Quando Battiato confessò a Stockhausen che non sapeva leggere la musica | Rolling Stone Italia
Adorazioni

Quando Battiato confessò a Stockhausen che non sapeva leggere la musica

In un capitolo del libro ‘Sacre sinfonie: Battiato, tutta la storia’ da oggi in libreria, il racconto dell’incontro avvenuto a metà anni ’70 a casa del compositore tedesco

Quando Battiato confessò a Stockhausen che non sapeva leggere la musica

Franco Battiato nel 1975

Foto: Universal/Getty Images

La dedica a Stockhausen contenuta in Clic andò a solleticare l’ego del compositore, che si affrettò a rilasciare diverse dichiarazioni di stima nei confronti dell’artista siciliano che con tanto ardore l’aveva omaggiato. In capo a poche settimane il nome di Battiato varcò quindi i confini italiani e si fissò nella mente di molti appassionati a livello europeo. Uno dei più alti trofei che Franco amava sfoggiare era proprio il trafiletto di un giornale tedesco dove il “maestro” faceva il suo nome. Non desiderava certo diventare l’epigone italiano del vate dell’elettronica, il suo reale interesse era spingere gli ascoltatori a nuove scoperte. Non a caso in questo periodo si diede da fare scrivendo alcuni articoli su riviste musicali come Gong, per spiegare le particolarità delle composizioni di Stockhausen. Mise in campo un atteggiamento che sempre più lo caratterizzerà: ogni nuova scoperta a carattere evolutivo per la sua persona e la sua arte, che fosse servita per espandere i propri orizzonti e crescere, non se la sarebbe tenuta per sé ma avrebbe fatto l’impossibile per divulgarla affinché anche altri potessero godere degli stessi effetti.

Ma la vera sorpresa doveva ancora arrivare: una mattina negli uffici della Bla Bla giunse una telefonata, dall’altra parte del filo c’era il segretario personale di Stockhausen che riportava un messaggio del compositore, il quale sarebbe stato lieto di ricevere Franco Battiato nella sua abitazione a Kürten, nei pressi di Colonia, per discutere di future collaborazioni. Pino Massara non riusciva a credere alle proprie orecchie, e ancora meno ci credette Franco, quando gli fu comunicata la notizia. Uno scalino ulteriore era stato compiuto, dalla semplice stima si stava parlando addirittura di collaborazioni. Non c’era tempo da perdere, pochi giorni dopo Franco e Pino erano già su un volo diretto in Germania.

Al loro arrivo Stockhausen fu molto gentile, li fece accomodare, cominciò a parlare di Clic, lodandolo ulteriormente, e della nuova opera che lo stava tenendo impegnato in quel periodo. Si chiamava Inori, parola giapponese che significava “Adorazioni”, ed era una larga composizione per un’orchestra di ottantanove elementi, nastri magnetici, diverse parti mimiche e un’introduzione cantata. Terminata questa spiegazione nel suo inglese dal forte accento germanico, Stockhausen guardò Franco e sorrise. Un po’ in imbarazzo, lui gli sorrise a sua volta non sapendo bene cosa aspettarsi. Poi sentì pronunciare queste parole: «Ti piacerebbe farne parte?».

Stockhausen non aspettò che l’altro gli rispondesse, si alzò e sparì per qualche minuto lasciando Franco e Massara a guardarsi attoniti mentre stavano seduti su due poltrone di pelle in una stanza più ampia di tutto l’appartamento di Battiato. Al suo ritorno il compositore reggeva sulle braccia un libro enorme, i due italiani non avevano mai visto una pubblicazione tanto voluminosa. Stockhausen avvicinò un tavolino alle poltrone e vi sistemò il libro, che era fasciato da una copertina rigida verde riportante diverse scritte in tedesco. Sempre silenziosamente lo aprì e mostrò ciò che vi era dentro. Si trattava di una gigantesca partitura che si dipanava lungo tutte le molte pagine, con le parti che avrebbero dovuto eseguire i vari strumentisti e cantanti e diverse indicazioni anche per i mimi. Senza perdere tempo, Stockhausen indicò la riga con le parti vocali e disse a Franco che gli sarebbe piaciuto che fosse lui a cantarle. Il sorriso sulle labbra di Battiato si congelò; una parte di sé cominciò ad avvertire un sentimento ben diverso dalla gioia di essere stato accolto in quella casa da un personaggio così fondamentale per le sorti della musica. Guardò Pino Massara che non sapeva bene cosa dire. Nel frattempo il tedesco non aveva smesso di parlare della partitura illustrando con evidente orgoglioso ogni singola nota che il cantante avrebbe dovuto eseguire. Il viso di Franco si fece caldo, e non per la temperatura. Quella che stava venendo a galla era null’altro che vergogna.

In pochi istanti tornò alla sua infanzia. Ricordò delle sparute lezioni di pianoforte e dei tentativi, da parte dell’insegnante, di fargli capire cosa fossero quelle righe orizzontali piene di pallini e stanghette. Ma Franco non ne aveva voluto sapere e pochi anni dopo, quando aveva cominciato a strimpellare la chitarra, era stato solo il suo formidabile orecchio a permettergli di trovare gli accordi e il ritmo per accompagnarsi. Anche quando era diventato un professionista, quando aveva ripreso a esercitarsi al piano e aveva scoperto tutti i segreti delle tastiere elettroniche: in tutti quei frangenti non gli era passato per la mente di mettersi a studiare la notazione musicale, la teoria e il solfeggio che ogni compositore serio masticava come il pane. Lui veniva dalla leggera, dal rock in tutte le sue forme; generi che non avevano certo bisogno della conoscenza dello spartito per essere interessanti e dirompenti, era alla creatività che si guardava, all’originalità, all’impeto. E Franco questo impeto lo aveva piazzato ovunque nei suoi dischi, inventando con i propri strumenti melodie e accordi che sgorgavano in maniera naturale, senza alcun bisogno di teorie e di solfeggi. Tutto questo si palesò in pochi istanti, con la consapevolezza di avere forse fatto il passo più lungo della gamba. Si era dedicato a un disco di musica elettronica, addirittura a momenti orchestrali, semplicemente basandosi sul suo istinto, e aveva avuto l’ardore di dedicarlo a un personaggio che non schiacciava nemmeno un tasto del pianoforte se non aveva davanti una partitura. Improvvisamente i mondi che Franco aveva sentito così vicini si allontanarono anni luce. Erano due concezioni della musica letteralmente agli antipodi.

Mentre Stockhausen continuava con le sue spiegazioni, Franco capì che non aveva altra possibilità se non quella di essere totalmente sincero. Così, appena il compositore si concesse una pausa, fece per parlare. Accortosi che Battiato voleva dire qualcosa Stockhausen attese, immaginando un commento ammirato nei riguardi di quella formidabile opera. «Maestro» gli disse Franco con voce tremolante «io non so leggere la musica». L’altro sgranò gli occhi, rimase qualche istante a fissare Battiato e poi si voltò verso Pino Massara che in evidente imbarazzo stava farfugliando qualcosa. Poi Stockhausen si alzò in piedi facendo quasi cadere il tavolino con la partitura di Inori. La sua voce si fece tonante. Chiese spiegazioni. Cosa stava dicendo quel giovane che egli stesso aveva additato come il suo erede? Che non sapeva leggere la musica? Doveva avere capito male, sicuramente il suo inglese un po’ stentato lo aveva tratto in inganno. Ma Franco, che nel frattempo si era fatto piccolo piccolo, non potè fare altro che confermare ciò che aveva appena detto: lui di notazioni e solfeggi non ci capiva niente.

Stockhausen rimase immobile per qualche istante, fece un lungo respiro e poi si sedette di nuovo, questa volta con un lieve sorriso sulle labbra. Chiuse la partitura e la mise da parte, poi chiese al suo ospite di raccontargli il perché della scelta di non studiare musica, pur incidendo dischi e dando concerti. Franco allora gli raccontò le sue esperienze, dall’infanzia fino a quel momento, della sua grande passione, delle idee che prendevano vita grazie al suo istinto e che non abbisognavano della mediazione di uno spartito per essere fissate, perché nel rock funzionava così, molti come lui avevano seguito lo stesso percorso, alcuni con risultati molto importanti. Citò i Pink Floyd, i Beatles, i Rolling Stones, tutti artisti che non conoscevano la musica ma riuscivano a comporne di eccelsa. Stockhausen ascoltò e dovette convenire che Battiato aveva ragione, anche lui conosceva quel mondo e sapeva di quelle particolarità, ma vedeva in quel siciliano qualcosa di più alto che un semplice musicista rock, era stato sinceramente colpito dalle sue capacità e si disse ancora più convinto che con il giusto bagaglio teorico chissà dove sarebbe potuto arrivare.

Il pomeriggio si concluse con il famoso compositore che spiegava a Franco la basi della teoria musicale: realmente un insegnante d’eccezione. Pur nell’imbarazzo, l’animo di Battiato si riempì di orgoglio e si convinse che il vate aveva ragione su tutta la linea. Prima di salutarli Stockhausen aggiunse che era ancora giovane ma non sarebbe potuto arrivare a cinquant’anni facendo ancora il musicista rock, un bagaglio teorico era indispensabile. Sul volo di ritorno Battiato pensò a lungo a quelle parole, si confrontò con Massara e insieme dovettero convenire che se le sue ambizioni erano quelle di diventare un serio musicista contemporaneo bisognava mettere in atto delle scelte drastiche.

Da Sacre sinfonie: Battiato, tutta la storia di Fabio Zuffanti (Il Castello/Chinaski Edizioni)