Omaggio a Zakir Hussain, il gigante della tabla | Rolling Stone Italia
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Omaggio a Zakir Hussain, il gigante della tabla

Dal rapporto coi Grateful Dead alla collaborazione con George Harrison e oltre, ritratto del musicista prodigioso che ci ha lasciati pochi giorni fa. Generare positività battendo i palmi delle mani sulla pelle di capra. L’essenza della musica senza sovrastrutture

Omaggio a Zakir Hussain, il gigante della tabla

Zakir Hussain

Foto: Ed Perlstein/Redferns/Getty Images

Secondo la tradizione islamica, il papà di un neonato deve recitare l’adhan, o chiamata alla preghiera, nell’orecchio destro del figlio, così che i primi suoni che il bambino sente venendo al mondo siano lodi alla grandezza di Dio che lo avvieranno a un percorso di saggezza e virtù. Non deve stupire, allora, se i primi suoni che Zakir Hussain ha ascoltato appena nato, nel marzo di molti anni fa a Bombay, non sono state parole di fede, ma ritmi di tabla sussurrati dal padre Ustad Alla Rakha, anche lui maestro dello strumento. Era nato un virtuoso.

Hussain, che è mancato il 15 dicembre a 73 anni, è stato un gigante delle tabla, i tamburi più utilizzati in moltissime musiche dell’Asia meridionale, dal Qawwali alla musica tipica dell’Hindustan fino al Gurbani Kirtan. Il talento precoce è stato alimentato dal padre fin dalla tenera età. «Cos’altro puoi fare quando cresci immerso nella musica 24 ore al giorno?». Hussain ha fatto il primo concerto quando aveva appena 7 anni e ha iniziato ad andare in tournée a 12. Nel 1970, diciottenne, ha debuttato in America, al Fillmore East, insieme a Ravi Shankar. Alcuni mesi dopo ha partecipato ad alcune jam session dei Grateful Dead a San Francisco, iniziando una storica collaborazione col loro batterista Mickey Hart. Nel 1975 insieme hanno formato la Diga Rhythm Band, il cui album di debutto contiene un brano semplice e vivace intitolato Happiness Is Drumming che sarebbe diventato poi il classico dei Dead Fire on the Mountain.

Le collaborazioni di Hussain con le leggende della musica occidentale vanno oltre la psichedelia della West Coast e dei Dead. Nel 1972 George Harrison l’ha chiamato a suonare in Living in the Material World, l’attesissimo seguito di All Things Must Pass. Originariamente pensava di suonare la batteria, ma è stato dissuaso da Harrison che ha insistito perché si dedicasse alle tabla. Hussain ricordava con affetto quello scambio: «È stato il giorno in cui ho abbandonato l’idea di essere un batterista rock e mi sono concentrato sul far parlare al mio strumento tutti i linguaggi ritmici del mondo. Non ringrazierò mai abbastanza George per avermi chiarito le idee».

La lista degli artisti con cui Hussain ha collaborato negli anni è variegata e ricca quanto il suo talento da percussionista: Earth, Wind & Fire, Van Morrison, Pharaoh Sanders, Yo-Yo Ma, Nusrat Fateh Ali Khan, Pat Martino, Charles Lloyd ed Eric Harland hanno tutti beneficiato del suo tocco e del suo orecchio. Nel 1979 Hussain ha persino collaborato con Francis Ford Coppola, dandogli una mano per la colonna sonora di Apocalypse Now.

Nonostante il suo status prestigioso come musicista indiano in quella che era, e continua a essere, un’industria prevalentemente in mano ai bianchi, Hussain si è schierato contro l’omologazione dei musicisti di colore a cui spesso si è assistito nella seconda metà del XX secolo, quando artisti come i Beatles e John Coltrane hanno contribuito a rendere popolare in Inghilterra e negli Stati Uniti la musica dell’Asia meridionale. «Non mi sento un portabandiera della musica indiana», ha detto. «Sono i media che lo dicono, così come un tempo Pandit Ravi Shankar era considerato l’uomo-immagine della musica indiana. E non importava che, all’epoca, in India ci fossero suonatori di sitar altrettanto bravi».

Verso la fine di ottobre ho avuto il privilegio di vedere Hussain dal vivo in un piccolo teatro del Connecticut, in quello che sarebbe stato uno dei suoi ultimi show. Il locale da 500 persone era pieno, il pubblico era composto quasi interamente da persone di origine sud asiatica. Si percepiva un senso di riverenza e Hussain è salito sul palco tra applausi interminabili, che sono cessati solo quando ha zittito tutti alzando delicatamente una mano. Per l’ora e mezza seguente, insieme al musicista classico indiano Rahul Sharma, ha dimostrato di essere un vero e proprio sciamano della musica. Ha suonato in modo composto e al contempo frenetico, spontaneo ma misterioso. Zero pretese di fare scena, né spacconerie: solo il suono sordo dei palmi delle mani che battevano sulla pelle di capra. I suoi ritmi iniziavano lentamente, come un treno merci che si mette in movimento scricchiolando, e in pochi secondi raggiungevano picchi ipnotici di virtuosismo elegante. Era un vero maestro nella sua arte, un uomo che, fin dai suoi primi secondi su questo pianeta, è stato destinato a perseguire uno scopo più alto. E ha risposto alla chiamata.

All’inizio degli anni Duemila, a Hussain è stato chiesto se la commercializzazione sempre crescente della musica potesse comprometterla come forma d’arte. «In ogni attività, musicale o d’altro tipo, ci sono aspetti positivi e negativi», ha risposto in una chat su Internet coi fan. «Vale anche in questo caso». Ciò che è palese, all’indomani della sua scomparsa prematura e dolorosa, è che queste parole sono valide anche per quella grande impresa che è la vita. Dovremmo ritenerci fortunatissimi, quindi, se in questo mondo, così spesso segnato da conflitti e problemi, abbiamo avuto la fortuna di avere Zakir Hussain e la magia della sua musica. Hanno generato solo del bene e ci mancheranno molto.

Da Rolling Stone US.

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