacché la domanda è alta e l’offerta scarsa, e non ci sono troppi dischi mediocri che ne rovinano lo status. E poi i gusti cambiano. La gente desidera oggi quel che non voleva ieri e così, per fare un esempio, a vedere gli AC/DC nel 2024 ci va anche chi nel 1980 li considerava inascoltabili o persino sconvenienti. Col tempo certa musica diventa patrimonio di tutti e non più di una sola tribù. Cosa ancora più rilevante, i pubblici si rinnovano, s’allargano, ringiovaniscono, trasformano i concerti in esperienze intergenerazionali. Nella prima parte della storia di queste band i club diventano palazzetti. Nella seconda parte o in caso di reunion di successo i palazzetti diventano ippodromi e stadi.

Quando però arriva una grande reunion come quella degli Oasis ci si scorda di questa verità elementare e scatta il riflesso condizionato che porta a ricondurre tutto alla nostalgia, nel caso degli Oasis quella provata da millennial e generazione X per la loro gioventù favolosa (come no). E invece il grande motore di operazioni gigantesche come questa, reunion che spingono centinaia di migliaia di persone, a volte milioni a cercare di comprare un biglietto, non è il gruppo d’una volta, che non esiste più se non nel nome essendo stato come ogni gruppo figlio del suo tempo. È quello che è diventato nel frattempo nell’immaginario grazie al passare degli anni, alla sedimentazione dei gusti, al processo di mitizzazione, alla storicizzazione. Rimettete il parka nell’armadio, i tempi sono cambiati, questa reunion non è fatta solo per voi over qualcosa.

Possiamo quindi lasciare da parte per una volta la retromania e le considerazioni sui ragazzoni cresciuti che vogliono rivivere le emozioni della loro felice giovinezza e il mito di Cool Britannia? Non si vanno a vedere i Gallagher per nostalgia. O meglio, qualcuno ci andrà mosso da nostalgia, ma non si va e non si dovrebbe andare solo per questo. Si va perché non li si è mai visti prima. Si va perché non li si è capiti all’epoca e adesso invece sì. Si va perché si era troppo giovani per averli vissuti. Si va per capire se ce la fanno. Si va perché è un evento. Si va perché sono diventati un esempio imbarazzante per alcuni ed eccitante per altri di bulli dotati di senso dell’umorismo, sopra le righe in modo quasi teatrale, dei tipi rock’n’roll insomma in un tempo in cui la comunicazione è stata (chiedo scusa per la parola inventata) derockandrollizzata e tende alla perfezione asettica che non offende nessuno. I due invece all’occorrenza sanno offendere tutti, loro inclusi. E quindi c’è un nuovo pubblico che preme e che fa ringiovanire la platea, un pubblico che dà nuova forza alla band e la costringe in qualche modo a confrontarsi col presente.

È sempre stato così, cambiano solo le generazioni e le band. Credete che i ventenni che andavano a vedere i Pink Floyd negli anni ’90 lo facessero per rivivere i ’70? Lo facevano perché, Waters o non Waters, era un’occasione rara di assistere al concerto d’un gruppo leggendario con un repertorio fenomenale che nel frattempo era stato storicizzato. Lo facevano perché quella musica aveva significati rilevanti anche per loro che manco erano nati quando i Pink Floyd pubblicavano i primi dischi. I reduci c’erano, ma non erano maggioranza. I 20 milioni di cristiani che nel 2007 hanno cercato di comprare un biglietto per vedere i Led Zeppelin a Londra non volevano riassaporare la loro giovinezza, ma quando mai. Era gente che voleva vivere un’esperienza lì, nel presente, davanti a Jimmy Page, Robert Plant e John Paul Jones più o meno sessantenni.

Pare invece che non si possa fare a meno di questa maledetta parola, nostalgia. È messa al centro del discorso, che lo si consideri un fatto reazionario («vecchi che vanno a vedere vecchi che fanno musica vecchia») o una manifestazione di superiorità generazionale («che ne sanno i 2000» e altre idiozie del genere). La nostalgia c’è, eccome, e ha un suo mercato. Ma quand’è solo nostalgia dà origine a tour tristi e mediocri, a rimpatriate che si consumano di fronte a poche persone. La nostalgia non riesce ad alimentare grandi feste popolari come quelle che aspettano gli Oasis, se beninteso andrà tutto bene e se non si scanneranno prima. La nostalgia non muove milioni di persone. Che tu fossi o meno giovane nei ’90, puoi provare un desiderio acuto di tornare a un passato che hai o non hai vissuto guardando i video di Liam e Noel ventenni o trentenni, non vedendo degli ultracinquantenni che nel frattempo si sono sposati e divorziati, che bevono meno (pare) e non hanno smesso di sparare cazzate, che pur non essendo più dei mezzi hooligan della working class continuano a sputare massime contro conformismi e ipocrisie.

Non vai a vedere gli Oasis nel 2025 per ritrovare quelli del 1995. Ci vai per vedere quei due oggi, come interagiscono fra di loro, come se la passano, se e come sono calati nel presente. Ci vai per capire che postura assumono loro, re assoluti del me ne fotto, in questo strano tempo. Ci vai per illuderti che il rock’n’roll può essere ancora una via d’uscita da una vita di merda. Ci vai perché sai che oltre le pose e le cazzate c’è qualcosa di autentico. Ci vai per sentire canzoni, e loro qualcuna ce l’hanno, che non sono di allora e non sono di adesso, perché sono senza tempo.

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