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Phil Palmer, una vita da (chitarrista) mediano

Intervista al musicista che ha suonato con tutti, dai Kinks (suoi zii) a Eric Clapton ai Dire Straits, e l’ha raccontato nel libro ‘Session Man’. «Ho capito di essere uscito dall’ombra in Italia», dove ha collaborato con Zero, Daniele, Battisti. Presente l’assolo in ‘Con il nastro rosa’?

Foto press

«Phil, ti ricordi quella sera? Eravamo noi, Ron Wood, Eric Clapton, Jeff Beck e quel super batterista, forse Phil Collins». «No era Roger Taylor, cara». Quella che potrebbe sembrare una barzelletta delle scuole medie, in cui al posto del francese e del tedesco ci sono star mondiali del rock è una classica chiacchierata di Phil Palmer, di cui è da poco stata tradotta per il mercato italiano l’autobiografia Session Man – Una vita da chitarrista, con la moglie Numa.

Qualunque appassionato di rock (ma in realtà anche di musica italiana) dovrebbe essersi imbattuto almeno una volta nel suo nome, stampato tra i crediti di oltre 450 dischi dall’inizio degli anni ’70. Per i meno attenti e per i troppo giovani per avere familiarità con la sua figura, Palmer potrebbe essere definito uno dei testimoni silenziosi di un bel pezzo di storia del rock. Dagli inizi con i Kinks, sua famiglia d’origine (Ray e Dave Davies sono suoi zii) ai Dire Straits, passando per David Bowie, Iggy Pop, Eric Clapton e centinaia di altri, Palmer ha vissuto in prima persona l’evoluzione della musica rock degli ultimi 50 anni, segnandola in modo discreto.

La sua presenza discreta ma fondamentale nelle session di registrazione di alcuni dei dischi più importanti della storia ci ricorda che dietro ogni grande successo sta spesso il lavoro di musicisti eccezionali, magari poco noti al pubblico generalista solo per il fatto di aver scelto di restare nell’ombra. Una situazione che, nel tempo, potrebbe diventare anche frustrante. Non per Phil. «Assolutamente no, ho capito subito di preferire quel tipo di lavoro piuttosto che starmene davanti ai riflettori. Come vedi, anche sulla copertina del libro mi nascondo dietro alla chitarra. C’è chi nasce per una cosa e chi per l’esatto opposto».

Esattamente come quello di molti dei colleghi più esposti mediaticamente, il racconto della sua vita è di quelli che non dormi mai: viaggi senza fine in ogni angolo del mondo, collaborazioni con tutti o quasi gli idoli giovanili, incontri sensazionali e disavventure varie. Il tutto condito inevitabilmente dai cliché che la vita on the road porta con sé. «Ho vissuto molto di più di quello che potevo sognare e continuo a farlo oggi. Sono finito in situazioni allucinanti e ho chiaramente assaporato la vita rock’n’roll descritta nei libri di settore, ma sono sempre riuscito a fermarmi al momento giusto, perché sono sempre stato una persona solida».

Foto: Mick Hutson/Redferns via Getty Images

Certo che è difficile immaginare una school of rock migliore e più folle di quella dei fratelli Davies. «La migliore possibile. Mio zio Dave girava per banchi dei pegni in cerca di chitarre vendute da musicisti caduti in disgrazia. Tra quelle, aveva trovato una Telecaster, che in realtà ai tempi per problemi legali la Fender non poteva chiamare in alcun modo, che mi regalò. Col tempo ho scoperto trattarsi di un pezzo da collezione, per gli esperti una Nocaster proprio per via della causa legata alla sua produzione agli inizi degli anni ’50. La uso ancora oggi. È quella che ho utilizzato su Bad Love di Eric Clapton».

Quando è andato in tour con i Kinks, Phil aveva da poco compiuto 20 anni: «In America stavano ottenendo un successo clamoroso e mi chiesero se volessi accompagnarli come tecnico delle chitarre e driver occasionale. Di colpo mi ritrovai a New York, catapultato in un mondo che avevo conosciuto solo per immagini e per giunta con un gruppo di successo. Per la prima volta mi accorsi di non conoscere davvero le persone con cui mi trovavo. In Inghilterra erano una cosa, lì si trasformavano completamente. Mi sembrava spaventoso, ho finito per fare le stesse cose».

Per gran parte del libro quando si riferisce a Clapton, nonostante siano ormai cari amici, Palmer lo chiama God, come se si trovasse ancora nella Swinging London dei primi anni ’60. «Sì perché ricordo ancora tutto il tempo passato a 17 anni a imparare l’assolo di Badge, forse la cosa che più di ogni altra mi ha spinto a diventare un musicista. Non c’era niente al di fuori di lui. Poi nell’88 suonavo con Paul Brady e a un certo punto comparve Dio. Non potevo saperlo, ma poco tempo dopo mi sarei ritrovato in studio a registrare Journeyman e a suonare con lui alla Royal Albert Hall, nei concerti che vennero poi pubblicati in 24 Nights».

Una di quelle sere, Phil comprese che Clapton non era solo un genio della chitarra, ma un uomo di sensibilità rara. Il padre di Palmer non aveva mai accettato appieno la scelta del figlio di diventare un musicista ed era sempre stato un padre-colonnello. «Una sera Clapton mi disse di invitare i miei, perché non potevano perdersi un’occasione come quella di vedermi suonare all’Albert Hall. Li mandò a prendere in limousine e mi lasciò suonare un assolo, una cosa che non era mai successa prima. Alla fine mio padre venne nel backstage ci abbracciammo forse per la prima volta».

Clapton si ferma per un po’ e Palmer viene reclutato da Mark Knopfler per l’album dei Dire Straits On Every Street e per il successivo tour. È quello che gli darà la fama mai cercata veramente. Gira il mondo in arene stracolme, ma ha un rimpianto: «Quando Clapton si mise a cercare musicisti per il suo Unplugged mi chiamò, ma io avevo già dato la mia parola a Mark. Probabilmente oggi suonerei ancora con lui».

Phil lavora senza sosta da una parte all’altra del mondo e il suo nome si fa notare soprattutto nei lavori di George Michael, di cui diventa il chitarrista di riferimento in studio e dal vivo. Poi, dopo aver suonato nella backing band del concerto per il Giubileo della Regina Elisabetta («La realizzazione di un sogno, scendeva Brian Wilson e saliva Paul McCartney»), nel 2005 gli viene chiesto di organizzare il concerto celebrativo per i 50 anni della Stratocaster, un evento mastodontico con i più grandi protagonisti dell’iconica chitarra inventata da Leo Fender. Tutti si aspettano Clapton, Mark Knopfler e Jeff Beck, lui porta Brian May, Gary Moore e David Gilmour.

«Chiaramente i primi due nomi che pensai furono quelli di Mark e Eric, ma erano impegnati in tour. Fu una grossa delusione. Cercammo di mettere insieme più epoche possibili con il meglio di quello che potevamo ottenere. Anche per Beck valse lo stesso. Jeff era semplicemente il più grande di tutti. Tu chiedi a chiunque, ti nominerà Hendrix, ma poco dopo rifletterà e farà il nome di Jeff Beck. Anche perché Jimi non ha avuto tempo di portare il suo stile verso ciò che aveva in testa, Jeff sì. Lo stesso Hendrix impazziva per lui ed Eric lo ha sempre venerato. Oppure Brian May, non certo famoso per l’utilizzo della Strato, ma che invitai comunque quella sera: per lui Jeff era tutto (May nel ’98 ha dedicato a Beck il brano The Guv’nor, nda). Suonare con Gilmour è stata un’esperienza indescrivibile: poco prima è il tipico gentleman inglese, un secondo dopo attacca la pedaliera e crea un mondo che prima non pensavi potesse esistere».

Quella sera è presente anche Amy Winehouse, di certo non passata alla storia per le doti chitarristiche. «Non la scelsi io, trovavo assurdo che ci fosse, perché completamente fuori contesto, anche se la adoravo. Il promoter voleva aumentare l’appeal della serata. D’altra parte era già una superstar. Arrivò tardissimo, tanto che eravamo nel panico, ma poi fece un’esibizione strabiliante».

In Italia, Phil ha trovato il classico luogo dell’anima. Qui alla fine degli anni ’90 ha incontrato la seconda moglie Numa, artista con cui è in simbiosi completa, e, decine di artisti a cui prestare i suoi preziosi servigi, da Eros Ramazzotti a Pino Daniele passando per l’amico e testimone di nozze Renato Zero. Un rapporto, quello col nostro Paese, iniziato però ben prima, con lo splendido lavoro fatto su Una giornata uggiosa di Lucio Battisti. È suo, infatti, l’assolo contenuto in Con il nastro rosa, considerato da molti il più bello nella storia del pop italiano.

«La prima volta in cui realizzai di essere uscito dall’ombra fu proprio in Italia. La gente mi fermava per l’esperienza con i Dire Straits, ma poi mi parlava subito di quel pezzo. Renato Zero è il più grande performer che abbia mai conosciuto, mentre Pino, beh, un’anima gigante e un musicista visionario. Eravamo molto amici, mi manca tantissimo». Forse per convincermi ad andare a vederlo, in molti mi hanno parlato di Ramazzotti come di un grande chitarrista. Avendoci passato molto tempo, azzardo la domanda: «No, non lo è (ride). Ha tante chitarre e magari dice di esserlo, ma non lo è».

Alla fine ti viene da chiedergli se, dopo quarant’anni a suonare pezzi altrui, non abbia trovato una sorta di formula segreta per immedesimarsi nella musiche scritte da altri. «Una formula non c’è, però chiaramente col tempo affini dei trucchi e arrivi a delle certezze. Mi sono trovato al momento giusto al posto giusto, è innegabile. Ma dalla mia avevo una velocità e una capacità di esecuzione così elevate che mi permettevano di lavorare nei tempi spesso folli richiesti e con svariati generi. Non ho mai sentito un pezzo prima di doverlo suonare e questo mi ha garantito la spontaneità che richiedeva chi mi chiamava. Solo quando ho iniziato a lavorare con Clapton ho capito di poter iniziare a contribuire fattivamente a un pezzo che stava nascendo. Prima mi limitavo ad eseguire, aggiungendo l’elemento della sorpresa».

Oggi Phil è un uomo felice, senza grandi rimpianti: «Ho fatto i miei errori e ho cercato di non ripeterli. Ai miei tempi, la scuola era davvero simile a quella raccontata in The Wall. Il mio insegnante di musica diceva che la musica è una perdita di tempo».

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