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Oggi ‘Colpa d’Alfredo’ di Vasco Rossi sarebbe un pezzo trap

Nel 1980 il rocker che cantava del "negro" e della "troia" sembrava pronto per il set di 'Amore tossico'. Oggi avrebbe tatuaggi in faccia e ostenterebbe la sua vita spericolata nelle stories di Instagram

Foto: dalla copertina del cofanetto 'Colpa d'Alfredo' di Mauro Balletti

Oggi Colpa d’Alfredo, il brano che racconta della “troia” che va “a casa col negro”, con “quell’africano che non parla neanche bene l’italiano” e non col protagonista, sarebbe un pezzo trap. Non tanto per i contenuti in sé, quanto soprattutto per l’obiettivo di far rizzare i capelli agli over 35 o medio-piccolo borghese impreparati a una roba del genere. E Vasco, che la cantava, possiamo solo immaginarcelo: lui, che nel 1980 sembrava pronto per il set di Amore tossico, adesso avrebbe tatuaggi in faccia, indosserebbe sicuramente qualche accessorio dorato, di certo ostenterebbe la propria vita spericolata nelle stories di Instagram. Del resto, di questo si trattava: di un cane sciolto, iconoclasta (ricordiamoci le due passerelle con aria di sufficienza che farà a Sanremo) e libertario, a spettinare le platee di mummie del nostro Paese. E le censure a grappoli – prima sulla canzone, poi sulla copertina del disco in cui l’artista ha il volto tumefatto – ne sono la prova. Tutto torna.

Perché Colpa d’Alfredo – 40 candeline nel 2020, e una ristampa rimasterizzata che uscirà domani – è il suo primo, vero disco di rottura. In precedenza, il Blasco era ben altro: un aspirante cantautore di provincia cresciuto all’ombra di Lucio Dalla, Francesco De Gregori e delle radio libere, pure mite nello stile, che scriveva quadretti stralunati pieni di spunti (la stessa Albachiara appartiene a questo periodo), ma senza riuscire a farsi notare fuori dell’Emilia. Con lui c’era Gaetano Curreri, che proprio nel 1980 lascia il progetto per seguire gli Stadio. E Vasco, allora, rimasto col chitarrista Maurizio Solieri sceglie la strada meno ortodossa (ma personale, e che sicuramente più gli si addice) per prendersi i riflettori: l’hard rock importato dall’Inghilterra e dall’America; e dei richiami nei riff a Who e Ian Dury. Edonismo, droghe, giovanilismo, donne da amare rigorosamente solo con la carne, suoni inediti e spiazzanti: Colpa d’Alfredo è l’epifania del Rossi come-lo-conosciamo. E dire che l’LP inizia in sordina, con il giocattolo pop di Non l’hai mica capito a richiamare i fasti di Albachiara; ma è una falsa partenza, perché da lì in poi si fa scorretto, anticonformista, adolescenziale.

Risultato: l’album fa scandalo, racconta gli ’80 (perlomeno certi ’80) come nessuno e il pubblico se ne accorge. E sì, il Vasco del 1980 oggi sarebbe Sfera Ebbasta. Magari non la superstar di Famoso, ma quello rampante e già odiatissimo di XDVR. Tutti e due, seguendo la traiettoria di Arbasino, pur venendo dal nulla non sono mai stati “giovani promesse”, ma subito “soliti stronzi”. Merito (o colpa) del modo strafottente e sopra le righe di porsi, di una musica di rottura e di un’estetica sballata (come venne definita all’epoca) e pruriginosa, inno alle droghe e alla vita spericolata. Del resto anche l’altro pezzo notevole del disco, quella Sensazioni forti che è una Sex & Drugs & Rock & Roll all’italiana, potrebbe essere uscita benissimo dalla penna del trapper di Cinisello: “Non ci bastano le solite emozioni / vogliamo bruciare”, “Non importa se la vita sarà breve / vogliamo godere”. Con quel “noi” sotteso che racconta una generazione, uno statement giovanile, uno stile di vita; e che ovviamente scatena il “voi”, i vecchi conformisti a cui fa ribrezzo. Uno su tutti: il giornalista Nantas Salvalaggio, che in un articolo se la prende con la Rai per aver mandato in onda un playback del brano durante Domenica in. Non gliele manda a dire, a Vasco: alcolizzato, tossicomane, insomma modello negativo. Lui gli risponderà per le rime – in una sorta di dissing, che rincara la dose – con Vado al massimo. Non siamo troppo distanti dal “why always me?” di Sfera in Mademoiselle, no?

Vasco nel 1980. Foto: Angelo Deligio / Mondadori Portfolio

E la troia di Colpa d’Alfredo? Non è diversa dalla bitch della trap, a primo impatto: un epiteto misogino che rientra (purtroppo) nei codici del contesto che vuole ritrarre. È l’hinterland di Modena, e sono gli anni ’80 dell’eroina e della noia, quelli in cui questo grottesco gioco di seduzione – lei promette, poi ci ripensa, infine scappa con l’altro – prende forma. E Vasco ne è vittima e complice ambiguo, mentre la vede allontanarsi col “negro”. Che, sentendo una ricostruzione data a Repubblica nel 2007, era il soprannome di un suo amico non molto avvenente, ma di gran fascino sulle donne. Quindi niente razzismo, pare. Ma voglia di provocare, quella sì. Possibile non avesse previsto le reazioni a un’espressione del genere, per di più chiarita esplicitamente solo vent’anni dopo? C’è poco da dire: se la canzone uscisse oggi darebbe scandalo allo stesso modo del 1980. Come, del resto, è successo a diversi artisti del rap e della trap.

E però c’è una differenza fondamentale, fra loro e Vasco. Se è vero che spesso le polemiche che li riguardano sono frutto di letture superficiali (quelle che portarono Fabri Fibra all’esclusione dal Primo Maggio, nel 2013, gridano ancora vendetta), più spesso è la connivenza col sessismo del pubblico a diventare un problema. Perché le rime hanno dei loro codici, sono libere per definizione e vanno contestualizzate; le dichiarazioni dei loro autori, no. E prendere le distanze dagli atteggiamenti dei fan che denigrano le artiste donne, magari sulla scia di quanto i loro idoli dicono in un brano, sarebbe necessario. Se non altro per distinguere il vero dalla finzione della canzone, in cui è tutto lecito. Ma non avviene quasi mai.

Al contrario, nelle altre canzoni del Blasco della troia gli anticorpi al sessismo erano già in bella mostra. Prendiamo per esempio … E poi mi parli di una vita insieme (1978): un padre vuole una figlia casa e chiesa; il protagonista, invece, che la frequenta e le dice che no, non va bene, dovrebbe liberarsi da tutto ciò. E farlo da sé, soprattutto. O Albachiara (1979), che in sordina rompe il tabù della masturbazione femminile. La scrittura può essere libera, selvaggia e scorretta quanto vuoi, se poi il contorno aiuta a contestualizzare e definire il messaggio. E, in questo senso, già ascoltando il resto dei brani dell’epoca di Vasco – radicale convinto, progressista: anche nelle canzoni – si comprende subito come quella di Colpa d’Alfredo fosse un gioco, una provocazione per farsi vedere e far discutere più le mummie che gli altri. Fatta da manuale, visti i risultati e come avesse già preso le distanze dal suo contenuto. E noi? Quarant’anni dopo abbiamo ancora da impararne.

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