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Prima di giudicare Baby Gang e Neima Ezza fatevi un giro a San Siro

Siamo sicuri della colpevolezza dei due rapper fermati con l’accusa di rapina? E poi, conosciamo il contesto da cui vengono? Non è che amiamo la ‘realness’ del rap solo finché non diventa troppo ‘real’?

Foto press

Disclaimer: questo non è un articolo del tutto imparziale. Non può esserlo per forza di cose, perché chi lo scrive ha avuto modo di conoscere piuttosto bene uno dei protagonisti della vicenda, ed è scettica (per usare un eufemismo) sia sulle modalità con cui il caso è stato presentato sui media, sia sulla colpevolezza degli indagati. E non è l’unica ad esserlo. Per riassumere la vicenda: Baby Gang e Neima Ezza, due rapper ventenni del collettivo Seven 7oo attivissimo a San Siro, sono stati arrestati insieme a un terzo amico con l’accusa di aver compiuto quattro rapine a Milano e dintorni, minacciando dei coetanei per rubare collanine, denaro e auricolari. In alcuni casi sarebbero volati calci e schiaffi, in uno sarebbe stata addirittura utilizzata una pistola. Entrambi erano già stati protagonisti di diverse controversie, tra cui la sassaiola di piazza Selinunte, partita dopo che la polizia aveva cercato di disperdere decine di persone accorse per girare un videoclip in un periodo in cui gli assembramenti erano vietati. Baby Gang ha collezionato anche diversi daspo urbani, per via di una serie di risse e disordini in cui è stato coinvolto.

Restano però degli enormi dubbi sulla ricostruzione degli eventi, come dicevamo. Entrambi i rapper, ad esempio, guadagnano bene con la loro musica (Baby Gang è attualmente sotto contratto con Warner, Neima Ezza fino a poco fa era legato a un’etichetta del circuito Sony, Yalla Movement): che bisogno avrebbero, si chiedono in molti, di rubare piccoli oggetti che possono tranquillamente permettersi, e che vantaggio ne trarrebbero? Secondo i loro avvocati, inoltre, al momento dei fatti erano da tutt’altra parte, come dimostrerebbero anche diverse storie di Instagram. Baby Gang a quanto sembra in almeno un’occasione era in viaggio per Rimini dove doveva suonare, mentre le celle telefoniche di Neima Ezza aggancerebbero luoghi completamente diversi da quelli delle rapine. Il riconoscimento da parte delle vittime, si ipotizza, potrebbe essere frutto di semplice suggestione. Un po’ perché i due, che sono ormai volti noti, avevano pubblicato un videoclip intitolato proprio Rapina l’estate scorsa; un po’ perché pare che l’identificazione sia avvenuta tramite un album di foto segnaletiche battezzato dalla polizia “Baby Trap”, come riportano diverse fonti giornalistiche; un po’ perché, come è scientificamente dimostrato, i riconoscimenti cross-razziali sono particolarmente fallaci. In America si stima che circa il 42% delle volte che un bianco prova a riconoscere una persona di un’altra etnia (o viceversa) sbaglia.

Ma tutto questo sarà materia di dibattito nelle sedi competenti. Parliamo piuttosto del contesto: il quartiere di San Siro, di cui abbiamo parlato spesso su queste pagine. Non è diverso da tante altre realtà periferiche in tutta Italia, trattate alla stregua di polvere da nascondere sotto il tappeto. Quando si dice che lo Stato lì non esiste, non si sottointende che sono tutti dei delinquenti: si sottolinea piuttosto che mancano i servizi di base. In quella zona in particolare molte case popolari cadono a pezzi e vengono tenute vuote in attesa di una ristrutturazione che non arriva mai: come risultato, gli appartamenti sfitti vengono occupati da famiglie che altrimenti non avrebbero un tetto, con tutti i rischi e le conseguenze del caso. Non va meglio a chi ha un alloggio popolare assegnato, vedi il caso di Neima, che fino a qualche anno fa viveva in un bilocale al quinto piano senza ascensore, insieme ai genitori e alle due sorelle, una delle quali è una bambina gravemente disabile e non in grado di camminare (lo racconta nel documentario che abbiamo girato insieme, che è poi il motivo per cui lo conosco: racconta di lui molto più di tante altre parole lette in questi giorni). A ogni angolo ci sono cumuli di rifiuti, per malcostume generale, ma anche perché a quanto raccontano gli abitanti molti operatori ecologici sono inclini a voltare la testa dall’altra parte, quando passano di lì. E in effetti, mentre eravamo sul set, abbiamo visto parecchi furgoncini della nettezza urbana passare e andarsene, senza svuotare i cestini o caricare l’immondizia nel cassone. In compenso passano parecchie macchine della polizia, e nei periodi più caldi c’è un viavai di camionette per sfratti e perquisizioni.

I minori, o comunque i ragazzi sotto i 25 anni, a San Siro sono tantissimi: ben più che nel resto della città, come spiegano i dati del Politecnico e del progetto Mapping San Siro. In compenso, mancano del tutto le strutture per toglierli dalla strada o integrarli. Le scuole locali sono definite istituti ad alta segregazione perché gli alunni italiani di nascita scappano, facendo sì che si trasformino in una sorta di ghetto per italiani di seconda generazione. Le elementari G. Radice di via Paravia nel 2021 avevano raggiunto una percentuale record non eguagliata da nessun altro istituto milanese: 94% di alunni di origine straniera. Il che vuol dire che non tutti parlano italiano, che bisogna ideare dei programmi differenziati per includere tutti gli studenti e, soprattutto, che il senso civico e di appartenenza va disgregandosi sempre di più: se tutti i tuoi amici vengono dai quattro angoli del globo, mentre il milanese doc ti rifiuta, ti senti unicamente cittadino del tuo quartiere, non del Paese dove sei nato e cresciuto. Non va meglio sul fronte degli spazi aggregativi o ricreativi, che sono pochissimi ed esistono solo grazie agli sforzi di volontari come il Comitato Abitanti di San Siro. Sono indispensabili, perché molte famiglie hanno due o tre lavori, spesso in nero, e non hanno diritti né tempo per occuparsi dei figli. Risultato: dai 6 anni in su sono tutti in strada, tutto il giorno. Spesso anche tutta la sera.

In un contesto del genere, finire dentro giri poco raccomandabili – o, più banalmente, fare cazzate, a volte anche gigantesche cazzate – appare facilissimo, quasi inevitabile. Il crimine non è qualcosa di lontano e alieno, è economia di sussistenza, il cosiddetto hustling, come lo chiamano i rapper americani: è il tuo vicino che mette su una bancarella abusiva al mercato per rivendere merce rubata, è tuo fratello maggiore che spaccia fumo per arrotondare, è la famiglia del tuo amico che ha occupato casa perché non sapeva dove andare e poi l’ha subaffittata mentre d’estate è in Tunisia a trovare i nonni. Ed è anche il tuo amico d’infanzia che non può permettersi le scarpe firmate, anzi, a volte non può proprio permettersi le scarpe, e le scippa al ragazzino che vive 200 metri più in là, nelle residenze di lusso dove abitano i calciatori (perché il problema è anche quello: dall’altra parte della strada rispetto alle case popolari c’è una delle aree più esclusive e pregiate dell’intero parco edilizio milanese, e tutto ciò che manca nei civici pari abbonda nei civici dispari). Gli adolescenti che cercano facili scorciatoie e cascano in giochi più grandi di loro sono tanti, non solo qui: la vera differenza è che qui, quando vengono beccati, finiscono dritti in comunità o in carcere, perché non avendo famiglie ritenute abbastanza solide e affidabili non vengono affidati in prova ai genitori in attesa del processo, ma passano direttamente al livello successivo, quello del giovane delinquente con scarse possibilità di redenzione. Quando escono, spesso sono ancora più incazzati di prima, si sono fatti una rete di nuove conoscenze dietro le sbarre e, soprattutto, rischiano di diventare degli idoli per chi è come loro, ma più giovane di loro. Un circolo vizioso senza fine.

San Siro, e tutti i quartieri come San Siro, assomigliano più alla banlieue francese che alla periferia italiana. Anche nell’attitudine: molti giovani rapper che ci vivono dichiarano di non ascoltare la trap italiana perché parla solo di brand, macchine e gioielli, cose che non potranno mai permettersi. Vestono orgogliosamente in tuta e con i marchi tarocchi, anche nei video, e girano solo nelle strade e nelle piazze che conoscono bene, dove nessuno li fa sentire estranei e indesiderati. Vale anche per le piazze del web, dove vengono facilmente giudicati anche dai loro coetanei: prova ne è il linciaggio che hanno ricevuto in questi giorni sui social, perfino dai fan del rap, quegli stessi che fino a ieri li idolatravano per la loro vita sempre ai margini della legge. Evidentemente parlare del proprio vissuto reale va bene solo finché non diventa troppo reale, e la street credibility troppo credibile. Anche quello che avete appena letto è un semplice racconto, che non vuole entrare nel merito, ergersi a tribunale o trovare colpevoli. Ma umilmente vuole ricordare che la legge è uguale per tutti, che esiste la presunzione di innocenza, e soprattutto che prima di giudicare bisognerebbe conoscere.

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