Per Michael Jackson, 'Off The Wall' non è mai stato abbastanza | Rolling Stone Italia
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Per Michael Jackson, ‘Off The Wall’ non è mai stato abbastanza

Venticinque milioni di copie, quattro singoli estratti (mai successo prima nella storia) e un Grammy: ma per un eterno insoddisfatto come MJ, il suo disco della ribalta, uscito 40 anni fa oggi, non ha mai dato i risultati aspettati

Per Michael Jackson, ‘Off The Wall’ non è mai stato abbastanza

Quest’epoca di ristampe, celebrazioni e anniversari può indurci a pensare che, vista la pochezza generale del panorama musicale odierno, per tornare ad emozionarci non si possa fare altro che rifugiarsi nel passato. Tuttavia, credo che l’aspetto più intrigante della riscoperta di album che hanno fatto non solo la storia della musica, ma anche dei costumi e della società, ci offra lo spunto per riscoprire e, magari, rivalutare, opere che rischiano di essere schiacciate dal peso del tempo.

È il caso di Off The Wall di Michael Jackson, che oggi festeggia il quarantesimo anniversario. Per comprendere l’importanza di un album come questo, tuttavia, è bene fare un passo indietro nella storia del fu King Of Pop. Per altro, quello che in molti considerano ancora il primo lavoro solista del più giovane dei Jackson Five, in realtà fu solo il primo per la Epic che, alla fine degli anni Settanta, era riuscita ad accaparrarsi anche le fatiche future della band della famiglia afroamericana.

Ciò che rendeva Off The Wall una sorta di debutto, semmai, era il fatto che per la prima volta Michael era riuscito a gestire il lavoro senza che nessuno interferisse, soprattutto per quanto riguardava la composizione dei brani. Sappiamo tutti che, già all’età di 5 anni, il piccolo Michael veniva obbligato a girare di locale in locale per cercare di attirare l’attenzione degli addetti ai lavori, facendo in modo di ottenere un contratto discografico per sé e per i suoi fratelli. L’impresa, ricercata con ogni mezzo lecito e illecito dal padre Joe, riuscì alla perfezione, spedendo il gruppo nelle braccia di mamma Motown, il sogno di qualsiasi artista di colore dell’epoca. Gli addetti ai lavori, in primis Diana Ross, capirono in brevissimo tempo che il ragazzino fosse il vero talento del gruppo, non solo per le spiccate doti canore, ma anche per i movimenti da musicista navigato che mostrava di possedere. Il piccolo, infatti, si muoveva già con estrema sicurezza sia sopra che fuori dal palco e fu proprio in quel momento della sua vita che intuì che il ballo sarebbe stato uno dei suoi migliori e più fidati compagni.

L’ammirazione al limite dell’ossessione per James Brown portò il giovane cantante a passare intere ore davanti allo specchio ad imitarne le mosse, la più riuscita delle quali rimaneva quella in cui Michael lasciava cadere il microfono per poi riprenderlo al volo prima che raggiungesse terra. In aggiunta, Michael mostrava uno spiccato senso per gli affari, cosa che da lì a pochissimo tempo l’avrebbe portato a trattare direttamente i propri contratti con le case discografiche. Nonostante il boicottaggio di diversi mezzi di informazione per motivi squisitamente razziali, i successi della band non si fecero attendere più di tanto: fin da principio, infatti, ogni singolo pubblicato dai cinque afroamericani raggiunse le posizioni più alte delle charts americane, allargando a macchia d’olio la loro fama nel mondo nel giro di pochissimi mesi. Lo stile rivoluzionario, che arrivava a fondere per la prima volta il funky tipico della black music con caratteristiche proprie invece della musica bianca, lasciò tutti di stucco ed ebbe il grande merito di spianare la strada al decennio di quella che tutti conosciamo con il nome di disco music.

Quando un loro singolo sorpassò in classifica niente meno che Let It Be dei Beatles, anche i più scettici dovettero arrendersi: i cinque non erano una meteora, ma qualcosa destinata a fare la storia del genere. Col tempo, tuttavia, le cose iniziarono a cambiare e, nel momento in cui per il gruppo gli affari diventavano sempre più difficili, in MJ cresceva la consapevolezza di avere qualcosa in più rispetto agli altri: con gli anni, infatti, la sua autostima aveva fatto passi da gigante e la naturale evoluzione di tale consapevolezza fu la volontà di incidere un album solista.

La Motown non si oppose, ma a patto che i brani venissero scritti dai loro autori e non dal ragazzo. Al primo disco in proprio ne fecero seguito altri tre, tutti discreti successi, con il picco della celeberrima Ben, ma Michael non sembrava mai soddisfatto da ciò che gli veniva proposto dagli autori della casa discografica. Quando, per problemi di carattere artistico, i rapporti con la Motown si incrinarono e i cinque passarono alla CBS e, da lì a breve, alla Epic, gli “affari di famiglia” sembrarono giunti davvero al capolinea, anche se il cambio di scuderia si rivelò un colpo da novanta. Pur dovendo cambiare il proprio nome in The Jacksons, fu loro permesso di scrivere i propri pezzi.

Il successo tornò a sorridere, ma non fu così per Michael, sempre più chiuso in un autoisolamento che sarebbe arrivato alle estreme conseguenze solo qualche anno più tardi. La dimensione in cui era relegato non faceva più per lui. Anni di sacrifici e maltrattamenti, uniti al grande successo ottenuto, avevano fatto sorgere in lui sentimenti contrastanti, fatti di ambizioni sfrenate unite ad una sacrosanta voglia di potersi godere la propria età come gli altri ragazzi. Tutto ciò segnò probabilmente in modo indelebile la psiche del giovane Michael, che pareva non riuscire mai a godersi il momento senza pensare ad un nuovo traguardo da raggiungere.

È a questo punto che, sul set di The Wiz (fallimentare trasposizione black del Mago di Oz), Jackson conobbe Quincy Jones. In modo molto naturale, Jones finì per diventare una figura paterna per Michael, che finalmente si trovò nelle condizioni di avere totale libertà artistica unita a quell’affetto che gli era sempre mancato. Il mix si rivelò decisivo. Se oggi in molti considerano la coppia Jones/Jackson alla stregua di quella composta da Lennon e McCartney, è anche per la simbiosi che si venne a creare durante le session di Off The Wall.

Decisi a mantenere le caratteristiche musicali che avevano reso golorioso il cammino dei Jackson Five, ma eliminando tutte quegli aspetti che suonavano ormai datati, in qualche modo i due posero le basi di quello che sarebbe diventato il modus operandi degli anni a seguire. Se l’R&B restava il punto di riferimento primario, la voglia di espandere i propri confini e la fruibilità del prodotto, portò Jackson a infarcire l’opera di quegli elementi fortemente pop che, da lì a poco, sarebbero diventati un marchio di fabbrica. L’intuizione più geniale, tuttavia, fu quella di coinvolgere nel progetto una serie di ospiti capaci di spingere i dieci brani del disco verso mondi diversi da quello della semplice disco music che dominava le classifiche dell’epoca: la presenza di gente come Paul McCartney, Stevie Wonder e Jeff Porcaro, solo per citare i più noti, diede un senso di universalità tale al disco da renderlo impossibile da classificare con certezza.

Il successo strepitoso che ne conseguì, oltre a spazzare via le voci che davano la sua fama in declino appena dopo la maggiore età, confermò a Jackson che la voglia di vivere finalmente una vita al di fuori dei confini della famiglia non era solo legittima, ma anche altamente proficua. Con venticinque milioni di dischi, quattro singoli estratti (mai successo prima nella storia) e il primo di una lunga serie di Grammy, Off The Wall si eresse ad album definitivo della fine del decennio. Per Michael, tuttavia, non era sufficiente: trovato dall’amico Quincy a piangere dietro le quinte dei Grammy, Jackson confessò che non si trattava di felicità, ma di infinita tristezza per non aver conquistato più statuette. La triste conferma di quell’incapacità di godersi il momento che, col senno di poi, lo avrebbe perseguitato per tutta la vita.

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