Meriggio misterico al Prajou. Controra bretone. Altro che siesta. Sono ore che Gianni va avanti, si è messo in testa di ricreare un suono irresistibile nato il giorno prima. Un giro di basso a circolo, lo ribatte con gli echi, un suono bellissimo e penetrante che però al momento di registrare non gli esce più. Vuole evitare il loop artificiale a suon di taglia e cuci, troppo facile. Autenticità al comando. Gli altri cominciano a spazientirsi, qualcuno sbuffa, un altro sbadiglia, c’è chi è pronto a tirare giù una bestemmia sotto forma di accordo storto, a spigolo. Giovanni non sa neanche che in casa c’è uno stallo del genere, è al mare, osserva il moto ondoso. Poi il corto circuito della memoria: Gianni ricorda di aver stoppato le corde con la mano coperta da una camicia di pile tipo boscaiolo canadese. Benedetto grunge. La rimette e finalmente gli torna quel suono, felpato e ipnotico, una corrente calda.
È un invito irrinunciabile, l’energia trattenuta comincia a debordare al crepuscolo. Parte Pino con un pattern rotondo e rituale, alla Peter Gabriel, gli altri seguono. E seguono bene, tant’è che il salone si gonfia di suono proprio, vorticoso, concentrico, fino alla parte esplosiva e liberatoria; una marea elettrica in cui le chitarre navigano, si accavallano mantenendo entrambe la propria identità. Va consolidato, cristallizzato, tenuto fermo nell’onda emotiva della nascita per fissarlo in memoria e aprirlo alle parole cantate.
Al mattino si riprende, come per magia la potenza è intatta. Talmente superba la sonorità, quasi apocalittica, che arriva fino al mare. Lì trova Giovanni, che non ha i piedi in acqua perché è fermo dinanzi a una scena desertica, e quando gli arriva la marea del suono non può che trasmettere in parole ciò che la musica lascia solo intravedere.
«Quella mattina, grazie alla marea, si vedeva la sabbia. Questo gioco di maree, di acqua alta e spiagge non sempre visibili mi gratificò molto e influì sulla scrittura. Starò bene qui, mi dicevo, ma anche in riva al mare mi arrivavano i volumi potenti della musica, il vento favoriva queste folate di note così cominciai a raccontare quello che mi stava accadendo: “A tratti percepisco tra indistinto brusio particolari in chiaro” furono i primi versi. E siccome era un flusso di coscienza puro, non potevo fare altro che offrirlo a loro cantandolo velocemente, senza provarlo, senza prestare attenzione alla partitura dove non c’erano le onde del mare che sentivo prima. Furono bravissimi a preservare quella sensazione iniziale».
Nasce così A tratti: l’episodio più rappresentativo di quei giorni e del futuro disco per la genesi, l’entità sonora, la visibilità delle parti fuse tra loro, la caratura del testo che calza a pennello per ragioni che potrebbero sembrare arcane ma che tali non sono. Il metodo di composizione non è prettamente cantautorale, testo e musica non emergono nella sintonia di un unico getto di respiri frontali, riempimenti reciproci e tessere che si incastrano. Il primo passo è la creazione di un blocco musicale su cui si innestano i testi, suscettibili di labor limae: i CSI operano nel solco delle modalità tipiche dei gruppi rock classici, unità che, al netto di leadership e protagonismi, costruiscono collettivamente la loro musica. Senza partitura, insieme dal vivo in studio, in cerchio per guardarsi e sentirsi.
Questo rock implacabile e crudo, di ossatura palesemente elettrica senza l’assillo del riff portante, dell’assolo, della gestione canonica della rock song, invita Giovanni a raccontare ciò che percepiscono i suoi sensi. È un debutto – sarà giocoforza il brano d’apertura – anche per le parole, autobiografiche e caratterizzate da un accumulo di immagini, da un’aggettivazione che serve a evocare una nascita, un’evoluzione. Più che rassegnazione, più che reazione, Giovanni dà voce a un conservatorismo arcano alieno a certo vociare libertario e progressista del rock italiano: “Chi c’è c’è e chi non c’è non c’è” non è una chiamata a raccolta per manifestare su un tema caldo, “Chi è stato è stato e chi è stato non è” non è una rivendicazione di presenza e un giudizio di valore, “Ricordando che tutto va come va” non è supina accettazione dell’esistente, sono spunti filosofici sull’essere riassunti con istintiva semplicità, con la logica persuasiva del pensatore punk montano.
Colpisce anche la sua professione di distacco dall’idolatria, dal messianismo che travolge i cantanti rock benedicenti, luci bianche puntate addosso e podio papale al centro del palco. L’era dei dogmi, anche in musica, è finita con il mondo. “Non fare di me un idolo: mi brucerò. Trasformami in megafono e mi incepperò. Cosa fare non fare non lo so” indicano proprio questo bruciante desiderio, ormai esplicito e dichiarato, di non guardare a lui come un faro, non è più il tempo e soprattutto non è il caso.
«Quei versi servivano proprio a mettere subito le carte in tavola: io non rappresento coloro che vorrebbero essere rappresentati da me. Il rapporto fra palco e pubblico è complicato, io non lo so risolvere: io posso sopportare solo Ferretti, niente altro e niente di più, quindi se qualcuno ripone in me delle aspettative, quando tu ti fai un idolo a cui devolvi la tua vita, ecco no, io ne ho abbastanza della mia. Ma è una verità ovvia, io posso fare Ferretti sul palco, non l’idolo di chi viene a sentire Ferretti».
È l’inizio di una via solitaria, come quando Bob Dylan rifiutò di essere considerato la voce protestataria di una generazione, o quando John Lennon dinanzi al mito dei Beatles si voltò altrove rabbioso. Ma come sottolinea Giovanni è un problema che non si può risolvere, è un dato di fatto di cui ha consapevolezza. Allo stesso modo ha coscienza della novità timbrica della sua voce bassa, ancora non sa gestirla per bene così gli suggeriscono di cantare in maniera diversa, meno canonica: esce fuori, in giardino, accovacciato con il microfono tra le ginocchia su un tavolino di pietra per evitare le rientranze di suono che ci sono al chiuso.
Tratto dal libro di Donato Zoppo CSI – È stato un tempo il mondo (Aliberti Compagnia Editoriale).