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‘On the Beach’, il suono della depressione e della fattanza di Neil Young

L’America di Charles Manson, una relazione in crisi, vibrazioni negative, marijuana di scarsa qualità, nichilismo. Cinquant’anni fa il canadese pubblicava uno dei suoi grandi dischi di culto

Foto: Joel Bernstein

Per dirla con un eufemismo, On the Beach non è un disco esattamente solare. Pure Neil Young lo considerava uno dei suoi lavori più depressi e lo diceva, si badi, dopo aver scritto e registrato il funereo Tonight’s the Night. Quest’ultimo conteneva anche canzoni leggere come Speakin’ Out o Albuquerque. Non c’era niente del genere su On the Beach, che ha appena compiuto i 50 anni e che non a caso contiene tre pezzi su otto con la parola “blues” nel titolo. Se le cose stavano migliorando, lo stavano facendo molto lentamente.

È un disco amato dai fan accaniti di Young, che lo adorano non solo perché nel giro di dieci anni era già diventato una rarità. Non è stato infatti più ristampato dall’inizio degli anni ’80 ed è quindi sparito dalla circolazione fino all’edizione su CD uscita nel 2003. Oggi non è meno noto di un After the Gold Rush e di uno Zuma, ma la sua bellezza inquietante è intatta. Detto in altre parole, non c’è un altro disco del genere nel catalogo di Neil Young. Lo si ama perché è il più grezzo e personale della sua discografia, perché cattura il momento in cui si è abbandonato alla malinconia, s’è abbeverato alla fonte del dolore, lo ha usato per spingersi ancora più in là di quanto avesse fatto in precedenza. Era incredibilmente depresso e molto, ma molto, ma molto fatto. Non lo avremmo voluto in nessun altro modo.

Se On the Beach è così, è anche grazie alle cosiddette honey slides, i famigerati e potenti intruglii di erba e miele che hanno alimentato le session al Sunset Sound di Los Angeles. Forse è per questo che la musica sembra uno sballo sempre sul punto di diventare un brutto trip (quell’anno Neil disse a un pubblico che l’ingrediente segreto era «marijuana di scarsa qualità, peggiore di quella che si trova per strada, la prendi e la fai cucinare dalla tua signora, se ne hai una»). L’apice dello sballo da honey slide lo si raggiunge in Revolution Blues dove Young si cala nei panni di un pazzo tipo Charles Manson che scorrazza per Los Angeles in preda a un raptus distruttivo. “Ricordi il tuo cane da guardia? Beh, temo non ci sia più”, canta con un ghigno minaccioso. Nel finale diventa Tex Watson della Family di Manson: “Ho sentito dire che Laurel Canyon è pieno di star famose, ma io le odio più dei lebbrosi e le ammazzerò tutte nelle loro auto”.

No, non è Heart of Gold Vol. 2. Ma persino in questo scenario da incubo Young riesce a dare un’idea della sua disperazione: “Non sono ancora felice, sento che c’è qualcosa di sbagliato”. Col senno di poi, aveva assolutamente ragione. L’umore nero dell’epoca era il risultato di vari fattori, soprattutto della crisi della relazione con l’attrice Carrie Snodgress, la donna che un paio d’anni prima, non di più, lo aveva ispirato a scrivere A Man Needs a Maid. «Piuttosto cupo, non molto felice», dice nella biografia definitiva del 2002 Shakey. «Ero in una fase di disillusione per le cose che erano andate in modo diverso da come le avevo previste. Iniziavo a rendermi conto della vita incasinata che avevo scelto di fare unendomi a Carrie».

Non che sul lato della carriera musicale andasse tutto per il meglio, anzi. Il pubblico voleva un altro Harvest («Non posso riscrivere ogni volta lo stesso libro», dirà Young nel 1975), lui invece si era dedicato al progetto Journey Through the Past e al live Time Fades Away, e nessuno dei due aveva anche solo lontanamente sfiorato il successo del disco del 1972. La risposta alle critiche che riceveva era contenuta nella prima canzone di On the Beach, ovvero Walk On, con quel verso sui critici che comunque fanno girare il suo nome. Registrata col suo braccio destro Ben Keith e la sezione ritmica dei Crazy Horse composta da Ralph Molina e Billy Talbot, la canzone era allegra in modo quasi demenziale. Morale: mai fare arrabbiare Neil Young.

Non era che la prima di una serie di lamentele. Era il 1974, l’estate del rapimento di Patty Hearst, dello scandalo Watergate, di altri argomenti al centro del dibattito su giornali. “Non ho mai conosciuto un uomo che dice tante bugie”, canta in Ambulance Blues a proposito di Nixon, il presidente caduto in disgrazia che si sarebbe dimesso due settimane dopo. Il sogno hippie era finito con Altamont e con gli omicidi della Family di Manson nel 1969. Il mondo stava dando il peggio di sé. Tutti erano un po’ nichilisti, compreso Neil.

Sulla copertina ideata con Gary Burden c’è Neil in spiaggia a Santa Monica. Non c’è il sole e lui indossa un abito di poliestere bianco e giallo da quattro soldi. In primo piano, accanto alla coda di una Cadillac del 1959 sepolta dalla sabbia, sono posizionate sedie da giardino pacchiane a fiori. A terra un giornale su cui si legge il titolo “Il senatore Buckley chiede le dimissioni di Nixon”. Young non lo sta leggendo. Dà le spalle alla macchina fotografica, tiene le mani in tasca, osserva l’oceano. Sta per piovere.

Quando vai in spiaggia e fissi il mare, dirà una decina d’anni dopo a Melody Maker, «immagini che ogni onda porti con sé una diversa serie di emozioni. Se le ignori, restano lì. È quando cominci a chiuderti in te stesso che smetti di vivere e cominci a invecchiare velocemente».

L’elenco di musicisti che suona in On the Beach è impressionante e va da Levon Helm e Rick Danko della Band a David Crosby e Graham Nash, roba che solo uno come Neil Young poteva permettersi nei primi anni ’70. Ma il vero ospite di riguardo di questa bella festa è l’asso della chitarra slide Rusty Kershaw. Ha cucinato le honey slides con la moglie Julie, ha suonato il violino, è il principale responsabile del sound di On the Beach. È stato lui a convincere i musicisti a suonare vicini in studio assicurandosi che non provassero prima di registrare, creando così un’atmosfera intima e improvvisata. Con la sua lunga barba e la tuta da lavoro, era un tipo gioiosamente dissoluto. Neil Young non era nello stato d’animo adatto per essere l’anima della festa. Niente paura, c’era Kershaw che lo faceva al posto suo.

Pochi dischi hanno un lato B pazzesco come quello di On the Beach, uno schiacciasassi emotivo fatto di tre sole canzoni. «Metti su il lato B e ti perdi», ha detto una volta Father John Misty. «Puoi sballarti e perderti in quel piccolo universo. E quando finisce l’ultimo pezzo, ricominciare da capo». La prima delle tre canzoni è la title track, uno sguardo tempestoso sui pensieri di Young in quanto celebrità e perenne outsider. Prova il bisogno di essere circondato da altri, ma non riesce a sopportarli. I piccoli tamburi suonati da Keith le danno un’aria da nenia spettrale.

E poi c’è la devastante Motion Pictures (For Carrie) in cui Young elabora la fine della storia con Snodgress. È il picco di vulnerabilità del disco. “Sono dentro di me nel profondo, ma in qualche modo ne uscirò”, promette. È un pezzo talmente intenso e personale che Young l’ha fatto dal vivo una sola volta, quando ha presentato in anteprima il materiale di On the Beach in un concerto a sorpresa al Bottom Line di New York nel maggio 1974. Per i fan è il Sacro Graal.

Il picco è Ambulance Blues, un capolavoro di quasi nove minuti considerato uno dei suoi pezzi migliori, secondo solo a Powderfinger. Inizia col ricordo malinconico degli inizi della sua carriera, quando suonava nei caffè di Toronto come il Riverboat e viveva in un appartamento all’88 di Isabella Street. È così depresso che ripensa all’appartamento perduto manco si trattasse di un’eroina tragica: “Oh Isabella, proud Isabella…”.

Non era passato neanche un decennio da quei fatti, eppure Young è già nostalgico, con la voglia di tornare a vivere in un periodo più semplice della sua vita. Canta con voce profonda, invecchiata, distante ed è una cosa voluta. «Robert De Niro ha preso 50 chili per fare Toro Scatenato e Neil ha fatto qualcosa di simile per la sua musica», ha detto il bassista Tim Drummond. «Fumava due pacchetti di sigarette al giorno per avere la voce rauca di chi è stato in piedi tutta la notte».

Armato di armonica a bocca e d’una melodia che ha poi confessato d’aver rubato al maestro del folk inglese Bert Jansch, Young riflette su tutto quel che è successo nel frattempo, compreso lo stallo dell’avventura di Crosby, Stills e Nash (“State pisciando nel vento”) e le morti del chitarrista dei Crazy Horse Danny Whitten e del roadie Bruce Berry. “Un’ambulanza non può andare più veloce di così”, canta. “È facile rimanere sepolti nel passato quando si cerca di far durare qualcosa di bello”. Racconta una storia surreale su un rapimento e lancia frecciatine a critici ingrati e al Presidente. Poi l’ago smette di oscillare e On the Beach finisce. Ma non finisce mai perché è da 50 anni che ci risuona in testa.

Da Rolling Stone US.

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