«Tornare a casa dalla mia famiglia e dai miei amici dopo Sanremo è stato un po’ uno shock, sia per me che per loro. Mi guardavano in maniera diversa. Io però non mi sentivo cambiato. Per loro ero Olimpo, dentro di me ero sempre ghetto».
Mahmood ci ha parlato così dell’idea dietro Ghettolimpo, il suo nuovo album che – già dalla crasi del titolo – racconta secondo una specie di autoanalisi il post Festival di Soldi, il successo improvviso, l’essere diventato di colpo una popstar con quello che (non solo mediaticamente) comporta. Se infatti Gioventù bruciata, cioè il disco in cui era contenuta quella prima hit e che l’ha accompagnato fuori dall’Ariston nel 2019, era concentrato sul passato, fra le tutone e la periferia di Gratosoglio, Milano, in cui è cresciuto, per descrivere quel mondo lì, al massimo l’evasione da una situazione non semplice anche dal punto di vista famigliare, ora il tema è diverso. E lui, questa nuova dicotomia fra stelle e fango, “resto lo stesso sebbene l’Eurovision”, ce la restituisce con 14 pezzi street pop, da karaoke perché hanno quella dimensione popolare e collettiva, l’attitudine al singalong da stadio, eppure anche pieni di echi urban e trap (i rullantini, le produzioni asciutte), slang insoliti per la canzone italiana da radio, riferimenti in zona hip hop tipo soldi, marche, farcela da sé. E ce la restituisce con un immaginario e un’estetica – a fuoco, forti, non derivativi – che avvolgono il tutto.
Ovvero questo basato sugli dei dell’Olimpo per i quali – citiamo – nutre «una passione nata da un’enciclopedia per bambini che leggevo spesso in camera mia». Infatti i protagonisti della mitologia compaiono sin dall’introduzione Dei, quasi un ritratto di gruppo (Zeus, Atena, Venere, Tritone, Ade, ecc) e poco meno che bussola di un concept, mentre ritornano già nella copertina, che riprende il mito di Narciso solo con lo stesso Mahmood che, specchiandosi nell’acqua, si ritrova con una coda da scorpione, distorto, non si riconosce. «È così che mi sono sentito dopo Sanremo». Altro che tuffarsi. E altro che ricopiare la storia classica.
Tant’è che, se comunque i miti originali erano già di loro perfettibili, viziosi, umani più di quanto siamo abituati a concepire le nostre immagini di culto, il punto è che nell’album vengono ribaltati nel senso, indeboliti, sporcati con riferimenti – dicevamo – di strada e pure di fumetti giapponesi. Che possono, oltre che rimpolpare l’immaginario di base in maniera più complessa e originale (mancano popstar appassionate di manga che li citino nei pezzi, mentre una Penelope era già stata chiamata in causa da Achille Lauro, per non parlare di Icaro), rappresentare un altro passepartout. Cioè: chi non conosce il protagonista di Inuyasha, là dove “la verità brucia in faccia come la cicatrice di Inuyasha”? Chi ha fra i 18 e i 35 anni e non sa di che si parla quando in Baci della Tunisia dice “mi arrabbio come Majin Bu”? Ecco.
Anche per questo, è chiaro che il Ghettolimpo è luogo pop e ibrido già dal nome, dove rileggendo il mito classico gli dei si fanno insicuri, vicini, bellissimi ma di cartapesta, più che di marmo. Per dire: la chiusura di Icaro è libero ribalta l’idea dell’Icaro perdente arrivata a noi, tipo che sarà anche andato pure verso una finaccia ma almeno ha dispiegato le ali (di cera); è tutto lì. E in mezzo, poi, si inseriscono le radici dell’autore, quindi case popolari, manga da cameretta, storie d’amore metropolitane fra l’incomprensione e l’essere sottoni, personaggi cliché della strada tipo il cobra (il subdolo, per capirci) di Kobra, il branco che non si vuole abbandonare nonostante la fama e che anzi protegge dai suoi lati scomodi (la fiera zarrata di Klan), come pure il ricordo rigorosamente “peggio dell’Ade”, del regno dei morti di Rapide che in ordine cronologico – è uscita nel primo lockdown – ha iniziato il concept.
Ma qui il dio fragile e fluido è Mahmood stesso, quello che nell’Olimpo non scorda il ghetto e anzi lo porta su con sé è lui. E questa nuova corrispondenza cielo-asfalto, oro e melma, funziona: nelle canzoni, che fondono melodia italiana all’urban, al rap, alle suggestioni desertiche (nel vero senso della parola) di Dorado e Baci dalla Tunisia, all’R&B; nei testi meticci, per lingua e riferimenti culturali; e nell’estetica. Per cui, sì, oltre a distinguersi come album pop in sé – contiene al contempo hit di classe ed episodi più sperimentali e tosti da digerire, suoni attuali mischiati con musica sarda e arabismi, un lessico inedito – questo disco lo fa grazie a un concept su più livelli che in pochissimi in Italia riescono a sviluppare.
Poi, certo, astraendo la narrazione si può dire che racconti anche una voglia universale di scappare, di realizzarsi, e lo spaesamento che si incontra dopo aver ottenuto il successo, raggiunto l’obiettivo. Ma non sempre è facile trovarsi in connessione personale con questa storia, riconoscersi nell’artista partito dai palazzoni e salito in cima alle classifiche col pop, oltretutto mettendo nei brani quel tipo di vissuto lì. In ogni caso, però, le intersezioni di un album così ci spingono a una riflessione sul ruolo della popstar di successo, che è probabilmente quello che Mahmood vuole dirci davvero – o comunque quello che ci dice meglio.
Nel senso: con Ghettolimpo ci sta raccontando il suo dilemma, che poi è il motore di tutto il lavoro; ovvero non mettetemi su un piedistallo, non divinizzatemi, ché gli dei sono molto più umani di quanto si crede e io rimango il ragazzo di periferia di sempre. Piuttosto prendo i miti greci e li sporco col mio mondo. Mi approprio della canzone italiana, ma la rendo attuale, internazionale, la riempio di miei riferimenti. Faccio pop, però senza seguire i suoi codici classici. Ed è l’unico nella nostra musica a riuscirci, a portare la strada che ha realmente in radio risultando credibile e pop. Gli altri non hanno i numeri, l’influenza mediatica, semplicemente non scelgono quel genere. E, nel caso di popstar con background simile, il gioco non rende: Elodie, per esempio, ha un trascorso affine, ma risulta più classica e meno contaminata dell’urban nonostante alcuni suoi pezzi siano firmati proprio da Mahmood; mentre – per essere audaci e guardare dietro – un Biagio Antonacci viene sì da Rozzano, periferia di Milano, ma nelle canzoni non ha mai ripercorso quelle realtà.
Mahmood invece si porta dietro tutto e lo dà a vedere, fino all’Olimpo dei dischi di platino, del milione di follower su Instagram, dell’airplay e delle comparsate in certi programmi tv. È uno dei pochissimi a non suonare banale, ora che dice di non essere cambiato, ora che tutti vedono in lui un dio greco. Lui si prende quelle immagini, le capovolge e si mostra fragile. E, da solo, vince.