«Quello spettacolo fu la cosa più ambiziosa che avessi mai tentato», scrive David Byrne nel suo celebre saggio Come funziona la musica a proposito del tour tenuto dai Talking Heads nel 1983 in supporto all’album Speaking in Tongues. Nonostante il libro sia uscito solamente nel 2012, Byrne e compagni avevano capito già ai tempi il potenziale di quello show tanto da decidere di investire di tasca propria più di un milione di dollari per realizzarne un film concerto dal titolo Stop Making Sense. Nel 2021, quando venne selezionato per la conservazione nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti, il film venne definito «culturalmente, storicamente ed esteticamente significativo». Come spesso è accaduto nella storia della musica, David Byrne ci aveva visto giusto.
A quarant’anni dalla sua uscita in sala, Stop Making Sense tornerà nei cinema italiani per tre giorni dall’11 al 13 novembre, restaurato in 4K e con la colonna sonora totalmente rimasterizzata da Jerry Harrison, chitarrista e tastierista dei Talking Heads. Per la band un’occasione di farsi rivedere assieme (in una serie di conferenze stampa) dopo anni di litigi successivi allo scioglimento del 1991, per tutti gli altri una chance imperdibile di vedere in sala quello che è considerato come uno dei più grandi film rock di sempre.
Girato in quattro differente serate al Pantages Theater di Los Angeles tra il 13 e il 16 dicembre 1983 da Jonathan Demme, Stop Making Sense è la sublimazione filmica delle idee di Byrne. Il tour pensato dall’artista portava in scena una serie di sperimentazioni che poco dovevano ai concerti rock quanto più al teatro giapponese e alle danze balinesi, posizionando i Talking Heads in un territorio inedito per la musica occidentale. Scrive Byrne: «Compresi che era possibile fare uno spettacolo senza fingere che fosse “naturale”. L’enfasi occidentale sulle pseudo-naturalismo e il culto della spontaneità come sinonimo di autenticità erano solo uno dei possibili modi di comportarsi sul palco. Stabilii che non c’era niente di male nell’indossare costumi e mettere in scena uno spettacolo. Ciò non implicava alcuna insincerità».
Stop Making Sense è proprio in queste parole: è la ripresa di un live che si pone l’ambizione di essere uno spettacolo capace di portare all’interno di un concerto un intreccio di teatro, arte, musica occidentale e orientale venendo – a differenza dei concerti rock dell’epoca – preparato e stabilito in partenza in ogni singolo particolare.
Non esiste oggi (come ieri) un film concerto che non si apra con fiumane di pubblici urlanti. In Stop Making Sense possiamo sentire il pubblico, ma per vederlo dobbiamo aspettare l’ultimo brano in scaletta Crosseyed and Painless. Questa era la visione rivoluzionaria di Demme, ampiamente sposata dalla band: non mostrare altro che quello che accade in scena. Stop Making Sense si apre con quella che si svelerà essere un’inquadratura sul pavimento del palco su cui scorrono i titoli d’apertura che citano Il dottor Stranamore di Stanley Kubrick. Seguiamo così le sneaker bianche di Byrne fino al centro del palco dove, a sorpresa, posizionerà uno stereo da cui partirà la sezione ritmica di Psycho Killer, quello che oggi è rimasto come uno dei più grandi successi della band. Byrne si esibisce così chitarra e voce (e tutte quelle mosse pazze del corpo che caratterizzeranno lo show) mentre Demme ci svela il resto dello stage. Il palco però è vuoto, sul fondo si vedono due scale abbandonate, non ci sono quindi né gli strumenti, né i Talking Heads. Dov’è la band? Dov’è la scenografia? Ce lo chiediamo noi a casa, come sicuramente se lo sarà chiesto il pubblico in sala. Altro colpo di genio. Spiegherà Byrne: «L’idea era che la gente avrebbe guardato il vuoto e pensato alle sue possibilità». Un palco nudo per uno «spettacolo trasparente».
Per il secondo brano in scaletta (Heaven) Byrne viene raggiunto sul palco da Tina Weymouth, la bassista della band, anche lei in un due pezzi beige. Mentre i due si esibiscono alcuni tecnici portano sul palco la pedana con la batteria. Tutto è palesato, niente è nascosto, il pubblico è testimone della costruzione del palco. Per Thank You for Sending Me an Angel ai due si aggiunge il batterista Chris Frantz. Solo al tredicesimo minuto, con l’arrivo di Jerry Harrison per Found a Job, vediamo per la prima volta la band al completo sul palco nonché il primo accenno di teste rimbalzanti delle prime file. Le coriste Lynn Mabry e Edbah Holt – posizionate al centro della scena di fianco a Byrne piuttosto che come di consueto nelle retrovie – entrano al brano successivo, Slippery People, ma solo con la sesta canzone in scaletta (Burning Down the House) si vede la formazione live al completo dei Talking Heads con l’aggiunta di Alex Weir alla chitarra, Berbie Worrell alle tastiere e Steve Scales alle percussioni. Tutti, escluso Frantz, in abiti di tonalità di grigio («di solito un musicista o un cantante decideva di vestirsi con una maglietta bianca o nera e finiva per più di tutti gli altri o per essere invisibile. Evitammo il problema», la motivazione).
Il palco ora è definitivamente pronto, con le luci giocate solo su varie tonalità di bianco ideate con la light designer Beverly Emmons e una pulizia minimale che cancella ogni possibile distrazione come da visione di Byrne: «Feci dipingere di un nero opaco tutte le parti di metallo (le meccaniche e i supporti dei tamburi, le aste dei piatti e i reggitastiera) in modo che non eclissassero i musicisti. Nascondemmo gli amplificatori delle chitarre sotto la piattaforma su cui suonava il gruppo di supporto».
Lo spettacolo, come raccontato, prosegue costruendo brano dopo brano delle scene precise, proprio come a teatro. Ci sono le coreografie come quella in cui Byrne, Weymouth, Weir e le coriste per Life During Wartime, i visual di Making Flippy Floppy, l’occhio di bue su fondale rosso di Swamp, i controluce spettrali di What A Day That Was e soprattutto la messa in scena di This Must Be the Place (Naive Melody), in cui la band si riunisce intimamente attorno a una lampada posizionata al centro della scena con cui Byrne condivide un ballo assurdo durante l’assolo di tastiera del brano. E parlando di assurdità, come non citare il personaggio occhialuto di Once in a Lifetime mosso da movimenti spastici presi «dalla danza di strada giapponese, dalla trance del gospel e da alcune mie improvvisazioni», come racconterà Byrne.
Mentre Demme continua un percorso inedito di montaggio video, scegliendo riprese lunghe rispetto a un ritmo serrato (per questo motivo il film fu girato in quattro differenti serate), ecco un’altra follia/genialata: Byrne esce di scena e i Talking Heads si trasformano nei Tom Tom Club, la band parallela di Frantz e Weymouth, che si esibiscono nel loro cavallo di battaglia, Genius of Love. Pensate sia finita qui? Assolutamente no. Byrne torna sul palco per quello che diventerà il simbolo di Stop Making Sense: ispirato al teatro nō giapponese, e convinto dai consigli dell’amico stilista Jurgen Lehl che a Tokyo gli ricorderà che «sul palco tutto deve essere più grande», Byrne si presenta on stage con un abito dalle dimensioni esagerate per il trittico conclusivo formato da Girlfriend Is Better (da cui è estratto il titolo Stop Making Sense), Take Me to the River e Crosseyed and Painless.
Nella sua ora e mezza Stop Making Sense reinventa l’immaginario del concerto rock. Disinnesca la trappola della finta sincerità a tutti i costi aprendo il live a tutte quelle infinite possibilità a cui il pubblico si è trovato di fronte guardando il palco “vuoto” di inizio concerto. Stop Making Sense è, inoltre, la sublimazione del percorso dei Talking Heads, una band che ha sempre cercato di ribaltare le carte in tavola, mescolando generi ed estetiche senza mai cedere al lato più semplice del music business. Byrne continuerà a indagare queste infinità possibilità in tour come quelli di Rei Momo, Love This Giant (con St. Vincent, plasmando completamente il rapporto della musicista con la performance), American Utopia o in opere ancora più sperimentali e ambigue come The Knee Plays.
In un mondo di film-concerto che hanno senso solo come (auto)celebrazione di un determinato momento, Stop Making Sense si pone come un portale per un’altra dimensione live, dove il concerto non è una mera riproposizione di canzoni bensì una scatola dei sogni in cui mettere in scena ogni qualsivoglia idea dell’artista. A 40 anni dalla sua pubblicazione, rimane un capolavoro, un punto di riferimento, un’ispirazione per generazioni di artisti a venire. Magari rivederlo in sala potrà riportare nuova linfa creativa nel mondo della musica live.