Nel giugno del 1983 volammo in Brasile per suonare di fronte a 180.000 fan impazziti allo Stadio Maracanã di Rio. Il pubblico più vasto per cui avessimo mai suonato in un unico concerto. Negli stadi di calcio in Sud America, la visuale dal palco era incredibile… e noi che credevamo di avere gli stadi più grossi negli States! I nostri sembravano piccoli in confronto, minuscoli. Quando entri in uno stadio come il Maracanã, ti senti come se fossi in fondo ad un barile di petrolio. Altra differenza la fa la security. Durante il pomeriggio, quando stavamo provando i suoni, la polizia armata e con i cani si è sistemata tutta intorno.
È difficile spiegare a parole la quantità di energia che una folla così grande riesce a trasmettere. Ed era tutta rivolta a noi, là verso il palco. Si può dire che c’era elettricità nell’aria o che c’era una grande aspettativa, un senso di isteria – chiamatela come vi pare. Ma quando è tutta concentrata su di te, si trasforma in una grande onda che ti travolge. La spinta che ti arriva è potentissima, incredibile. Rischia di farti perdere l’equilibrio e cadere.
E tuttavia, per quanto fosse esaltante suonare in quelle arene, ormai il destino era scritto. Era solo questione di capire come le tessere del domino sarebbero cadute, perché erano destinate a cadere, una dopo l’altra. Potevamo ancora suonare nei più grandi stadi dell’America del Sud, ma nel Nord America la nostra posizione restava molto traballante. Eravamo coscienti del fatto che i Kiss dovevano ripartire da zero, ancora una volta daccapo.
Una volta rientrati negli States, esortai nuovamente Gene ad accettare di fare la mossa più radicale che potessimo fare: smascherarci. Qualcuno la vide come una mossa audace; io la vedevo come l’unica mossa che ci restava da fare. Il nostro pubblico negli USA non si era ridotto drasticamente per caso. Si era ristretto perché non eravamo più credibili. La gente era stufa dei Kiss per come erano diventati.
Con i nuovi personaggi, eravamo ad un passo dai Ninja Turtles. Insomma, che diavolo significava il mago egiziano di Vinnie? Anziché mantenere vivi i personaggi e l’immagine originali, eravamo diventati uno zoo ridicolo. Cosa poteva esserci dopo? Turtle Boy, il Ragazzo Tartaruga?
Con la registrazione di Lick It Up, iniziammo a ragionare sull’idea di assumere un nuovo manager che sostituisse Bill. Fino ad allora, Howard Marks era subentrato per curare tutti gli aspetti di business che prima erano appannaggio di Bill, e quindi di fatto stavamo facendo da manager a noi stessi. Andammo a trovare un famoso manager a L.A. e gli anticipammo che col nuovo disco avevamo intenzione di struccarci. “Perché invece non lo mantenete almeno su metà faccia?”, propose.
Su metà della mia faccia?
In una sola battuta realizzammo come molte persone fossero fuori sintonia rispetto al mondo dei Kiss. In fin dei conti, Creatures era un buon album. Il problema era che la gente lo ascoltava con gli occhi e non con le orecchie. Se al pubblico innanzitutto non piaceva quel che vedeva, era improbabile che gli potesse piacere quel che avrebbe sentito.
Accettare di togliere la maschera fu – comprensibilmente – più dura per Gene. Era sicuramente più facile per me che per un uomo con la coda di cavallo in cima alla testa, che vomitava sangue dappertutto in giro per il palco. Ma quando Creatures fu un flop, il buon senso prevalse e arrivammo alla conclusione che semplicemente non avevamo altra scelta. Toglierci il makeup ci offriva la chance migliore per poter continuare.
Ma in ogni caso, Gene non accettò di buttarsi finché non ci siamo trovati sull’orlo del precipizio. Fu un atto di fede necessario per la nostra sopravvivenza. Dovevamo scoprire se eravamo bravi abbastanza da poter sopravvivere anche senza il makeup. Se tutto quello che si è sempre detto su di noi si fosse dimostrato vero – e cioè che eravamo tutto fumo e niente arrosto – allora sentivo che sarebbe giunto il momento di appendere la chitarra al chiodo, perché non meritavamo di continuare.
Se ero nervoso? Non proprio. Io sapevo bene di fare sempre tutto con il cuore, con la faccia dipinta di bianco o no. Mi veniva naturale. Sarei stato comunque lo stesso personaggio anche senza trucco.
Quando ci hanno fatto i complimenti dicendo che c’erano volute le palle per farlo, io sono sempre stato il primo ad ammettere che lo avevamo fatto solo per garantirci la sopravvivenza – non c’era alternativa. Non ho problemi a prendermi i meriti se faccio scelte nella piena consapevolezza del rischio che mi sto assumendo, ma questo non fu uno di quei casi. Non si trattò di una mossa coraggiosa o nobile, perché la scelta non fu affatto dettata dalla forza d’animo. Eravamo semplicemente chiusi all’angolo.
Inoltre, io mi stavo ancora riprendendo dal fulmine a ciel sereno che fu la notizia del matrimonio di Donna. Mi sentivo stordito e intorpidito. In quel periodo andavo dallo psichiatra, e nel bel mezzo di una seduta, un giorno mi disse: “La miglior cura per dimenticare una donna è trovarne un’altra”. Quella frase mi aprì gli occhi, come mai mi era capitato prima durante una terapia. Mi sentivo tipo, “Che cosa? Ma non è un concetto profondo. Davvero?”. Io ero alla ricerca di un consiglio Zen, e questo mi aveva colto totalmente alla sprovvista. Va bene, ok, credo di sapere come fare.
Dopo quella seduta, dissi a me stesso che forse un modo per stare meglio era scrivere una canzone sul rialzarsi e sentirsi meglio. Il modo più efficace di voltare pagina poteva essere cantare una canzone che parlasse appunto della volontà di voltare pagina. Avevo letto da qualche parte che quando Beethoven scrisse la Seconda Sinfonia nel 1802, un pezzo che da piccolo avevo trovato estremamente edificante, lui fosse sul punto di suicidarsi. Forse anch’io avrei potuto trovare una via d’uscita così.
Vinnie e io scrivemmo a quattro mani la canzone Lick It Up nella mia casa sulla 80° Strada, proprio nella stanza della musica – accanto a tutte quelle vetrine illuminate e vuote, visto che le chitarre erano andate tutte. Prima di scriverla, mentre eravamo lì a cercare un argomento da trattare, le parole del terapista mi sono risuonate nelle orecchie. Il titolo è arrivato quasi subito, Lick It Up, che suonava decisamente figo.
La vita è una delizia e non è un crimine trattarsi bene.
Era un sentimento universale, qualcosa in cui io di certo credevo fermamente, sia nei periodi in cui lo vivevo alla lettera ogni minuto, che nei periodi più calmi e tranquilli. Beh sicuramente mi faceva sentir meglio esorcizzare la situazione cantando una canzone allegra come quella, piuttosto che una che parlasse di quanto mi sentissi triste. Per di più, l’atto stesso di scrivere una grande canzone – indipendentemente dal sentimento che ci stava dietro – mi faceva sentire bene. Anche quello mi aiutava a scorgere la luce in fondo al tunnel. Anche quello era parte del mio viaggio fuori dalle tenebre.
Comporre era il mio modo di rimettere i piedi per terra e ristabilire un contatto con la realtà.
Altre canzoni su Lick It Up – come A Million to One – trattavano molto più da vicino i miei sentimenti del momento. A tutti noi piace pensare di essere insostituibili in una relazione e che nessun altro sarà mai in grado di dare alla nostra persona amata quello che noi siamo stati in grado di offrirle, e A Million to One si ispirava proprio a quella sensazione. Ovviamente, era quel tantino irrealistica ed egocentrica, oltre a non essere del tutto attinente alla realtà.
Anche se la scelta di togliere il trucco venne accompagnata da un certo rinnovato entusiasmo, ciò non voleva dire che anche la nostra musica dovesse per forza di cose cambiare. Eravamo rimasti contenti del lavoro di produzione su Creatures, perciò, per andare sul sicuro, la scelta più ovvia ricadde di nuovo su Michael James Jackson, per continuare a costruire con lui il nostro ritorno al rock.
L’album era ormai quasi completo, e io mi sentii eccitatissimo quando vidi per la prima volta le prove grafiche della copertina. Eccoci là. Era una dichiarazione di intenti, e con tutto quello che ci stavamo lasciando alle spalle, il messaggio era forte e chiaro. A mio avviso, stavamo facendo una dichiarazione importante sulla band e sulla sua credibilità ai nostri occhi – togliere il trucco la diceva lunga su quanto valesse la band per noi. Avremmo anche potuto gettare la spugna e andarcene a casa. Invece eravamo disposti ad indossare l’armatura e combattere.
Una volta uscito il disco, non ci sarebbe neanche più stata quella netta distinzione che attutiva l’impatto – positivo e negativo – del successo. Ora la persona famosa sarebbe stata la stessa persona che camminava per strada. Ma quell’aspetto era anche divertente, tutto sommato.
Stavo per diventare molto più riconoscibile e visibile, e quello non era un lato negativo della cosa – soprattutto quando si trattava di rimorchiare donne. E comunque ho avuto anni per adattarmi alla fama, tutti quegli anni dietro il trucco mi avevano fornito un’ottima preparazione. Quindi non era come tuffarsi di colpo in una piscina piena di acqua ghiacciata.
Fino a quel momento, MTV ci aveva bellamente ignorati. Avevamo girato uno di quei promo della serie “I Want My MTV” e non lo avevano mai passato. Il videoclip che avevamo preparato per il lancio di Creatures – quello di I Love It Loud – non lo avevano mai messo in rotazione. Decisero di non darci alcuna esposizione, anche se ne avevamo un disperato bisogno dopo la débâcle di The Elder: dovevamo dimostrare a più pubblico possibile che eravamo tornati ad occuparci di quello che i Kiss sapevano fare meglio. In un network la cui gestione era affidata ad un branco di stagisti universitari e ai loro gusti, ci consideravano degli sfigati.
D’incanto, non appena sparì il trucco, tutto cambiò. MTV finalmente abbracciò la nostra causa, almeno sino a un certo punto. Escogitammo di toglierci il trucco durante un sensazionale speciale televisivo fatto su misura e in esclusiva per MTV. Anche se, a ben pensarci, in effetti eravamo più che altro io e Gene a rivelare i nostri volti in maniera sensazionale. Gli altri due erano pressoché sconosciuti – non per screditare Eric o Vinnie, ma avendo loro suonato su un album entrato a malapena nell’immaginario popolare, c’era meno clamore intorno alla scoperta dei loro veri volti. Per molta gente, i Kiss erano ancora Catman, Spaceman, Starchild, e Demon. Anche se il gatto non era più nel sacco, per parafrasare un famoso vecchio detto. E lo stesso discorso valeva per lo Spaceman. Perciò in questo caso, per certi versi, abbiamo sì venduto il fumo senza l’arrosto. Certo, “I Kiss si tolgono il trucco” era uno slogan d’effetto, e comunque di grande richiamo per la gente. E noi abbiamo fatto in modo di trasformare la cosa in un evento e di crearci intorno un grande clamore mediatico.
E ha funzionato. Ero consapevole del fatto che Lick It Up non fosse un album del livello di Creatures of the Night, eppure ha venduto molto, molto di più – addirittura una cosa come quattro o cinque volte di più già solo nelle prime settimane dopo la pubblicazione, nel settembre 1983. Non era la musica a non piacere alla gente. Era l’immagine a non andargli più giù.
Tolto il trucco, sul palco ovviamente non portavamo più nemmeno gli zatteroni, e decidemmo di adottare uno stile più comune: vestiti colorati e attillati, sexy e appariscenti. Ci siamo adeguati a quello che era il look più o meno standard dell’epoca. Voglio dire, Robert Plant aveva tagliato i capelli e indossava pantaloni in nylon, per l’amor di Dio. Nessuno era immune o indifferente a quello che stava accadendo – perfino gli Who e gli Stones vennero travolti da quella che era considerata la moda del momento. Ci stavamo trasformando in quella che all’epoca era definita una hair band.
In pratica, eravamo omologati a dozzine di altri gruppi. Non c’era più modo di spiccare. Avevamo stracciato il nostro biglietto da visita. Ci eravamo spogliati della nostra peculiarità, perciò non potevamo che sembrare una qualsiasi band rock. MTV dava a una band dell’Idaho la stessa opportunità di apparire come una band di L.A., che a sua volta poteva essere benissimo simile ad un’altra che proveniva da Londra. Il look si standardizzò, perché i gruppi improvvisamente pensarono che fosse sufficiente comprare un po’ di lacca per spararsi i capelli in testa, mettersi in faccia il trucco della mamma e rotolarsi sul pavimento con le loro chitarre, come si vedeva nei video dell’epoca. Facevano tutti così: capelli cotonati, spandex, bigiotteria varia, trucco femminile.
Nel caso di molte band, quel look era anche sinonimo di musica orrenda. È sbalorditivo quanto certa musica di quel giro fosse pessima. Non aveva anima, era senza radici. Ok, per molti era normale scimmiottare le band inglesi che venivano dal blues, ma per come la vedo io, non era ammissibile suonare quel genere di musica e risultare credibili senza quantomeno conoscere l’esistenza di artisti come Hubert Sumlin, Howlin’ Wolf e Robert Johnson. Non era il Jimi Hendrix di Purple Haze ad aver iniziato tutto. Se volevi imparare a conoscere la storia della chitarra, dovevi spingerti molto più indietro.
Gran parte delle hair band erano terrificanti, con chitarristi improvvisati, che si davano al tapping senza essere di fatto capaci di suonare. Ma anche noi dovevamo cavalcare l’onda. E così abbiamo fatto. E nel bene o nel male, quella scelta ci ha fatto attraversare ben due decenni.
Visto che MTV aveva patrocinato lo “strucco”, ci aspettavamo che questa volta avrebbero passato il nostro nuovo video, qualora ne avessimo girato uno. Nessuna premiere mondiale o cose del genere, ci aspettavamo semplicemente che l’avrebbero passato. La produzione del videoclip di Lick It Up fu ben più onerosa di quella di I Love It Loud, ma siamo riusciti comunque a mantenere i costi relativamente bassi. In quel periodo alcuni artisti spendevano centinaia di migliaia di dollari in video, e a noi sembrava pazzesco, soprattutto alla luce dell’ostinato criterio di scelta di MTV di non averci mai voluti passare. Volevamo girare Lick It Up con un budget ragionevole.
Il video si apriva con un’immagine di alcuni scheletri, e osservandoli attentamente si può notare che uno è un po’ tremolante – è perché erano fatti di lattice. Abbiamo girato il video in un’area dismessa del Bronx. A parte un paio di oggetti di scena, come gli scheletri, il resto era tutto autentico – siamo andati lì e abbiamo iniziato a girare quel che c’era intorno a noi. Sembrava il paesaggio di Dresda nel 1945, praticamente un deserto post-apocalittico. Eppure non si trattava di un set cinematografico. Non avevo mai visto niente del genere, prima; non ero passato così sovente nella zona Sud del Bronx. La cosa assurda è che non si trattava solo di una piccola area. Era enorme, come un’intera città bombardata o come l’imponente set di un film – edifici demoliti o semidistrutti a perdita d’occhio, mucchi di mattoni e di rocce, spazzatura ovunque. Era la cosa più strana e surreale che io avessi mai visto.
Quando visionai l’edit finale del video, ho pensato che fosse figo. Era un “video per MTV” – c’erano le ragazze, il fuoco, e dei tizi dai capelli strani. Non gli mancava nulla, aveva tutte le caratteristiche dei tipici video di MTV.
Eric lo odiava, perché le sue gambe sembravano due cosce di pollo, perciò quando si camminava tutti e quattro a figura intera, si notavano i suoi due piedi piccoli con scarpe alte a punta e queste sue gambe grassocce. E la gente, guardando Vinnie, si chiedeva, “Ma è una ragazza?”. Durante il servizio fotografico di copertina per Lick It Up, Vinnie indossava una parrucca, e stava benissimo. Successivamente si è impuntato, non voleva più indossarla. E così i suoi capelli sembravano quelli del bambino dello spot della Gerber. Già non è che fosse proprio un Adone di suo, e in quel video ne uscì pure peggio, cercando ad ogni costo di apparire sexy di fronte alle telecamere.
Lick It Up ottenne il doppio disco di platino. Quel risultato polverizzò Creatures of the Night, confermando tutti i miei sospetti. Non è che la gente non volesse i Kiss. Volevano che i Kiss si spogliassero di qualcosa che non sembrava più autentico. Vederci senza trucco, spinse il pubblico a concentrarsi sulla band. E a considerare innanzitutto la musica.
Lick It Up segnò un nuovo inizio anche sotto altri punti di vista, perché in un certo senso perdere il trucco significava anche chiudere un’era, dismettere i panni del personaggio e alla fine essere lì – almeno in apparenza – come me stesso. La persona che si vedeva nei video ero io nella vita di tutti i giorni.
Avevamo fatto un gran bel passo in avanti, che significava non mollare e continuare a cercare di fare di tutto pur di ricostruire quello che io amavo di più, i Kiss.
Il test successivo era suonare dal vivo senza makeup. Eravamo davvero solo un branco di zucconi in spandex e cerone, buoni solo a far esplodere il palco? O eravamo una vera band, capace e degna di competere sul mercato?
Stavamo proprio per scoprirlo.
Tratto da Dietro la maschera – La mia vita dentro e oltre la musica, autobiografia di Paul Stanley (Tsunami Edizioni) che torna ad essere disponibile da oggi in Italia.