È triste quando muore un amico. Certo nessuno ha mai conosciuto di persona Nico Gamma, ovvero Gianluca Galliani, se non di sfuggita, per caso, per qualche presentazione o in qualche backstage nei ricordi del tempo. Ma è facile collegare il suo nome a quello mitico dei Gaznevada, una delle triadi emiliane fine anni Settanta con Skiantos e Confusional Quartet. E anche se da diversi anni Galliani aveva abbandonato le luci della ribalta, il minimo che possiamo fare è omaggiarlo nello spirito con qualche riga.
Se guardate bene, la situazione non è cambiata poi molto. Saranno cambiati i gusti e i supporti, non ci si imbarcherà più per le vie tortuose di astuti mixtape in musicassetta ma si delegherà a Spotify una playlist quanto più ruffiana possibile, ma il fine ultimo sarà sempre quello di accedere al luogo più intimo di qualche leggiadra donzella – che sia la mente, la cameretta o le mutande, lo lascio alla sensibilità di ciascuno. La dedica di una o più canzoni è di per sé il primo capitolo di ogni manuale di seduzione e di conoscenza personale. È un affare soprattutto dell’universo maschile ma, vi posso assicurare, non solo e, a seconda del grado di empatia o di furberia, passando per quella che poi è la cultura personale di ognuno, copre un raggio d’azione che può andare da Eros Ramazzotti ai Dead Kennedys. In pratica: qualunque cosa. Motivo per cui è consigliata e consigliabile la sincerità: se il vostro amore fa rima con post-hardcore, tanto vale agire di conseguenza e vedere come va a finire. Parafrasando, se vi ama, capirà cosa state cercando di dirle più sotto una coltre di feedback che con un testo dei Verdena – cosa tra l’altro assai probabile. Scendere a compromessi musicali fin da subito è eticamente una scelta sbagliata di cui potreste pentirvene per il resto dei vostri giorni di amorosa letizia. Immaginate: come potrebbe finire la vostra vita coniugale passando per fini conoscitori delle paturnie adolescenziali di Calcutta, quando in testa vi ronzano ancora le note dei Gaznevada?
Per tutti gli anni Ottanta, la cultura di massa italiana (ma non solo) ha messo in scena la levigatezza dei corpi e la loro seducente armonia. Tra body building e aerobic dance, il cinema ha celebrato in tutto l’omologazione dei muscoli e l’appiattimento dei canoni fisici su un modello “estetico” quanto mai prescrittivo, fatto per lo più di lampade al quarzo, abluzioni deodoranti, ossigenazioni capillari, trattamenti anticellulite e raggi UVA. La musica, almeno per come è passata alla storia, si è mossa di conseguenza a suon di Sandy Marton e tanta altra gente pronta per Ibiza. Come Belinda Carlisle: dopo un passato da batterista col nome di Dottie Danger nei punk Germs, ha riplasmato il suo corpo ottenendo fama e notorietà, prima con le The Go-Go’s e poi da solista. Certo, anche in Italia qualche guastatore si è rifiutato di stare alle regole, ha provato a uscire dai ranghi con sberleffi provocatori e non allineati. È il caso per esempio dei CCCP o dei Disciplinatha, così come della scena hardcore di quegli anni. Teneri e graffianti cantori di modelli “corporei” alternativi, se così possiamo dire, al netto dei vari Miguel Bosé e Raffaele Riefoli in giro. Ma si è trattato, per l’appunto, di casi isolati, non sempre coerenti con sé stessi e, comunque, tutti figli di una cassetta co-prodotta nel settembre 1977 in occasione del Convegno sulla Repressione in quel di Bologna (da Radio Alice, Sarabanda, Humty Dumpty e Fonoprint). La cassetta conteneva Mamma Dammi la Benza e il gruppo che la suonava era proprio il (futuro) collettivo Gaznevada che ronza nella testa dell’affezionato vostro.
Con un nome ispirato al racconto Nevada Gas di Raymond Chandler, più che figli delle stelle, come la canzone in cima alle classifiche di quell’anno, Alessandro Raffini (Billy Blade), Giorgio Lavagna (Andrew Nevada), Gianluca Galliani (Nico Gamma), Gianpietro Huber (Johnny Tramonta), Marco Dondini (Bat Matic) e Ciro Pagano (Robert Squibb) erano figli di quel contro-movimento dentro al Movimento che fu la Factory denominata Traumfabrik. Una sorta di spin-off del Centro d’Urlo, che aveva preso il nome da una idea del fumettista Filippo Scòzzari, aveva come sede una casa occupata di Via Clavature e fu humus delle più belle esperienze visuali e musicali dei successivi dieci anni. I Gaznevada erano il seme di quella Bologna che mentre la mamma sfoglia Marie Claire i figli hanno in mente di fondare Frigidaire e mentre il babbo sente le notizie del telegiornale i figli preferiscono leggerle su Il Male.“In definitiva, la musica dei Gaznevada si fonda su un’equazione semplicissima: la nostra musica è quello che siamo, noi siamo la nostra musica”, nella calzante sintesi di Gamma. Così decisero che in quel plumbeo periodo storico la narrativa “hardboiled” avesse un appeal ben maggiore di quella beat degli indiani metropolitani e che i Ramones ci stessero dentro più degli hippy. Tanto da promuoverli in un happening di tre giorni dal titolo Gaznevada plays Ramones.
Così i Gaznevada si presentano al mondo come un piccolo film indipendente. Una rappresentazione politica della musica, della violenza, del sesso e della vita di strada che non sarebbe sfigurato, anni dopo, con la regia di Harmony Korine. E le loro canzoni taglienti, torve, torbide e allo stesso tempo ipnotiche, a dispetto dei limiti tecnici e della scarsa praticità con i mezzi in materia di registrazione, vantano una creatività, un’autorevolezza e un carisma dei quali ancor oggi, ben quarant’anni dopo, ci si trova a strabuzzare gli occhi. Segnano un’inversione di tendenza proprio nel cuore della cultura musicale di quegli anni: la cassetta Gaznevada del 1979 e soprattutto Sick Soundtrack. uscito l’anno dopo, entrambi editi per la Harpo’s Bazar di Red Ronnie (prima che perdesse la bussola) e Oderso Rubini, ovvero una delle etichette simbolo del DIY italiano di fine Settanta, restano oggi due titoli attuali e imprescindibili.
Il secondo è anche presente nella classifica del 2012 dei 100 dischi italiani più belli di sempre secondo Rolling Stone, alla posizione #42. Anche se “Come per tutti i cult che si rispettino – precisava Galliani nel 2009 alla presentazione del box Mamma Dammi la Benza di cui curò il libretto interno – questi sono necessariamente estremi, marginali e underground”. Ma nel caso dei Gaznevada posseggono, evidentemente, un’energia vitale (Going Underground, con il suo sax che sarebbe piaciuto ai Devo e a James Chance dei Contortions) e una figuratività energica (Nevadagaz, con il suo climax da guerra fredda) che non possono non lasciar segni e scosse e danni anche sull’uditore di musica ufficiale e beneducata, quella che si ascolta alla luce del giorno e che ben rispetta i canoni di gusto del bon ton imperante. “Cioè, ordine proprio zero – diceva a suo tempo Marco Nevada – dai vestiti, alla mia camera, a quando esco e con gli orari, dormire il giorno perché la notte è più vivibile” e Nico Gamma ancora prima: “Gaznevada è un progetto concettuale più che musicale, anzi solo marginalmente si può dire musicale” e ancora prima da Andrew Nevada: “Non sento l’esigenza che nella forma ci sia qualcosa di popolareggiante, e tutti gli sforzi per rifuggire la banalità mi ossessionano continuamente”. In sintesi, i Gaznevada sostituiscono alla levigatezza dei corpi la loro distruzione (l’epilettica Now I Want To Kill You o la surreale Mamma Dammi la Benza già citata più volte). Riscrivono la realtà, inscenando una delle più visionarie teratologie del reale, sociale (Pordnenone UFO Attack) quanto individuale (Roipnol), mai realizzate alle nostre latitudini o comunque assai raramente – da giovani temerari con più voglia di comunicare che di apparire.
Tanti riconoscimenti sinceri, pochi dischi venduti, il gruppo si sfalda al vertice della creatività in seno all’ego smisurato di alcuni suoi componenti. Andy, Nico e Johnny, ovvero i tre elementi più destabilizzanti a livello sonoro, l’ala oltranzista della band rimangono per poco legati con la sigla Gaznevada e, di conseguenza, poi tutto finisce. Seguiranno un paio di singoli (di cui spicca Dressed To Kill, l’ultimo con Andy Nevada, prima che abbandonasse per dedicarsi al progetto Stupid Set) e altri tre dischi, più (Psicopatico Party), meno (Back To The Jungle) o affatto (Strange Life) sulla stessa lunghezza d’onda, i contratti con la EMI, le partecipazioni al Festivalbar, le interviste con Pippo Baudo in cui si parla più di capelli che di musica e session fotografiche sempre più colorate e “divertenti” con il passare degli anni e delle quali i membri fondatori hanno sempre parlato con mal celato imbarazzo – per gli altri, mica per loro.
Ogni tanto io un pezzo dei Gaznevada però continuo a infilarlo lo stesso in una playlist o in una compilation. Ovviamente. Un po’ di Gaz ci sta sempre. Ci fu una prima volta, in cui dubitai che potesse essere una genialata. Poi, però, cercai di concentrarmi per qualche minuto sull’idea. Valutando i pro e i contro. E decisi che sarebbe stato un vero peccato privare una futura storia di una colonna sonora simile. Così mi è venuto da sorridere, e ho premuto contemporaneamente i tasti di REC e PLAY del mio stereo: “Mamma dammi la benza! Non posso fare più senza! Ne sento già la mancanza! Esiste la dipendenza!”.