Da quel momento, il mondo avrebbe continuato a esistere senza David Bowie. Oggi come quel 10 gennaio 2016 pensare a lui come a uno degli artisti più influenti della storia è banale. Lo è soprattutto perché abbiamo ancora bisogno di lui, abbiamo bisogno di ricordare ciò che David Bowie ci ha rivelato.
A spiegare in una breve frase l’essenza di Bowie è una recensione del New Musical Express nel 1972: “He’s everything all at once”. È il tutto, un artista e performer dotato di una visione senza confini dell’espressività, la cui vita si intreccia al presente ed è in grado di intravedere il futuro. Ben prima che si parli di globalizzazione, in un pianeta spaccato tra blocchi e ritagliato da confini, David Bowie è cittadino del mondo. Nasce nella suburbia di Londra e si trasferisce a New York nel 1974 attingendo linfa vitale dal suo cosmopolitismo, approda nella fucina creativa di Berlino. Superare le frontiere, anche in apparenza invalicabili, lo porta a confronto, contaminazione, persino alla messa in discussione delle proprie idee. Definito spesso un visionario, Bowie in realtà indaga il presente reale da una prospettiva inedita e sfaccettata. E, proprio per questo, è sempre un passo avanti, un esempio da seguire in un tempo, il nostro, dove l’accesso a luoghi, informazioni ed esperienze non solo è immediato, ma anche quotidiano.
Se il coraggio è la prima delle grandi lezioni da tenere a mente, la fiducia in se stessi ne è una conseguenza. I grandi scrittori (quelli veri) sanno bene quante pagine finiranno nel cestino prima di essere riempite con le parole giuste. Se Bowie non avesse perseverato nella sua carriera, niente sarebbe esistito: il suo primo singolo è datato 1964 e, fino al successo di Space Oddity, le cose non vanno granché bene per lui. Il che significa, per arrivare all’anno in cui l’uomo mette piede sulla Luna, un intero lustro di tentativi, ricerca, delusioni e perseveranza. Cinque anni che rappresentano, considerati ora, un tempo infinito.
Quello di David Bowie è un individualismo sano, che non sfocia nel culto edonista della propria immagine o nella spasmodica ricerca di approvazione. Piuttosto, è la spinta all’essere ciò che ognuno sente nel profondo, una rivoluzione nell’espressione del singolo, la costruzione della propria strada, tra curve e salite, in nome del libero arbitrio. Tutto questo passa attraverso l’arte. E la ricerca di David Bowie è straordinaria, dall’elaborazione di un proprio metodo di scrittura creativa dei testi, che procede per accostamenti sintattici e sonori di parole, alla costruzione melodica e armonica dei brani. È in grado di eludere le aspettative di chi ascolta, osando cambi di tonalità, esplorando soluzioni sonore inedite: nella musica tanto quanto nella performance, così come nella sua immagine pubblica, David Bowie è il lucido imprevisto che riesce a stupire. E perché, a pensarci bene, l’imprevisto è pericoloso? Perché non assicura certezza, non dà risposte: fa pensare, sempre. Con le dovute eccezioni, oggi le costruzioni dei brani pop, anche quelle più solide e ben articolate, puntano alla sicurezza, alla reiterazione di schemi musicali noti, di tonalità decise, in grado di accendere facilmente le emozioni, dai pianti in minore all’eccitazione delle battute in quattro quarti, con la certezza di essere facilmente compresi da un pubblico vasto e poi diffusi e ascoltati.
A proposito di arte (e non solo di musica), la commistione tra modi espressivi, l’idea romantica di un artista assoluto in Bowie è così naturale da essere disarmante. Porta le idee avant-garde al grande pubblico e non teme i riferimenti colti, anzi: nei dischi tanto quanto durante i concerti e persino nelle interviste, diventano linguaggio quotidiano, che tocca, tra gli infiniti spunti, la commedia dell’arte passando per William S. Burroughs, si perde nei sogni di De Chirico e mutua la gestualità di teatro Kabuki e Nō. Senza dimenticare la relazione simbiotica tra rock e moda che lui stesso alimenta per anni, ispirando stilisti e altri grandi artisti (senza di lui, avremmo mai avuto una Lady Gaga?). La totale dedizione all’arte, la fusione tra uomo e artista continua fino alla morte, con quel brano, Lazarus, e l’intero disco Blackstar a diventare un vero e proprio testamento. Mai avere paura di spalancare i propri orizzonti, dunque, mai evitare il rischio di unire linguaggi diversi.
In più, Bowie è un iconoclasta, un destrutturatore delle stesse ispirazioni e, allo stesso tempo un creatore di immagini nuove. L’idea della sovversione in lui non è fine a se stessa. In diverse interviste, dichiara che la strada del rock è stata un modo per infrangere dogmi tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70, un approccio che appartiene al passato. Già nel 2000, parlando a Newsnight, sostiene che “è internet a portare avanti le idee di sovversione e ribellione”. Ed ecco l’importanza di uno sguardo sempre a fuoco sulla realtà presente: siamo sempre in grado di utilizzare al meglio uno strumento che ha in sé un tale potere, non solo nell’arte?
Infine, e non certo per importanza, David Bowie ci ricorda quanto fondamentale sia l’autoironia. Perché prendersi sul serio non solo è noioso, ma può essere dannoso. Se uno come Bowie riesce a giocare su se stesso, perché non potrebbe farlo chiunque altro, scrollandosi di dosso il macigno della serietà? Ed ecco, ad esempio, il suo cameo in Zoolander.
E oggi, che cosa potrebbe dirci ancora David Bowie? Gustav Mahler disse che “la tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri”: per questo, il ricordo di David Bowie non è che una scintilla paragonata a quanto ha insegnato a un intero mondo, viaggiando attraverso decenni e continenti. Bowie ha insegnato la costante evoluzione, il confronto con gli altri e soprattutto con se stessi, l’inesauribile tensione al superamento dei propri limiti. Come artista, ha sempre ricercato l’originale come punto di svolta, l’inatteso come ispirazione: pensare fuori dagli schemi è l’inizio della rivoluzione. Quelle di David Bowie non sono ceneri, è una fiamma che ci guida a riscoprire il nostro presente. Oggi manca un artista che è stato in grado di fare ciò che l’arte dovrebbe fare: tenere svegli.