Ho provato a digitare la parola coronavirus sul motore di ricerca di Spotify. Non ero in cerca di podcast informativi, volevo capire se c’erano canzoni sul virus. Volevo vedere fino a che punto il Covid-19 s’era infiltrato nella discografia. M’aspettavo di trovare una mezza dozzina di risultati e invece sono decine le instant songs sull’argomento pubblicate nelle ultime settimane. E non si tratta della catena di freestyle che i rapper italiani stanno postando su Instagram e nemmeno delle parodie da social come la Macarena trasformata in Quarantena. Parlo di canzoni presenti sulle piattaforme di streaming.
C’è di tutto in questo girone dantesco dove chi entra lascia ogni speranza sul futuro della musica. Si va dagli 856 mila ascolti di La cumbia del coronavirus di Mister Cumbia ai 10 mila di Coronavirus di Truce Baldazzi. La mina vagante del LOL rap italiano ha dedicato un intero EP all’argomento Covid 19. In copertina c’è lui con la lingua fuori, le braccia alzate, la scritta “malato mentale”. Le canzoni hanno titoli come Peste, Ordinanza, Rimanete in eterno. Poi sono sceso ancora più in basso, negli anfratti dove vagano aspiranti rapper con nemmeno 2000 ascolti al mese e la speranza di farsi notare scrivendo rime sul Covid. Tre artisti, chiamiamoli così, hanno deciso di chiamarsi Coronavirus e un quarto, evidentemente più fantasioso, s’è battezzato Wuhan Coronavirus. Non li vedi in faccia: nel tondino del ritratto ci sono maschere d’ogni tipo, anche antigas, e un disegnino di una faccia con le corone del virus al posto dei capelli. L’ironia sta diventando una piaga sociale, diceva quello pochi anni fa.
Mister Cumbia è il capofila di questa ondata diciamo così virale. Si chiama Ivan Montemayor, pare stia a New York, immagino scriva canzoni con un occhio a Google Trends e uno a Fox News. Ne ha composta una sulla scarsità di carta igienica negli Stati Uniti intitolata Se acabo el papel, ovvero la carta è finita, e una sulla necessità di lavarsi le mani, argomento trattato anche nella Cumbia del coronavirus. Mai pago, ha inciso pure El huapango del #coronavirus e El regueton del #CumbiaDelCoronavirus, scritti così, con l’hashtag già pronto per l’agognata condivisione.
Possiamo deriderlo e considerarlo una scoria della discografia seria. È probabile però che Mister Cumbia qualche soldo lo stia facendo con questa storia. Non sta ancora realizzando numeri da hit, ma questa settimana il suo pezzo sul Covid-19 è al numero uno della Spotify Viral 50 in Argentina, Bolivia, Cile, Colombia, Costa Rica, Guatemala, Paraguay, Perù, Spagna e Uruguay. In Ecuador, Honduras e Messico è al numero due. È in buona compagnia. Le prime tre canzoni della Viral 50 spagnola, ad esempio, hanno titoli legati al virus.
Gli utenti di Spotify del Centro e Sud America sembrano apprezzare queste canzoni, ma non sono gli unici. Al secondo posto della Viral 50 globale, ovvero la classifica dei brani in ascesa su Spotify in tutto il mondo, c’è Corona Virus di Yofrangel e Fraga. Mister Cumbia è al quarto posto. In quella italiana Corona Virus è al quinto posto, l’ingresso in classifica più alto dopo Bando di Anna. E naturalmente c’è il caso di Bello Figo, che poche settimane fa ha pubblicato la canzone Coronaovirus, col vezzo della ‘o’ piazzato a metà titolo. La frase “un sacco di gente mi vogliono (sic) ammazzare, ora anche corone (sic)” è stata ascoltata più di 800 mila volte su Spotify. Su YouTube, dove forse per facilitare la ricerca non c’è la ‘o’ nel titolo, ha quasi 4 milioni di visualizzazioni.
Il video di Bello Figo inizia col cantante al telefono che dice a un amico che col coronavirus si scopa poco. C’è qualcosa d’inquietante e assieme rassicurante nel fatto che sotto a queste immagini, prima di nome del cantante e del titolo della canzone, ci sia un banner del Ministero della Salute. È abbinato a tutti i video di YouTube contenenti la parola coronavirus, anche quelli in cui si spiega che il Covid-19 è stato forse creato in laboratorio. Cliccando sul banner si arriva alla pagina del Ministero con le ultime notizie e i numeri aggiornati di positivi, deceduti e guariti, un brusco ritorno alla realtà dopo il “qualcuno può trovare la cure (sic)” di Bello Figo.
Per lanciare la sua canzone sulle città svuotate dal Covid – titolo ovvio: Coronavirus, è il SEO bellezza – pochi giorni fa il rapper Tom MacDonald ha postato su Instagram una sua foto con una mascherina azzurra. Sopra c’è scritto a pennarello il messaggio “New Video at 9 am”. Noi non usciamo di casa, ma l’autopromozione fa lunghi giri. Kaseeno, che tossisce durante la sua (indovinate un po’) Coronavirus, ha messo la mascherina direttamente nell’immagine profilo. In quattro giorni il video ha fatto solo 8500 visualizzazioni, un flop. Su Spotify conta 161 mila ascolti. Non sta andando granché bene all’italiano Gianfish, chiunque egli sia, che ha messo l’immagine del virus sulla copertina della sua (esatto) Coronavirus. L’ha pubblicata il 25 febbraio, prima cioè delle misure più restrittive contenute nel DPCM. Questo mese solo 18 persone hanno ascoltato la sua musica su Spotify. Il dj iMarkkeyz è a un altro livello. Ha preso la registrazione di Cardi B che su Instagram urlava “Coronavirus” e “shit is getting real” e l’ha trasformata in un pezzo dance da centinaia di migliaia di ascolti e views titolato (eh già) Coronavirus.
Niente di tutto ciò sarebbe possibile se non vivessimo in un’economia musicale sempre più basata sullo streaming. “A volte la scrittura di una canzone risponde alla domanda: come faccio a convincere qualcuno a cliccare sul mio pezzo?”, spiegava l’anno scorso al Rolling Stone americano il produttore Warren ‘Oak’ Felder. Significa che, un po’ come i siti d’informazione reagiscono in tempo reale a notizie e trend, oggi autori e produttori hanno i mezzi per registrare e pubblicare in tempi ragionevolmente brevi canzoni sui temi del momento nella speranza che qualcuno ci clicchi su per curiosità. Un tempo avrebbero dovuto prenotare una sala d’incisione, far stampare il disco e la copertina, aspettare i tempi della distribuzione. Passavano settimane, a volte mesi.
Le novelty songs, canzoni dal taglio umoristico che a volte sfruttano temi di moda, ci sono sempre state. Alcuni dei pezzi citati sono però seri, alcuni ambigui. Ci sono sempre stati anche i testi che commentano i fatti di attualità, da Abraham, Martin and John di Marvin Gaye uscita nella versione di Dion quattro mesi dopo la morte di Martin Luther King o la Sunday Bloody Sunday che John Lennon pubblicò cinque mesi dopo la strage di Derry. Le canzoni sul coronavirus non sono altrettanto nobili. Sono novelty songs per questo tempo accelerato, pensate per la fruizione della musica un po’ distratta e un po’ ironica a cui ci stiamo abituando. Possono cercare di catturare la curiosità del pubblico, ma se la devono vedere con una concorrenza agguerrita. All’incirca un anno fa Daniel Ek, fondatore di Spotify, ha detto che ogni giorno vengono caricate sulla piattaforma 40 mila nuove canzoni. È spaventoso o forse rincuorante: il mondo è pieno di canzoni orrende che non ascolteremo mai.
La pochezza musicale, la produzione cheap, la paraculaggine e l’esuberanza ostentata di La cumbia del coronavirus sono irritanti. Eppure centinaia di migliaia di italiani hanno ascoltato questa canzone che invita a lavarsi le mani e a stare lontani dagli amici nel caso si abbia contratto il virus, il tutto a ritmo di cumbia e con un video pensato come una rassegna di vignette LOL su un argomento che LOL non è. Forse dovremo abituarci a cose del genere o forse ci siamo già abituati a forza di ascoltare canzoni che somigliano a meme, prodotte con approssimazione casalinga.
Non passerà tanto velocemente. In un ecosistema come quello della musica registrata che basa la sua sostenibilità sul consumo di massa in streaming degli stessi contenuti per un breve periodo di tempo, e che dà accesso alle canzoni tramite la ricerca per titolo, potremmo ascoltare molte altre instant songs. Pregate che le canzoni sul coronavirus non abbiano successo: potrebbero diventare la regola e non l’eccezione.