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‘Not Like Us’ di Kendrick Lamar è diventata la colonna sonora della protesta in Kenya

Il rapper keniano Sabi Wu ha campionato il diss dell’americano. Il suo obiettivo non è un altro artista, ma il governo e le sue politiche fiscali. Ha funzionato

Foto: Luis Tato/AFP/Getty Images

Come molti altri Paesi africani usciti dal processo di decolonizzazione, il Kenya ha faticato a trovare un equilibrio dopo l’indipendenza dalla Gran Bretagna proclamata nel 1962. Un’élite di keniani ricchi e influenti ha preso il posto dei colonizzatori. Per mantenere il potere ha fatto leva sui legami con le potenze occidentali e sugli effetti dannosi del colonialismo. Dal loro punto di vista ha funzionato e in Kenya non c’è stato ancora presidente che non sia collegato a questa élite, ma è stato un processo tutt’altro che pacifico. I disordini si moltiplicano mentre il divario tra governanti e popolazione s’allarga. La situazione è diventata intollerabile, la generazione Z ne ha abbastanza.

A giugno ha cominciato a girare l’hashtag #RejectFinanceBill2024 per manifestare il dissenso contro la legge finanziaria del 2024 che prevedeva l’aumento di tasse su un numero impressionante di beni di uso quotidiano, dal pane agli assorbenti. Non era mai successo prima che gli attivisti keniani riuscissero ad attirare l’attenzione a livello sia nazionale che internazionale, oltre a dare vita a una canzone di protesta virale che campiona Not Like Us di Kendrick Lamar.

Intitolato Reject Hio Bill e cantato dal rapper keniano Sai Wu, il pezzo è diventato l’inno del cambiamento. «Rappresenta le idee dei giovani keniani come me che vivono in condizioni economiche precarie», spiega Wu via e-mail. «Ci hanno sempre ignorati, noi della generazione Z, ma con queste grandi manifestazioni abbiamo dimostrato di avere voce in capitolo».

Per Wu, «la natura combattiva e accusatoria» di Not Like Us è la base perfetta per rappresentare i sentimenti dei giovani keniani nei confronti del governo. «Il ritornello e il primo verso l’ho messo giù in freestyle in meno di un quarto d’ora e li ho pubblicati sui social senza aspettarmi granché. Ho pubblicato la canzone quando ho visto che la gente ci si riconosceva». Reject Hio Bill è stata usata da migliaia di persone nei post sulle proteste o in quelli postati direttamente dalle manifestazioni.

Le proteste sono iniziate alcune settimane fa quando i giovani keniani, indignati dalla legge finanziaria e già in difficoltà a causa del deterioramento dell’economia dopo la pandemia, hanno marciato verso il business district di Nairobi per un maandamano (che in swahili significa protesta), mentre il presidente William Ruto e i parlamentari si preparavano a votare il disegno di legge.

Le proteste sono state inizialmente pacifiche, ma col tempo le tensioni sono aumentate. I partecipanti sono aumentati di numero e hanno subito violente rappresaglie da parte della polizia. I manifestanti hanno superato i blocchi e hanno preso d’assalto il parlamento, qualcosa di simile a quanto avvenuto il 6 gennaio 2021 negli Stati Uniti. Secondo la Commissione per i diritti umani del Kenya 39 persone sono state uccise e centinaia sono state ferite o gasate dai lacrimogeni. Tra di esse, Auma Obama, sorella dell’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama.

«Onestamente, è stato da paura», scrive in un’e-mail Ezra Ruto, che ha partecipato alle manifestazioni. «La polizia ci ha sparato addosso gas lacrimogeni e proiettili di gomma solo perché stavamo esercitando un diritto sancito dalla Costituzione».

Accompagnati dalla colonna sonora di Reject Hio Bill, alla fine i manifestanti hanno avuto la meglio. Lo scorso 27 giugno il presidente Ruto ha annunciato che non avrebbe firmato la legge. Una vittoria straordinaria, ma per i giovani keniani la lotta non è finita. Dopo tanti morti e a fronte dei limiti della democrazia keniana, la gen Z ora vuole un nuovo presidente. Continuerà a battagliare finché il governo non ne comprenderà necessità e ideali.

«In Kenya la politica è tribale, da sempre», spiega Wu. «Noi giovani abbiamo scelto di restare uniti fuori dalle linee tribali. E questo ci dà potere. È una cosa per la gente e dalla gente. È da qui che viene il cambiamento, quello vero, e ha dato il via a una nuova era della politica keniana».

Secondo Tom Osborn, CEO dello Shamiri Institute, organizzazione non-profit che mira a rendere accessibile la cura della salute mentale in Kenya e in Africa, se la politica vuole cambiare deve imparare a incorporare i bisogni delle fasce di popolazione più giovane e riconoscerne gli sforzi dopo anni di disinteresse.

«Tanti giovani keniani sentono di non avere avuto alcuna possibilità di realizzarsi», dice Osborn, che raccomanda investimenti, accesso a opportunità educative e professionali in base al merito, politiche per affrontare la crisi della salute mentale. Sono tutti passi necessari, dice, per colmare il divario che divide governo e popolazione giovanile.

«Il riconoscimento e la validazione delle sue lotte è fondamentale per la gen Z. Non si tratta solo di risolvere i problemi, ma anche di riconoscere ed empatizzare con le difficoltà che affrontano. Se non lo si fa, il senso di alienazione finirà per aumentare».

“Na ni ndo tunavote, na ni si tunachagua”, rappa Wu. Cosa vuol dire? «Siamo quelli che scelgono, siamo quelli che votano».

Da Rolling Stone US.

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