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Primavera Sound 2018, le pagelle

Arctic Monkeys, Nick Cave, Björk, poi le nuove frontiere del rap di Tyler, the Creator e A$AP Rocky e le chitarre di Slowdive e Deerhunter. I nostri voti ai concerti più belli (e più brutti) ascoltati sul mare di Barcellona

Si è appena concluso il Primavera Sound, ormai senza rivali fra i grandi eventi europei, tanto vasta e variegata è la proposta messa sul tavolo dal festival di Barcellona. Quest’anno il Primavera rappresentava una scommessa per gli organizzatori, con l’hip hop entrato prepotentemente in line up – molto più degli anni scorsi – e per di più sui palchi principali. Scommessa vinta, nonostante il bidone dei Migos. Il festival, per la proposta artistica e per l’organizzazione impeccabile di ogni anno, si becca un bel 9,5 – due bidoni in due anni pesano – ma quella del 2018 è stata una delle edizioni più interessanti e riuscite degli ultimi anni.

Giovedì

Björk Voto: 10

Il suo era uno degli show più attesi dell’intero festival e le aspettative non sono state infrante, anzi. Il concerto di Björk è valso da solo il prezzo dell’intero Primavera Sound – e basta guardare il costo del biglietto per l’appuntamento romano del 13 giugno per farsi due conti. Sul palco c’è una Ninfa, contornata da arpe, flauti traverso, con l’orchestra letteralmente immersa dentro una foresta di fiori che si muove a ritmo di musica. La natura come mondo altro, oltre il digitale che domina sui mega schermi e nel suono che fa da contraltare alla grazia orchestrale, l’Utopia che Björk racconta nel suo ultimo album è rappresentata integralmente sul palco del Primavera Sound per un viaggio trascendentale che si guadagna il massimo dei voti.

Four Tet Voto: 7,5

I concerti stavano man mano finendo e al Parc del Fòrum iniziava a risuonare l’elettronica, e chi meglio di Four Tet per inaugurare le danze al Primavera, sul palco Ray-Ban, il più iconico del festival. La ricetta di Kieran Hebden è sempre la stessa, con il producer londinese sul palco tra synth analogici e DAW, tra il suono lisergico diventato suo marchio di fabbrica e la cassa in 4/4 che fa ballare il pubblico, rapito dai brani che hanno costellato una discografia fondamentale per tutti gli appassionati del genere. Le persone accorrono al live come falene attratte dalla luce: Four Tet è una garanzia e il live di un’ora tiene tutti incollati sul dancefloor fino alla fine.

James Holden Voto: 6,5

Foto: Dani Canto

Che Holden sia un camaleonte non è una novità: dal clubbing lisergico di The Idiots Are Winning passando per l’Odissea fra i modulari di The Inheritors fino al post-rock sfoggiato sull’ultimo album The Animal Spirits, dove la battaglia tra l’oscillatori e fiati, fra elettronica sperimentale e la band che lo accompagna sul palco, rappresenta il fulcro del disco e allo stesso tempo l’addio del producer alla consolle. Il suo è un live elegante, molto diverso da quello portato in scena nei tour precedenti in cui era il synth a farla da padrone mentre ora recita un ruolo da comprimario, fuso dentro il mastodontico suono psichedelico della band. Un ottimo concerto da godersi comodamente seduti sul prato davanti al Bacardi Live, ma chi era accorso al palco aspettandosi l’Holden danzereccio di una volta è rimasto fregato.

Nick Cave Voto: 9

Nick Cave sul palco del Primavera Sound. Foto: Eric Pamies

Manco il tempo di riprendersi dall’estasi di luce portata da Björk sul palco Seat che sul gemello Mango Stage inizia la messa nera di Nick Cave. Insieme ai Bad Seeds, Cave porta al Primavera quel rapporto necessariamente viscerale tra un artista e la sua musica e tra quella musica e il pubblico, ma la congiunzione metafisica all’artista australiano non basta più. Cave vuole toccare la carne del proprio pubblico, entrando letteralmente fra le prime file e accompagnandole sul palco, mano nella mano, per cantare insieme il coro dark di Push the Sky Away. Chi conosce le canzoni appena le accenna con il labiale, chi non le conosce viene investito dal pathos che ricopre il concerto più emozionante del festival.

Vince Staples Voto: 9,5

Vince Staples è in piedi davanti a una fila di schermi televisivi. In onda police brutality, basket, belle ragazze. Il palco è praticamente vuoto, insomma, e Staples ne approfitta per agitarsi come uno sciamano, accumula rime amarissime su basi esagerate e fa ballare tutti, anche chi è arrivato all’ultimo e si è ritrovato accanto al fonico. È la vera sorpresa del Primavera: 745, la nuova Get The Fuck Off My Dick, Yeah Right, anche Ascension – da Humanz dei Gorillaz – nonostante i problemi tecnici lo costringano a suonarla senza schermi e dopo un paio di minuti di silenzio. Il set del rapper di Long Beach arriva nella notte del primo giorno di festival, e non siamo riusciti a toglierci i bassi di dosso neanche tornati in Italia.

Nils Frahm Voto: 7,5

Il set di Nils Frahm è programmato a un quarto alle 2 della prima serata del festival, e arriviamo di fronte al suo palco dopo il concerto di Vince Staples, non proprio un’introduzione adatta all’ambient neo-classico. Ma funziona: dopo i primi 10 minuti di assestamento tutto il pubblico è rapito, steso per terra con lo sguardo al cielo a godersi il suono perfetto e gli intrecci sintetici del compositore tedesco.

War on Drugs Voto: 7

Foto Eric Pamies

Quando abbiamo visto i War on Drugs al Fabrique di Milano, quest’inverno, ci siamo convinti di una cosa: quella di Adam Granduciel è musica per grandi orizzonti, più adatta a palchi come quelli del Primavera che a un club come il Fabrique. Il festival ha confermato quest’impressione solo in parte. Ascoltare Red Eyes al tramonto farebbe commuovere chiunque – e così è stato – ma durante il resto del set (suonato divinamente) la mente tornava un po’ troppo spesso a quella nottata milanese. Non un buon segno.

Warpaint Voto: 8

Le Warpaint sono una band perfetta, niente da aggiungere. Suonano all’unisono, ognuna con il suo compito ben delineato e il risultato finale è un sound mastodontico, da pelle d’oca. Negli anni in cui si lamenta il funerale della chitarra elettrica, le Warpaint devono essere elette esempio per la direzione da imprimere al rock del futuro, dove arrangiamenti minimali si intrecciano tra loro fino a creare un muro inarrestabile… e sono soltanto in quattro sul palco. Se alla musica si aggiunge la presenza scenica pazzesca della band, il loro concerto può rappresentare l’ossigeno di cui la musica rock aveva bisogno per tornare a dominare sui palchi dei festival, Primavera compreso.

Venerdì

Charlotte Gainsbourg Voto: 6

Con un disco come il suo Rest ci si aspettava molto di più, ma Charlotte Gainsbourg non rapisce mai il pubblico accorso per il suo concerto, trascinato più dall’hype e dalla carriera iconica come attrice che dai trascorsi deitro il pianoforte. Lo spettacolo visivo sul palco è ottimo, con Gainsbourg e band circondati da cornici di neon, ma il risultato ricorda più un bel quadro da osservare, con la resa live che non penetra mai oltre le prime file. Rimangono comunque i brani di ottima fattura e un suono perfettamente studiato – forse troppo – e all’intero di una line up multicolore come quella sfoggiata dal Primavera la chanteuse 2.0 trova il suo spazio.

Father John Misty Voto: 7,5

Father John Misty, foto Eric Pamies

Un concerto perfetto, in cui la presenza scenica del frontman si unisce alla indissolubilmente alla voce e alla potenza delle canzoni portate sul palco Seat. Nel giorno che doveva essere ricordato come dominio dell’hip hop – sullo stesso stage avrebbero dovuto suonare gli assenti ingiustificati Migos – Father John Misty ricorda ancora, per chi se lo fosse dimenticato, la potenza immaginativa del cantautorato, sicuramente più familiare al pubblico principalmente europeo del Primavera rispetto alla trap di Atlanta, con buona pace degli impacciati dabbatori che avrebbero comunque soddisfatto le proprie velleità con Tyler The Creator o, il giorno dopo con A$AP Rocky o Skepta, dato che il turbinio hype non conosce definizioni e differenze.

Haim Voto: 6

Haim, foto Eric Pamies

Le tre sorelle Haim tornano al Primavera per la terza volta, e su un palco ancora più impegnativo, come a confermare l’aumento di popolarità che continua rapido e inesorabile da tre anni a questa parte. Sono praticamente headliner del Mango Stage, ma purtroppo il loro set è tra i più anonimi del festival: un po’ per l’apertura tamarra alle percussioni, un po’ per un’atmosfera “alla Shania Twain” che non riescono a scrollarsi di dosso. Carina l’idea di chiedere a tutti di portare qualcuno sulle spalle, ma la trovata non solleva un set che non aggiunge né toglie nulla alla loro carriera.

Migos Voto: 0

I Migos appunto, gli artisti attorno cui girava più curiosità, anche da parte di chi si è accorto di loro dai due Culture in poi e che dei brani non comprende una parola… può capitare. Offset, Takeoff e Quavo semplicemente non si sono presentati, lasciando tutti di stucco per la banalità con cui hanno cercato di scusare il bidone: “Abbiamo perso l’aereo”, niente di più improbabile considerando l’entourage con cui si muovono i tre. Dopo l’ansia da prestazione che spinse l’anno scorso Frank Ocean al forfait, anche quest’anno il Primavera incassa la beffa con stile, convocando Skepta (voto 7,5) all’ ultimo secondo, ma l’assenza dei Migos pesa, e non poco. Artisti incensati in patria, quasi terrorizzati quando si tratta di uscire dei confini statunitensi, perché se davanti al rap e ai suoi sottogeneri ancora si parla di appropriamento culturale, la colpa non è soltanto del pubblico europeo.

The National Voto: 8

Dal Mango Stage arriva un suono oscuro e una voce che sembra uscita dall’oltretomba, mentre il rapporto mistico tra chi suona e l’audience riprende da dove l’aveva lasciato Nick Cave la sera prima. Il pubblico canta all’unisono le parole digrignate da Matt Berninger, si getta di testa fra l’oscurità raccontata come pochissime altre band hanno saputo fare negli ultimi dieci anni, rapito dalle sfumature baudelairiane che per quasi un’ora e mezza portano il Primavera Sound in un’altra dimensione.

Superorganism Voto: 7

La band sul palco è emozionata, e si sente, ma il concerto in scena sul Bacardi Live si trasforma in una festa cui tutto il pubblico è invitato. I debuttanti Superoganism mettono in piedi un live trascinante, dove i colori sgargianti dell’ottimo disco d’esordio vengono amplificati in un trionfo in Technicolor. Qualche sbavatura vocale da parte della giovanissima frontwoman Orono Noguchi rende la performance ancora più coinvolgente, perché sul palco sembra esserci una band del liceo ma con un sound che non ha nulla da invidiare ai colleghi più navigati con il pop elettronico dei Superorganism che si conferma la novità più fresca dell’anno, anche al Primavera.

Tyler, the creator Voto: 8,5

Il momento più alto del set di Tyler, the creator è sicuramente l’esibizione di 911/Mr Lonely, un brano-dichiarazione tutto dedicato alla solitudine, alla fragilità, un testo surreale per il rap game ma perfetto per l’universo schizofrenico dell’ex Odd Future, che porta sul palco del Primavera un set molto più romantico del previsto. A dominare – sia a livello estetico che musicale – è l’ultimo album Flower Boy, e lo strano mix tra synth-ballad e rap schizoide funziona tanto sul disco quanto sul palco. Certo, è un po’ strano concludere un concerto rap con una ballad come See You Again, ma Tyler è rivoluzionario anche per questo. E poi cantavano tutti.

Sabato

Arctic Monkeys Voto: 7,5

Gli Arctic Monkeys al Primavera Sound. Credit: Sergio Albert.

I tempi dei ragazzini di Sheffield con le chitarre fiammeggianti sono finiti, e da un po’, ma la grande maggioranza del pubblico accorso al live dei Monkeys sembra non aver ancora superato l’hangover dei primi lavori, nonostante i tentativi disumani di Alex Turner per liberarsi dalla rete dei ricordi. Sul Mango Stage arriva una band diametralmente opposta da quella vista fino all’ultimo tour, il suono è di una pulizia disarmante anche sulle cavalcate Brianstorm o I bet that you look good on the dance floor, eseguite da Turner come lo studente modello davanti a un’equazione banale. Quando presenta i nuovi brani, Turner sembra totalmente in balia della sua nuova immagine da novello John Lennon, tanto da annunciarli come estratti dal SUO nuovo album – “From my new album”, dirà prima di sedersi al piano elettrico per l’ultimo singolo Four Out of Five. Tolto questo, la band suona in maniera impeccabile, anche se i volumi sono decisamente troppo bassi per riflettere al meglio il suono cui ci hanno abituato gli Arctic Monkeys, ma d’altronde con la distorsione tirata a sangue non ci sarebbe stato spazio per il Rhodes.

Ariel Pink Voto: 8

Arriva Ariel Pink sul Ray-Ban Stage e parte un caleidoscopio che trascina il pubblico dentro i sali scendi sonori, perfettamente orchestrati dal freak al centro del palco. Si passa dal surf rock fino alla voce growl, in un turbinio spiazzante tanto quanto l’imprevedibilità dei musicisti, capaci di spiazzare tra generi opposto in pochi istanti. Quello di Ariel Pink è un concerto che rappresenta appieno lo spirito del Primavera Sound, dove la commistione di suoni sideralmente opposti attrae più dei mostri sacri o dei nomi da cartello.

A$AP Rocky Voto: 8,5

Se qualcuno avesse bisogno di una conferma del fatto che l’hip hop fosse “accettato” dal Primavera, eccola qui. Pretty Flacko (che sul palco di Barcellona c’era già stato sei anni fa) parte in quarta, con le fiammate in faccia alle prime file, Distorted Records e A$AP Forever dall’ultimo album fanno impazzire la gente. Rocky è figo e lo sa, gioca con la telecamera e quando il suo sorrisone appare sul maxi schermo fa sorridere anche i cuori delle giovani fan. Sulla distanza un pochino stanca, forse anche perché è da solo sul palco con una testona da crash test piantata lì in mezzo. Mezzo voto in più per la tuta pazzesca.

Beach House Voto: 8

Per la prima volta il pubblico europeo ha potuto ascoltare dal vivo le canzoni di 7 , il nuovo bellissimo album dei Beach House. Si parte con Black Car e si chiude con il crescendo potentissimo di Dive, uno dei momenti più emozionanti di tutto il festival. Spazio anche ai classici di Teen Dream e Depression Cherry, suonati con la solita grazia. Ma come spesso succede al Primavera Sound, è l’inaspettato a regalare i momenti migliori. Come quando, durante Drunk in LA, tutti si sono girati a guardare i fuochi d’artificio che in lontananza chiudevano il set di A$AP Rocky.

Blaze Voto: 7

Bello, bellissimo: giorno giusto, orario perfetto, il pubblico accorso come mosche sul miele, ma?…. C’è un ma, perché la ricetta Blaze è già vista e rivista allo sfiniminento. Due musicisti uno di fronte all’altro di cui si intravedono le sagome, qualche synth a tastiera, qualche sequencer, visual intergalattici sullo sfondo, insomma niente di cui band come Moderat non abbiano abusato in passato. Tuttavia i brani sono di ottima fattura e il concerto è comunque un’ottimo spettacolo, perché anche i copioni reinterpretati possono riservare grandi sorprese.

Deerhunter Voto: 9

Alla fine del concerto dei Deerhunter ci siamo detti che non è possibile, ci sarà qualcosa su questo palco, magari spruzzano la droga con gli irrigatori. Perché sì, praticamente tutti i concerti suonati sul Ray Ban Stage sembravano stregati: Vince Staples, Thundercat, persino i Rhye (carini e cheesy su disco, sensuali e delicati sul palco). Figuriamoci i Deerhunter. La formazione live della band di Atlanta – dove evidentemente c’è vita dopo la trap – è parecchio più rock del previsto, ma funziona. Detournement, Agoraphobia e Revival aprono un set equilibrato e suonato con trasporto. La tripletta finale – Helicopter, Take Care e soprattutto He Would Have Laughed – ci ha condannato alla discussione sul concerto migliore del festival. Sarà un caso, ma i favoriti erano passati tutti su quel palco stregato.

DJ Coco Voto: 10

Ovviamente il 10 non va al DJ in sé, sarebbe una beffa per i fior fior di nomi che hanno popolato le consolle nei 3 giorni di Festival – Koze, Dettmann, Black Madonna, Âme ecc. – ma il 10 va alla chiusura del festival, come sempre spettacolare. Il pubblico si raduna tutto nell’anfiteatro del Ray-Ban Stage, mentre salgono le prime luci dell’alba: Born Slippy, i Beastie Boys con (You Gotta) Fight for Your Right (To Party!) e, in chiusura, Don’t Stop Believin’ dei Journey ovviamente, mentre i tantissimi rimasti fino alla fine si abbracciano tra loro, sarà per le pupille dilatate ma anche perché il Primavera Sound fa questo effetto.

Jon Hopkins Voto: 7

Forte di un suo format live consolidato, Hopkins torna alla carica da dove lo avevamo lasciato con il tour per il precedente album Immunity, tra sequenecer MIDI e uno stormo di Kaoss Pad. Il voto sarebbe forse anche più basso, perché da uno come lui ci si aspettava un’evoluzione ache dal vivo, ma la resa dei brani presi dal nuovo disco Singularity e da togliere il fiato, e gli occhi chiusi dei presenti testimoniano perfettamente che quando si tratta di viaggioni tra l’elettronica e la techno, Hopkins non ha rivali.

Let’s Eat Grandma Voto: 8

Hanno 18 anni, un’ironia sfacciatissima e una discreta presenza sul palco. Fanno un pop sognante, che riempiono alternativamente di balletti studiati allo specchio e di invasioni di pubblico, oltre a coreografie da gita di prima superiore. Colpiscono al cuore anche un paio di spagnoli che le riempiono di “Te quiero” dalla prima all’ultima canzone. Prego ogni giorno perché abbiano un manager serio che riconosca i segni del talento.

Lorde Voto: 9,5

È una delle poche a porsi sullo stesso livello del suo pubblico, commentiamo tra il pubblico, emozionandosi con loro e raccontandosi come una bellissima loser, mettendosi a nudo. Lo show è notevole, le hit ci sono tutte e lei sul palco sa starci alla grande (nonostante il vestito bomboniera non proprio agile). Main stage e orario da superstar, totalmente meritati. Ciliegina sulla torta? L’asciutta cover di Frank Ocean. Un dieci mancato per la scenografia un po’ scarsa.

Lykke Li Voto: 8

Il pop è un animale strano, che non finisce mai di stupire nelle sue innumerevoli metamorfosi di cui, esempio calzante, è proprio Lykke Li, esibitasi sul palco gemello di Lorde appena prima della collega neozelandese. Ed è stato l’accostamento con Lorde a rendere tutto ancora più speciale, perché le due hanno rappresentato appieno i due volti del pop del nuovo millennio, con Lykke Li a interpretare il suono algido e intimista, finché non esplode la hit, I Follow Rivers, e lo spettacolo coreografico impeccabile sul palco si trasforma in una festa che rapisce tutti i presenti.

Oneohtrix Point Never Voto: 9

Per quanto riguarda 0PN un evoluzione live c’è stata, eccome: via qualsiasi controller, dentro una band di quasi una decina di elementi, ognuno con la sua parte. Negli stessi giorni in cui veniva pubblicata la sua ultima fatica in studio Age Of, Oneohtrix Point Never lo presentava ufficialmente proprio al Primavera Sound, con tantissimo pubblico accorso al Bacardi Live anche se, dalla parte opposta del festival, suonavano i super headliner Arctic Monkeys. Per 0PN un concerto a livello delle altissime aspettative, impeccabile.

Slowdive Voto: 9,5

“Wow”, dice Rachel guardando la folla accalcata sotto il Primavera Stage. Ha ragione, c’è tantissima gente e sono tutti emozionatissimi. Alla fine del concerto saremo noi a fare nostro lo stupore: quello degli Slowdive è il miglior sound del Primavera. Tutto è cristallino, non ci sono quelle bordate di bassi – spesso inutili – dei palchi principali, e il volume è (finalmente) altissimo. La scaletta è perfetta: le novità dell’ultimo album (la meravigliosa Sugar for the Pill su tutte), i classici (When the Sun Hits ha sprofondato nelle lacrime una coppia di giapponesi dolcissimi sulla nostra destra) e anche una cover di Syd Barrett, Golden Hair, che ci ha mandato a casa sospesi sul terreno.

Tom Misch Voto: 9

Nonostante il nome non sia di grandissimo richiamo, riempie il palco Pitchfork fino al mare. Noi lo puntavamo da un po’, un bianco con questo groove jazzy notevole, una voce da crooner post-millenial, che riesce a citare J Dilla e chiamare la sorella sul palco a suonare il sax con la stessa naturalezza. Tutti ballano senza sapere un pezzo a memoria. Bello e bravo e futuro lì da prendere.

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