Pazzi per i King Gizzard and the Lizard Wizard | Rolling Stone Italia
Allacciate le cinture

Pazzi per i King Gizzard and the Lizard Wizard

Danno il meglio quando sono nei guai, sul palco e in sala d’incisione. Credono fortissimamente nel do-it-yourself. Permettono ai fan di stampare i loro dischi. Passano da un genere all’altro con un’energia inesauribile. E finalmente stanno raccogliendo quanto seminato. Intervista a un banda di australiani matti che credono nella libertà assoluta

Foto: Griffin Lotz per Rolling Stone US

Dopo due ore e mezza di concerto, Stu Mackenzie ha capito d’aver preparato un scaletta che non avrebbe consentito ai King Gizzard and the Lizard Wizard di coprire tutte e tre le ore di show al Forest Hills Stadium nel Queens, a New York. «Mica succede di solito. Anzi, spesso dobbiamo togliere delle canzoni».

Il punto è che la band australiana non ha provato il tour a sufficienza. Al posto di farlo, nelle tre settimane precedenti Mackenzie, Ambrose Kenny-Smith, Joey Walker, Cook Craig, Lucas Harwood e Michael Cavanagh hanno lavorato a un disco di «techno improvvisata». E chi se ne frega se stavano per pubblicare il loro 26esimo album in studio Flight b741. E chi se frega se davanti a sé avevano 27 concerti da headliner da trasmettere in diretta gratuita online. Preparasi non è mai stato il loro forte. Il loro forte è far musica nuova.

A Mackenzie sta bene il fatto che la band non sia pronta al 100% prima d’un tour. «Mi piacciono il nervosismo, l’attesa, sapere che non tutto è perfettamente a posto. Per qualche strano motivo, questa cosa mi dà la carica». Sì, ma lo ha anche lasciato col dubbio di non avere musica a sufficienza da suonare di fronte ai 13 mila del Forest Hills Stadium. Nel bel mezzo di una canzone ha quindi chiesto un pennarello a un roadie. «Ho fatto il conto dei minuti che saremmo riusciti a coprire partendo dal fondo della set list e… oh cazzo!». E allora ha pensato all’ultimo concerto fatto a New York, alla scaletta della sera precedente e a quella prevista la sera dopo nello stesso stadio, per essere sicuro di non ripetere delle canzoni. «E se cominci a pensare a tutte queste cose nel bel mezzo d’una canzone, il cervello ti va in pappa». Alla fine ha deciso di fare Nuclear Fusion, un pezzo del 2017. L’ha detto alla band e ha chiamato un fan a cantare sul palco. «E a quel punto… bomba».

I King Gizzard sono abituati a improvvisare. Stanno assieme dal 2010, ma solo negli ultimi anni sono passati dai club alle arene sold out. Erano adolescenti quand’hanno iniziato a Melbourne. Ora hanno pubblicato due dozzine e passa di dischi in studio che hanno registrato, prodotto e stampato da soli. Anche grazie a questa mentalità DIY hanno raccolto legioni di fan che si chiamano Weirdo Swarm. Sono arrivati persino a regalare interi album e registrazioni di concerti a chiunque promettesse di stamparli, chiedendo in cambio qualche copia. È frutto di questa mentalità anche l’idea di trasmettere online il tour (tranne la data di Philadelphia, dove non hanno ricevuto l’autorizzazione per farlo). «Voglio che la gente abbia accesso alla nostra musica», dice Mackenzie, «tutto qui. Sono un millennial e in quanto tale sono cresciuto scaricando musica da internet. Sono figlio del “tutto gratis”, nel bene e nel male».

Foto: Sacha Lecca per Rolling Stone US

Non è facile cercare di definire la musica dei King Gizzard. Alcuni dischi lambiscono il metal, altri sono psichedelici o elettronici o jazz oppure come Flying Microtonal Banana che a tratti non sembra neanche musica occidentale. Tutti hanno una cosa in comune: un’energia caotica che rasenta il maniacale. Negli ultimi anni hanno cominciato a considerarli una jam band per via della fanbase devota che li segue dal vivo. «Ma è dall’inizio che la gente ci segue di data in data e questo nonostante facessimo bene o male gli stessi pezzi ogni sera», dice Mackenzie. «Magari hanno visto qualcosa che neanche noi notavamo».

Mackenzie non sapeva neanche che pensare dell’etichetta jam band quando hanno cominciato a usarla per i King Gizzard. Sì, conosceva dischi dei Grateful Dead come American Beauty e Workingman’s Dead, ma non era un fan. «Mai capita la roba degli show psichedelici forse perché da noi in Australia non è mai stato un fenomeno, non ha attecchito. Io poi consideravo i Dead una specie di gruppo country. Grandi canzoni, d’accordo, ma non li capivo fino in fondo».

Ora li capisce. «C’è qualcosa di simile nello spirito. Il mondo in cui facciamo dischi e musica è libero, siamo sempre stati aperti all’improvvisazione e ci rivediamo negli ideali hippie, anche se siamo una cazzo di band punk-rock fatta da millennial».

Lo spirito improvvisativo emerge anche da Flight b741, anche se ha più a che fare con gli Steely Dan che coi Phish. «Volevamo che fosse spontaneo», dice Mackenzie. Nel 2023 hanno pubblicato due dischi, l’elettronico The Silver Cord e il metallaro PetroDragonic Apocalypse, «ed erano entrambi molto intellettuali». Farli non era stato facile. «Fa bene mettersi alla prova e sfidarsi, ma questa volta volevamo fare qualcosa di più naturale».

Quando a ottobre 2023 si sono trovati per registrare l’idea era non portare idee troppo rifinite. «Tutti nella band sono in grado di scrivere le parti del chitarrista, del cantante, del batterista, venire e chiedere: “Me lo puoi suonare questo?”. Abbiamo fatto dischi e canzoni del genere, basate sulla visone di uno poi abbracciata da tutti quanti. Questa volta volevamo per quanto possibile evitarlo». E poi tre musicisti su sei stavano per diventare padri e quindi sono stati costretti a scrivere e registrare l’album in due settimane, un approccio apprezzato da Kenny-Smith: «Ha portato tutta un’altra energia». Il risultato li ha avvicinati al rock tradizionale, con echi di arena rock e un pizzico di glam. Sono diversi dal solito, ma son sempre loro.

Se sono tanto prolifici è perché hanno una sorta di riverenza mistica per lo studio di registrazione. «Il palco è il posto in cui ci sentiamo più sicuri e va bene», dice Mackenzie, «ma quando siamo in studio voglio che tutti sentano che non sappiamo fino in fondo cosa stiamo facendo. Le cose migliori vengono fuori quando impariamo qualcosa di nuovo oppure che facciamo cose fuori dalla nostra portata». E tutto questo senza lavorare con la supervisione di un produttore. «Non vogliamo che la nostra visione diventi la visione di qualcun altro. Continuiamo a far dischi come li abbiamo sempre fatti».

Foto: Sacha Lecca per Rolling Stone US

Nel 2012 hanno lanciato la Flightless Records per pubblicare la musica loro e di altre band di Melbourne, tra cui Amyl and the Sniffers. È diventato un impegno tale che nel 2020 il batterista Eric Moore ha mollato la band per dedicarsi all’etichetta. In quello stesso periodo hanno lanciato la KGLW, ora p(doom), per pubblicare esclusivamente la loro musica, anche se all’inizio di quest’anno hanno annunciato che butteranno fuori anche dischi altrui. È una bella storia di successo do-it-yourself (in passato hanno stretto partnership con etichette come ATO e Heavenly).

In questo tour, al fine di trasmettere i concerti in streaming su YouTube, Mackenzie ha dovuto cedere un po’ di controllo a Jackson Devereux e Allen Dobbins che riprendono gli show, con l’audio che viene direttamente dal banco del mix dove siede il loro fonico Sam Joseph. Di solito gli artisti preferiscono che venga fatto un mix ad hoc, ma questo è l’approccio DIY del gruppo. «Tanta gente penserà che siamo matti da legare», dice Mackenzie, «perché non è così che si dovrebbe fare, perché può succedere qualche casino in qualunque momento, ma è gratis e quindi ci sta che possa insorgere qualche problema e che lo si riesca risolvere in buona fede».

E i problemi effettivamente ci sono stati come il suono non perfetto o lo stream che s’interrompeva. I fan segnalano gli errori su Reddit, il team dei Gizzard legge i commenti e cerca di risolverli. Non che Mackenzie passi molto tempo su Reddit. Preferisce interagire coi fan in altri modi. Nel 2017 è stato lanciato ad esempio il progetto Bootlegger. Era un periodo in cui il gruppo era decisamente produttivo. «Mi sentivo in colpa a chiedere alla gente di comprare cinque dischi di fila e allora ho deciso di regalarne uno», ovvero Polygondwanaland, «uno di quelli su cui avevamo lavorato più duramente, non volevo dar via una cosa di poco conto». Hanno mandato le tracce ai pochi fan che credevano interessati. «Nel giro di poco tempo sono usciti centinaia di dischi fisici, incredibile, la cosa più pazzesca che c’era successa fino a quel momento».

Da quel momento, hanno pubblico demo, concerti, un disco di beneficenza dopo gli incendi boschivi in Australia e – si tratta di un annuncio recente – varie tracce tratte da ogni show del tour. «Ci sono etichette discografiche messe in piedi dopo aver stampato Polygon», dice Mackenzie. «È incredibile, bellissimo. Sono orgoglioso di avere reso il mondo un posto più creativo non solo a parole».

Foto: Sacha Lecca per Rolling Stone US

E poi ci sono i tour, che restano il momento di massima connessione coi fan. Secondo il sito KGLW.net che tiene il conto, dal 2010 in poi hanno fatto oltre 900 concerti e 52 tour in 45 Paesi diversi. Nonostante le complicazioni della vita adulta, i King Gizzard si aspettano di mantenere questo ritmo forsennato in futuro. «Sapevamo già prima di diventare padri come gestire in modo sano la vita in tour. In passato siamo stati via troppo a lungo, non è stato salutare, nemmeno per i rapporti interni della band. Ma ci vogliamo bene, il che aiuta. Ci sono stati contrasti, discussioni, litigi, ma ci prendiamo cura l’uno dell’altro. E non credo si possa dire tutte le band».

Anche loro si sono trovati ad affrontare i problemi tipici di chi s’affaccia alla vita adulta. «Diventare padre ti cambia, questo è poco ma sicuro. Ho due figli e detesto star lontano da loro. Più di ogni altra cosa mi preoccupa il fatto che loro sentano la mia mancanza. Sono grato per quel che riesco tra figli, band, impegni vari».

Foto: Griffin Lotz per Rolling Stone US

Come se non bastasse, i King Gizzard stanno girando un film con Guy Tyzack e Maclay Heriot. Ancora non sanno quale forma prenderà, ma anche i due registi assistono con le loro camere all’intervista che facciamo sul retro di una piscina del Forest Hills Tennis Club, che è il posto dove si tennero i primi U.S. Open. Il concerto è finito da poco e Mackenzie è ancora elettrizzato dalle tre ore passate sul palco. È una scena divertente che somiglia alla festa in casa di qualcuno negli anni ’90 che a un after (e più tardi arriverà a farsi un tuffo in piscina pure il comico Eric André).

I due concerti a Forest Hills sono una specie di ritorno a casa per il gruppo che affonda le radici nello Stato di New York. Dieci anni fa suonavano ovunque riuscissero in posti piccoli come il Wild Kingdom o più noti come Baby’s All Right e Knitting Factory, dormendo sui pavimenti degli amici a Brooklyn e intanto registrando vicino a Hunter Mountain. «Avevamo tra i 21 e i 25 anni, eravamo dei bambinetti», dice Mackenzie. «Stavano ancora cercando di capire come funzionavano le cose o anche solo come racimolare soldi a sufficienza per farci dei noodles e suonare in giro il più possibile. Siamo cresciuti di brutto, siamo cresciuti assieme, siamo diventati una famiglia».

Kenny-Smith lo ricorda come un periodo d’intensa energia creativa: «L’atmosfera era vibrante e ovviamente New York era il posto dove stare per dei ventenni». Ricorda le session sulle Catskills, chiusi per giorni e giorni a scrivere canzoni o giocare a GoldenEye 007 sulla Nintendo 64, uscendo solo per i concerti o per fare la spesa. «Mi sembrava d’essere Macaulay Culkin in Mamma, ho perso l’aereo, la spesa una volta alla settimana, tutto alla rinfusa dentro al carrello, noodles istantanei, popcorn da fare nel microonde, qualunque cosa che ci permettesse di sopravvivere chiusi là dentro».

Da sinistra, Mackenzie, Cavanagh, Walker, Craig, Kenny-Smith, e Harwood al Forest Hills Stadium, agosto 2024. Foto: Griffin Lotz per Rolling Stone US

Nelle prossime settimane i King Gizzard suoneranno in posti dove sono stati in passato – tre concerti a Red Rocks, uno al Gorge nello Stato di Washington – e in altri in cui non hanno mai suonato, come St. Louis e Richmond, Virginia. Vedere la band esplodere è stato pazzesco, ma si stanno abituando alla cosa. «Un sacco di gente suona molto più di noi», dice Mackenzie. «È un po’ come volare in aereo. Non puoi metterti a pensare che sei a 12 mila chilometri d’altitudine, sennò ti prende un attacco di panico. Ed è più o meno così che penso a chi segue i King Gizzard: così come è incredibile la tecnologia che permette di volare lassù, è incredibile che ogni sera ci siano migliaia di persone che vengono a vederci. Ma per me rimangono entrambi concetti astratti».

Foto: Griffin Lotz per Rolling Stone US

Da Rolling Stone US.

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