Big Pink è una di quelle case da classe media che ti aspettersti di trovare in una qualche periferia, non su una montagna isolata nella rustica Woodstock, Stato di New York. Quando la band s’è trasferita qui nella primavera del 1967 la casa aveva l’aria di essere stata affittata a una casalinga che varcava la soglia solo una volta alla settimana con uno straccio per la polvere.
La band ha passato i sei anni precedenti in alberghi, affittacamere, motel e appartamenti degli amici. A Big Pink ha portato la polvere della strada. Con Cardiff ancora nera sotto le unghie e Stoccolma ancora incrostata sugli stivali, con Parigi ancora in attesa di essere spazzolata via dai pantaloni e Copenhagen non lavata dai capelli, con il sudiciume di Dublino, Glasgow, Sydney e Singapore incollato sulle valigie, a macchiare gli abiti e a conficcarsi nei pori, la band era appena tornata da un tour intorno al mondo con Bob Dylan quando Dylan, reduce da un incidente in moto, li ha convocati a Woodstock per aiutarlo a completare un film per la televisione.
Un amico gli ha trovato Big Pink al costo di 125 dollari al mese. Posandosi infine come la polvere che portavano con sé, la band si è adagiata per un po’ a Big Pink. Poi, tolti gli stivali dai tavolini, ha trascinato l’attrezzatura in cantina dove ha improvvisato uno studio di registrazione casalingo. Dylan, che stava a poche miglia di distanza, veniva ogni sera per suonare assieme un repertorio che spaziava da antiche canzoni popolari a musica composta sul momento.
A fare da pubblico di tanto in tanto un amico o un vicino di casa. La band ha iniziato a farsi crescere baffi e barbe e a indossare cappelli. È a Woodstock che la gente ha iniziato a chiamarli The Band. La mancanza di un nome per il gruppo potrebbe lasciare perplessi, ma come spiega Robbie Robertson: «Per prima cosa, non ci sono molte band intorno a Woodstock e i nostri amici e vicini ci chiamano semplicemente la Band e questo è il modo in cui ci vediamo. E poi, non pensiamo che un nome significhi qualcosa. La cosa del nome ci è sfuggita di mano».
Una volta erano noti come Hawks. Per un po’ hanno pensato di chiamarsi Crackers. Ora che hanno pubblicato un album, non hanno ancora un nome. Inevitabilmente verranno identificati come la band di Bob Dylan, ma nemmeno Dylan li chiama così. Sebbene Dylan abbia dipinto l’immagine di copertina, abbia scritto una delle canzoni contenute, sia co-autore di altre due e abbia dotato le altre dell’inconfondibile influenza della sua presenza, Music from Big Pink è per la band una rivendicazione della propria identità. «C’è la musica della casa di Bob», dice il chitarrista Jaime (Robbie) Robertson, «e c’è la musica della nostra casa. John Wesley Harding viene dalla casa di Bob. Ma sono due case diverse».
Robbie è nato e cresciuto a Toronto. «Ero giovane, molto giovane quando mi sono avvicinato alla musica. Mia madre era una musicista e sono cresciuto col country. Poi, quando avevo circa 5 anni, ho sviluppato una passione per le big band. Suono la chitarra da così tanto tempo che non ricordo quand’ho iniziato, ma credo di essermi appassionato al rock come tutti gli altri». Robbie ha lasciato la scuola superiore per suonare nell’area di Toronto e ha avuto un suo gruppo per un po’ prima dei 16 anni.
A 24 anni, Robertson potrebbe essere considerato il leader della band, se la band si preoccupasse di cose del genere. Una volta è stato descritto da Dylan come «l’unico genio matematico della chitarra in cui mi sia mai imbattuto che non offende il mio nervosismo intestinale con il suo suono da vecchia scuola». Robertson aveva solo 15 anni quando è stato ingaggiato da Ronnie Hawkins, uno dei primi re e leggende del rockabilly. A soli 18 anni, Robertson era già una leggenda nella sua nativa Toronto e aveva fatto migliaia di chilometri per il Nord America rurale con Ronnie Hawkins and the Hawks.
Per un musicista, la polvere della strada non entra solo nei pori. Entra nei capelli, nel naso, negli occhi, nella bocca, nella voce e nella musica. «Abbiamo suonato ovunque, da Molasses, Texas, a Timmins, Canada, che è una città mineraria a circa 100 miglia dal limite dove non crescono più gli alberi», dice Robertson, e questa grinta si sente quando si ascolta Music from Big Pink. “Mi sono fermato a Nazareth”, scrive in The Weight, una delle quattro canzoni di Robertson presenti nell’album, “mi sentivo mezzo morto / Signore, può dirmi dove un uomo può trovare un letto? / Ha sorriso e mi ha stretto la mano / No, è stato tutto ciò che ha detto…”.
Il gruppo è composto da altri quattro musicisti. Come Robertson, tre di loro provengono dal Canada. Al basso c’è Rick Danko, nato da un taglialegna nel villaggio canadese di Simcoe dov’è cresciuto ascoltando il Grand Ole Opry con un Victrola a carica e una radio a batteria. A casa sua, spiega, non c’è stata elettricità fino a quando aveva 10 anni. Danko ha iniziato a suonare la chitarra, il mandolino e il violino prima delle scuole superiori e ha suonato in una band prima dell’adolescenza. Ha mollato la scuola superiore ed è entrato a far parte del gruppo di Ronnie Hawkins a 17 anni. «Ho sempre voluto andare a Nashville per fare il cantante-cowboy. Fin da quando avevo 5 anni, ascoltavo il Grand Ole Opry, il blues e le stazioni country». Prima di unirsi agli Hawks suonava la chitarra ritmica e ora il basso, non ama considerarsi un musicista. «Non so leggere la musica».
Al pianoforte c’è Richard Manuel che canta in uno stile che riecheggia il debole segnale del programma rhythm & blues di John R, che trasmetteva da Nashville sulla stazione radio WLAC. «Era la radio underground dell’epoca», ricorda Manuel. «Avevo circa 13 anni e dovevo stare sveglio fino a tardi per ascoltarla. Bisogna ricordare che all’epoca vivevo a Stratford, Ontario».
All’irgano c’è Garth Hudson, che aveva iniziato a frequentare l’università di agraria finché una fotografia dello zio che suonava il trombone in un gruppo da ballo lo spinse a studiare la teoria musicale e l’armonia. A 13 anni, dice, era l’unico a London, Ontario, a saper suonare il rock and roll. «I miei zii suonavano tutti in gruppi musicali e mio padre aveva molti vecchi strumenti in casa. Credo di aver iniziato a suonare il pianoforte quando avevo circa 5 anni». La band del liceo di Garth suonava «una specie di vaudeville», mentre solo più tardi ha iniziato a suonare il rock and roll. «Tuttavia ho ascoltato il country per anni. Mio padre trovava tutte le stazioni Hoedown alla radio e poi ho suonato la fisarmonica con un gruppo country quando avevo 12 anni». Dopo il liceo, Garth ha lasciato il Canada per formare il suo gruppo a Detroit. A differenza della maggior parte degli organisti rock, utilizza l’organo Lowrey che, avendo una più ampia varietà di suoni orchestrali, ha un effetto che arricchisce la struttura della musica del gruppo.
L’unico membro del gruppo nato negli Stati Uniti, il batterista Levon Helm, proviene da West Helena, Arkansas, che è anche la patria del suonatore di armonica blues Sonny Boy Williamson. «Lo ascoltavo molto da bambino», ricorda, «ma credo che le mie influenze siano più ampie». Come gli altri membri della band, Levon aveva un proprio gruppo rock al liceo. «Si chiamava Jungle Bush Beaters, ma era un bel gruppo». Levon non ascolta dischi. «È come per la televisione», osserva, «una volta ho guardato la tv per sei mesi interi. Non ho fatto nient’altro. È quello che succede quando si passa il tempo ad ascoltare. Finisci per non suonare, che invece è l’unica cosa che voglio fare».
I cinque si sono conosciuti suonando con Ronnie Hawkins, che li ha ingaggiati uno ad uno fino a quando, dopo tre anni, hanno smesso. Stavano suonando in un nightclub nella località balneare di Somers Point, New Jersey, quando, nell’estate del 1965, è arrivata una telefonata di Dylan. «Non avevamo mai sentito parlare di Bob Dylan», racconta Helm, «ma lui aveva sentito parlare di noi. Mi disse: “Volete suonare all’Hollywood Bowl?”. Così gli abbiamo chiesto chi altro avrebbe partecipato allo show. “Solo noi”».
Se Dylan, anche ne non ufficialmente, può essere ascoltato nel disco come sesto membro del gruppo, Music from Big Pink dovrà essere giudicato per i meriti della band, non per quelli di Dylan. Difficile però che accada. Per gusto, modestia, umorismo e forse anche per percezione, molti di questi meriti tendono a coincidere. Una delle più belle canzoni inedite di Dylan, I Shall Be Released, impreziosisce l’album come una benedizione. “Dicono che ogni uomo ha bisogno di protezione / dicono che ogni uomo deve cadere / eppure giuro che vedo il mio riflesso / da qualche parte così in alto sopra questo muro”, recita il testo, ma non è da meno la musica con cui, dal punto di vista strumentale, la band giustifica la scelta di Dylan che li ha voluti gruppo di accompagamento.
Fanno country-rock, con cadenze da W.S. Wolcott e Original Rabbit Foot Minstrel Show e musica che racconta storie come faceva lo zio Remus, con il sapore dei Red River Cereal e la consistenza della King Biscuit Flour Show. Robertson stesso la chiama musica di montagna, «perché questo posto dove siamo, Woodstock, è in montagna».
Con Music from Big Pink The Band si immerge nel pozzo della tradizione e tira fuori secchiate di anima country chiara e fresca che lavano le orecchie con un suono mai sentito prima.
Music from Big Pink è il tipo di album che dovrà farsi strada con la sua unicità, aprendo una porta da cui potrebbero passare altri artisti figli dell’esodo dalle città alla ricerca di una diversa moralità, con la fame di saggezza coltivata sulla terra. “Non stanno tutti sognando?”, canta Richard Manuel. “Allora la voce che sento è reale / tra tante trame e complotti / non possiamo tornare a provare qualcosa?”.
Da Rolling Stone US.