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Per crescere, Manuel Agnelli ha dovuto uccidere l’indie

Il cantante degli Afterhours gode di una nuova legittimità culturale. Non l’ha conquistata grazie ai progetti underground, ma andando in tv. Perché non è necessario essere perdenti per essere artisti

Nel 2019, è ancora la tv che decide le carriere e l’indice di popolarità. Puoi avere migliaia di fan su Instagram, ma finché non poggi il sedere sulla poltrona di Fabio Fazio nessuno sa chi sei. Prendiamo Manuel Agnelli. La sua parabola sembra quella di Carlo Cracco. Come lo chef, era rispettato da colleghi e addetti ai lavori, ma c’è voluto un programma tv per legittimarne il successo. E come Carlo Cracco, ha abbandonato la scena dei talent prima di bruciarsi.

Così, ecco Manuel che, lontano da X-Factor, si è fatto crescere la barba. Si sentono le sue canzoni nella serie 1994, ha aperto Germi, un locale a Milano, ha condotto Ossigeno su Rai 3, dialoga al Lucca Comics del futuro del web con Gipi, presenta il documentario Sky Berlino Est Ovest, gira i teatri con lo spettacolo An Evening with Manuel Agnelli. Il suo volto appare finalmente nelle pagine culturali dei quotidiani e lui sembra godersi un successo finalmente riconosciuto da tutti, il coronamento di una carriera ultra trentennale.

Per chi lo segue da sempre, il nuovo Manuel non è poi diverso da quello vecchio. Vent’anni fa faceva le stesse cose che fa oggi. Era a capo di una band, gli Afterhours, che ha sempre definito un progetto aperto e che cambiava stile e formazione di continuo, con i musicisti che giravano attorno a un unico punto fermo: lui. Ai tempi dell’album Germi portava sul palco suoni che in Italia non si erano ancora mai sentiti: violini distorti, synth, pedali assurdi per le chitarre. Pure l’impatto visivo era fenomenale. Ti trovavi di fronte questi capelloni vestiti da ragazzine, truccati, con gonna e chitarre a palla. Sembrava di essere a Seattle. Organizzava il festival Tora! Tora! attorno a cui gravitavano gli artisti emergenti più interessanti. Produceva dischi come Solo un grande sasso dei Verdena e posava nudo con la corona di spine in testa sulla copertina del Mucchio. Ripubblicava i suoi racconti per Mondadori col titolo Il meraviglioso tubetto. In uno di essi, Manuel raggiungeva l’apice dell’orgasmo masturbandosi l’ano con un tubetto di dentifricio. Sono mosse che ti rendono un’icona underground e che hanno fatto di Manuel Agnelli il ‘capo’ dell’indie italiano, il suo volto più carismatico. Forse era un limite. Era un gran rumore, sì, ma Agnelli rimaneva un fenomeno di nicchia. Indie, appunto.

C’è voluto X-Factor per dare a Manuel la legittimità culturale che i suoi fan gli hanno sempre riconosciuto. Adesso finalmente non lo trattano più come un emergente (così lo definirono a Sanremo nel 2009, quando aveva 43 anni), ma come un intellettuale e un artista maturo. Manuel ha scelto come e quando esporsi al pubblico generalista con un tempismo perfetto. L’ha fatto all’apice di una carriera da cui ha avuto praticamente tutto. L’ha fatto in un momento, oltretutto, in cui il mondo rock che rappresentava stava svanendo. Si è lanciato col paracadute da un aereo che stava precipitando. Non ha pubblicato album solisti di nicchia, né ha continuato a suonare in piccoli club in provincia davanti alle stesse facce. Si è dato in pasto al talent show più discusso e odiato dalla sua fan base. E ha stravinto. Tutti hanno amato da subito Manuelone con la sua seriosità, la sua cultura musicale, la sua intransigenza snob che gli è valsa il soprannome di Piton, come il maestro di pozioni di Harry Potter.

L’indie che conoscevamo è morto. Vasco Brondi e Umberto Maria Giardini non incidono più come Le Luci Della Centrale Elettrica e Moltheni. Tommaso Paradiso ha fondato il nuovo pop e sfaldato i Thegiornalisti. Calcutta, Giorgio Poi, Coma_Cose sono destinati a entrare in classifica e non a stare ai margini di un sistema musicale che vent’anni fa li avrebbe coccolati come fenomeni di nicchia. Ieri essere underground era cool, oggi significa essere dei falliti. Forse Manuel Agnelli questa cosa l’ha capita prima di tutti e proprio ora che potrebbe essere definito il capo dell’indie italiano, quell’indie non ha più un senso. Anzi, un po’ l’indie è stato soffocato dalla partecipazione a X-Factor. Vedere Manuel Agnelli in tv accanto a Fedez, rendersi conto che era una figura credibile nel tempio del nemico, che ne usciva benissimo, è stata una batosta per chi credeva che bisogna essere loser e lo-fi per essere artisti.

Nemmeno il rap ha preso il posto della militanza culturale degli artisti indie. Quando andavi a un concerto degli One Dimensional Man o dei Marlene Kuntz, capivi che stavano bene in un contesto protetto, di fronte al loro pubblico, lontani dagli occhi della critica mainstream che non li avrebbe capiti. Se vai a sentire Guè Pequeno o Marracash capisci che vogliono essere i king in copertina su Vanity Fair. L’hip hop ha sdoganato la voglia di sfondare che il rock underground non poteva permettersi perché sarebbe stata considerata inopportuna. Se gli After rinascessero oggi, Manuel Agnelli diventerebbe comunque un personaggio importante della cultura pop italiana e forse farebbe trap. E al momento giusto, come ogni grande leader, farebbe collassare il movimento che ha fondato, per rimanerne la bandiera.

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